Pubblicato su Jacobin Italia n.15, estate 2022
Da sempre territorio di conquista conteso fra Est e Ovest, la terra dilaniata di Ucraina – dalla radice slava kraj, “confine”: un nome, un destino – si trova a essere oggi teatro di una sanguinolenta riscrittura della coppia Occidente – Oriente, sotto le insegne di una guerra guerreggiata fra due forme di regime politico cui noi occidentali diamo il nome di “democrazia” e “autocrazia”. Così, almeno, la crosta; sotto la quale il conflitto più sostanziale che si gioca è quello fra (crisi della) globalizzazione e volontà di potenza nazionaliste e imperiali, con molte carte coperte che riguardano la produzione e la circolazione delle risorse primarie e delle merci. Ma stiamo alla crosta, cioè alla rappresentazione, che non è mai pura propaganda né pura ideologia bensì messa in scena performativa, carica di effetti politici e culturali realissimi.
Su quel teatro dunque si confrontano da novanta giorni tre narrative della guerra, quella russa, quella occidentale, quella ucraina, specchio e copertura di problemi preesistenti e preludio e incubazione di nuovi. In tutte e tre agisce un intreccio fra presenza fantasmatica del passato remoto e rimozione del passato recente, che facilita il differimento all’infinito della posta in gioco principale di questa guerra, che non è il Donbass bensì la ridefinizione dell’ordine mondiale nato dalla fine della Guerra fredda.
Soprattutto nella narrativa russa la mobilitazione dell’immaginario del passato è decisiva per la mobilitazione bellica del presente. Fin dal discorso con cui il 23 febbraio scorso annunciò la sua “operazione militare speciale”, Putin ha usato esplicitamente la storia per sollecitare l’orgoglio nazionale, inscrivendo la “denazificazione” dell’Ucraina nella scia della “guerra patriottica” russa contro il nazifascismo e inserendo il proprio disegno politico e geopolitico nella long durée dell’impero russo, di una Unione sovietica “depurata” dal leninismo e di una ritrovata alleanza con la chiesa ortodossa e i suoi valori tradizionalisti. In questa prospettiva, “l’Occidente” – termine che nella lingua di Putin è sinonimo di Stati uniti, o dell’egemonia statunitense sull’intero campo transatlantico – è imputato non soltanto dell’allargamento a est della Nato perseguito dagli anni novanta in poi, ma più radicalmente di aver imposto dopo l’89 un ordine mondiale unipolare, basato su valori individualistici e decadenti. Si tratta di una prospettiva del tutto coerente con la diagnosi putiniana – peraltro non priva di ragioni – del crollo dell’Urss come “catastrofe geopolitica epocale”, ma del tutto priva di autocritica sulle dinamiche interne alla Russia che le hanno fatto perdere la scommessa di una modernizzazione sostenibile e di un’evoluzione positiva del sistema politico. Né la plutocrazia oligarchica, né la resa a un capitalismo globale predatorio, né il rigurgito dei nazionalismi, né l’impianto illiberale e dispotico della cosiddetta “democrazia sovrana” putiniana entrano mai nel conto della perdita di potenza e attrattività del modello russo subentrato alla “catastrofe geopolitica” del ’91; le responsabilità vengono proiettate solo sul nemico occidentale, con le note conseguenze vittimiste e revanchiste. Si dirà che un sistema autocratico come quello di Putin non può legittimarsi in altro modo che glorificandosi ed espungendo da sé ogni autocritica; ma come vedremo subito questo non è un vizio esclusivo degli autocrati.
Ne soffre parimenti infatti la narrativa con cui l’Occidente a guida americana sta legittimando la sua proxy war contro la Russia per interposta Ucraina. Qui il riflesso della storia lunga entra solo di soppiatto, con la voglia, per usare un’espressione di Limes, di “farla finita con l’Orso una volta per tutte”. A essere mobilitato è piuttosto l’immaginario del nemico così come è stato riformulato negli anni Novanta dai neocon, mediante la costruzione di fronti che di volta in volta configurano lo “scontro di civiltà” in cui l’Occidente deve ingaggiarsi sotto la bandiera della difesa – armata – della democrazia. Conclusosi ingloriosamente la scorsa estate, con il ritiro da Kabul, il ventennio dominato dal paradigma dello scontro fra l’Occidente e l’Islam che dopo l’11 settembre aveva legittimato le war on terror, l’establishment non più neocon bensì liberal americano l’ha sostituito con quello dello scontro fra l’Occidente democratico e l’Oriente autocratico: uno schema che ben si adatta a rinverdire il conflitto con il vecchio e mai dimenticato nemico della guerra fredda, ma anche a preparare quello con il nuovo e più decisivo nemico cinese, nonché a regolare i conti con l’autocrate interno ancora in agguato che risponde al nome di Donald Trump.
