Pubblicato il 21/2 2019 su Huffington Post
Nella sua intervista di ieri con Alessandro De Angelis in tema di rapporti fra giustizia e politica, e in polemica con Lucia Annunziata, Matteo Orfini sostiene che è sbagliato guardare a quello che sta succedendo oggi con gli occhiali del ventennio berlusconiano.Oggi infatti ci sarebbe in ballo non lo scontro fra magistratura e politica, né la questione del primato della politica, ma il funzionamento dello stato di diritto. Domanda: e ieri, invece?
A me pare che si tratti precisamente, ieri e oggi, della stesso nodo. Che non si riesce né a sciogliere né a tagliare. Anche se ovviamente, come tutti i nodi che nel corso del tempo ritornano, ritorna in circostanze e con variazioni diverse. Oggi come ieri, ha ragione Lucia Annunziata, “la” questione che si ripresenta è sempre la stessa: la pretesa della politica, ma meglio sarebbe dire dei politici, di essere intangibili dalla legge, e dunque dalla magistratura, nell’esercizio delle loro funzioni e dei loro poteri, i quali poteri derivano loro dal fatto di essere stati eletti. Questione malamente – molto malamente – rubricata da molti come “primato della politica”, e che va invece rubricata precisamente sotto il titolo del funzionamento dello Stato di diritto. L’equilibrio fra il principio di legittimità e il principio di legalità è infatti un caposaldo, forse “il” caposaldo, dello Stato di diritto: significa che chi è eletto è legittimato a rappresentare e governare, ma sotto e non sopra il controllo della legalità del suo operato, che il sistema giudiziario nel suo insieme (non solo i Pm e le procure) ha l’obbligo di garantire. Detto in altri termini, in uno Stato di diritto il primato della politica non è legibus solutus: e le leggi, non dimentichiamolo, le fa il potere politico, non quello giudiziario che a sua volta ha l’obbligo di rispettarle e non solo di farle rispettare.
Avere scambiato questo architrave dello Stato di diritto per una partita senza esclusione di colpi fra politici e magistrati è stato il fattore di massimo inquinamento del conflitto politico e del dibattito pubblico per tutta la cosiddetta seconda Repubblica, e purtroppo l’inquinamento rimane tutt’oggi, come i fatti dimostrano. Ha consentito di assumere posizioni opportunistiche, sia fra chi (soprattutto nel campo berlusconiano) gridava al complotto a ogni stormire d’inchiesta, sia fra chi (soprattutto nel campo antiberlusconiano) volentieri lasciava fare alla magistratura il lavoro che avrebbe dovuto fare la lotta politica: e questo opportunismo è tutt’altro che finito oggi, come dimostrano gli alti lai di Matteo Renzi e dei suoi sull’inchiesta che (disgraziatamente per tutti: avremmo preferito non vedere anche questa) colpisce i suoi genitori. Ha consentito alla magistratura di essere a sua volta esentata, e di auto-esentarsi, da critiche (anche i magistrati sbagliano, con i forti e con i deboli) e riforme necessarie. Ma soprattutto, ha consentito al sistema politico nel suo insieme di non interrogarsi sulle cause vere della perdita del primato della politica, tra le quali andrebbero annoverate la sua perdita emorragica di senso e di autorevolezza, la sua genuflessione alle ragioni dell’economia, la sua incapacità di autoriformarsi, la sua inarrestabile corruzione. Eccetera eccetera. Se di supplenza della magistratura si dovesse parlare, se ne dovrebbe parlare solo come effetto, non come causa, di questo quadro disperante – altro che primato – della politica.
Orfini ha del tutto ragione quando segnala che in fatto di Stato di diritto il caso Salvini-Diciotti segna un salto di qualità molto allarmante, perché negando l’autorizzazione a procedere sul ministro dell’Interno il parlamento sta altresì scrivendo il pericoloso precedente per cui il fine di un non meglio definito “prevalente interesse nazionale” giustifica qualunque mezzo, compreso il sequestro di persona, in patente violazione con i principi della Costituzione (quelli che tutti giurano da trent’anni essere in teoria intangibili, salvo farne strame in pratica). Aggiungo, a proposito di primato della politica, un particolare non irrilevante: nel caso Salvini, è la stessa legge sull’autorizzazione a procedere sui ministri che riconosce il primato della politica, dando ai parlamentari, non al sistema giudiziario, la facoltà di decidere che cosa sia e che cosa implichi (e non implichi) l’interesse nazionale. Troppa grazia per una classe politica che ancora una volta, scambiando per interesse nazionale una linea di parte come quella del governo sull’immigrazione, ha dimostrato che quel primato non lo merita e non sa esercitarlo se non a fini di autotutela e autoassoluzione.
Salutiamo perciò con soddisfazione la denuncia di Orfini sulla “deriva cilena” che il caso Salvini rischia di innescare. Purtroppo però anche qui uno sguardo sul passato non guasta. Non si ricordano infatti da parte del principale partito della sinistra denunce altrettanto allarmate in casi altrettanto gravi, per dirne uno Genova 2001 (con l’eccezione di Massimo D’Alema, all’epoca l’unico a denunciare in parlamento i metodi cileni usati alla Diaz e a Bolzaneto), o per dirne un altro, risalente non alla seconda ma alla prima Repubblica, ai tempi delle legislazione d’emergenza contro il terrorismo. Forse in fatto di Stato di diritto il Pd dovrebbe darsi, come si dice, una regolata: per il presente, per il passato e per il futuro.