Per capire come questa narrativa sia stata tenacemente allestita basta ripercorrere la sequenza puntuale degli articoli con cui Anne Applebaum – firma di The Atlantic, studiosa accreditata dell’area post-sovietica e oggi front-woman della proxy war sui media americani e italiani – ha anticipato ogni mossa dell’intervento “da remoto” degli Usa in Ucraina, compreso il salto dal sostegno alla resistenza difensiva del paese aggredito all’obiettivo della sua vittoria sull’aggressore. L’analisi di Applebaum poggia senz’altro su dati di realtà incontrovertibili, come l’impianto autoritario del regime putiniano, nonché su ipotesi plausibili, come quella di un disegno economico e politico che unirebbe gli “autocrati” di tutto il mondo in un fronte competitivo contro la globalizzazione a guida occidentale, e infine sulla presa d’atto che l’ordine mondiale basato sul diritto internazionale del secondo dopoguerra non funziona più. Ma soffre di quattro sorprendenti omissioni, che anche qui riguardano il trentennio post-‘89. La prima: se il diritto internazionale non funziona più è anche perché gli Stati uniti e la Nato sono stati i primi a demolirlo, ad esempio con la guerra “umanitaria” nella ex Jugoslavia e con l’invasione dell’Iraq, due precedenti che oggi forniscono un formidabile alibi all’avventura scellerata di Putin in Ucraina. La seconda: la sostituzione della base giuridica dell’ordine mondiale con una base morale che divide il mondo in buoni e cattivi non fa ordine geopolitico: al contrario, ha fin qui aumentato il disordine ovunque sia stata applicata. La terza: la democrazia è certamente il migliore, o il meno cattivo, dei regimi politici fin qui sperimentati dall’umanità, il che non basta tuttavia a trasformarla né in una religione armata né in una teleologia: come dimostrano i precedenti afghano, iracheno, libico, siriano non c’è alcuna garanzia che la sconfitta ieri dei dittatori e dei fondamentalisti, oggi degli autocrati evolva naturaliter nella fioritura di democrazie sane e vigorose. La quarta infine: le derive autocratiche non sono purtroppo appannaggio esclusivo di società orientali storicamente conformate al dispotismo (così come vent’anni fa le derive fondamentaliste non erano appannaggio esclusivo del mondo islamico): purtroppo per noi si affacciano dall’interno della crisi delle democrazie, o per meglio dire dai processi di de-democratizzazione innescati ovunque dal trionfo del paradigma neoliberale, come gli Stati uniti dovrebbero sapere dall’avventura perturbante di Trump e come l’Unione europea dovrebbe sapere dalle spinte nazionaliste e autoritarie cresciute al suo interno negli ultimi decenni.
Forse infatti lo sanno, ed è per questo che attribuiscono alla terza narrativa della guerra, quella ucraina, il valore di una sorta di cura ricostituente dell’immagine appannata della democrazia occidentale. Veniamo dunque alla prestazione politica e ideale di Zelensky, adeguatamente coreografata, dicono i bene informati, dagli story-liner hollywoodiani oltre che da quelli ucraini già sperimentati nella trasformazione del leader da attore a presidente. Qui torna l’intreccio fra uso del passato remoto e rimozione del passato recente: la memoria della Seconda guerra mondiale viene scagliata contro Putin, novello Hitler da fermare con qualunque mezzo prima che proceda a invadere il resto dell’Europa, mentre si tace delle complicità con il nazismo di cui pure la storia ucraina degli anni Trenta reca traccia. E si sorvola su tutte le tappe, dalla deriva di destra di Euromaidan alla guerra civile nel Donbass all’integrazione nelle strutture statali di ingombranti retaggi nazistoidi, che hanno reso a dir poco accidentata e controversa la strada della democratizzazione intrapresa dall’Ucraina. Ma in verità ciò che in questa narrativa conta davvero non è il passato bensì il futuro. Giovane come il suo leader, la democrazia ucraina sta lì a dimostrare che qualunque ferita può essere lenita dal desiderio di Europa e di occidente, che le offese si riscattano con l’eroismo sacrificale patriottico, che uno scacco può essere trasformato in un’opportunità, il coraggio della disperazione in un brand, l’assedio di un invasore brutale in capacità di comunicare con il mondo. La teleologia democratica è salva?
Andrebbe notato non parenteticamente che la narrativa ucraina rappresenta anche una soluzione neo-patriarcale alquanto sintomatica per chi, come la sottoscritta, vede oggi nel declino della legge del padre un tratto decisivo del disordine mondiale e di una conflittualità sociale trasversale a regimi politici diversi fra loro. Fra il recupero improbabile di un patriarcato arcaico promosso da Putin in combutta con Kirill e il post-patriarcato occidentale punteggiato di regressioni quali le manovre antiaborto che avvicinano gli Stati uniti alla Polonia, la comunicazione di guerra di Zelensky e del suo governo opta per un neo-patriarcato nazionalista basato sul recupero di valori virilisti e patriottici ottocenteschi, che divide le donne cooptando quelle disposte a indossare la tuta mimetica dell’eroismo maschile (tipica la vicepremier Irina Vereščuk) e lasciando le altre a incarnare il ruolo delle vittime designate, madri di figli perduti in combattimento, profughe destinate al mercato del lavoro precario europeo, anziane abbandonate fra le rovine delle loro case. Con i danni materiali e simbolici di questa operazione, in uno scenario in cui gli uomini si riprendono lo scettro della volontà di potenza dopo una pandemia che l’aveva messo a dura prova, bisognerà fare i conti adeguatamente, anche in relazione ai destini della democrazia.
Ma per chiudere il ragionamento abbozzato finora, qui mi preme infine sottolineare come la narrativa di Zelensky abbia sapientemente fatto leva, più che sulla solidarietà, sull’identificazione dell’Europa con la causa ucraina, sollecitandola con lo spettro dell’avanzata russa su tutto il continente, con l’assimilazione della resistenza ucraina a quella antifascista italiana, con l’aderenza dei discorsi di Zelensky ai diversi contesti nazionali a cui erano rivolti. E l’Europa ha accolto questa sollecitazione, identificando a sua volta la causa ucraina con la causa della democrazia europea tout court. E abbracciando a sua volta quella teleologia che idealizzando la democrazia perde di vista le deformazioni e i guasti che connotano oggi le democrazie reali, Ucraina in primis, e ne sfumano le distinzioni dai regimi autoritari che vorrebbero combattere frontalmente.
Anche l’Europa, e perfino più degli Stati uniti, si e ci racconta questa guerra rimuovendo le proprie responsabilità che nell’ultimo trentennio hanno contribuito a prepararla. Prima fra tutte un allargamento a Est dell’Unione volto più ad annettere al mercato i paesi dell’ex blocco sovietico che a seguirne e sorvegliarne i percorsi di democratizzazione. E dunque colpevolmente distratto rispetto alle derive identitarie, nazionaliste, sovraniste, misogine, suprematiste cresciute in quei paesi nonché, come la stessa Italia dimostra, in quelli dell’Europa occidentale. In Europa come negli Stati uniti, i processi di de-democratizzazione sono andati di pari passo con la difesa armata della democrazia e diventano galoppanti nelle fasi di guerra guerreggiata, come dimostra l’indecente militarizzazione del dibattito pubblico italiano in queste settimane. Sono questi i dati di realtà che dovrebbero fare da bussola di un agire politico sensato. Contrastare un’autocrazia aggressiva come quella russa in nome della democrazia è giusto, a patto di capire che lo scontro fra regimi politici idealmente contrapposti è in realtà meno frontale di quanto sembri, e che farne una crociata morale armata non porta ordine ma disordine mondiale. Solidarizzare con l’Ucraina aggredita è doveroso, ma identificare nell’Ucraina la nuova frontiera della democrazia europea può comportare costi altissimi per gli equilibri politici e la qualità democratica dell’Unione tutta.