Il rischio boomerang dei governi responsabili

Pubblicato su Huffington Post il 28/8/2019

Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Matteo Renzi sono tre politici fatti della stessa pasta e appartenenti alla stessa epoca. Figli del ventennio berlusconiano, ne hanno esasperato, ciascuno a suo modo, i tratti decisivi: leadership personale, politica mediatizzata, stile populista, disprezzo o quantomeno disinvoltura nei confronti della democrazia costituzionale disegnata dalla Carta del ’48. Figli del neoliberalismo e del capitalismo finanziario, giocano in politica come in borsa: spregiudicati come i broker, non seguono princìpi né perseguono strategie, ma inseguono le quotazioni delle chance presenti sul mercato politico (del resto, anche gli elettori votano ormai così, in base alle quotazioni dei leader nel borsino del media).

Sì che il primo, Matteo Salvini, può mandare all’aria un Governo chiedendo a gran voce le elezioni a Ferragosto e una settimana dopo ingranare la retromarcia sperando di restare dov’era e com’era. Il secondo, Luigi Di Maio, può prendere botte da orbi dal primo per quattordici mesi, ma lasciargli la porta aperta come un amante deluso. Il terzo, Matteo Renzi, per quattordici mesi può imbottirsi di pop corn pur di scongiurare un dialogo con il secondo e poi buttarsi a pesce in un’alleanza con il medesimo senza un se, un ma, una condizione o un condizionale. Tutti e tre del resto sono figli di un’epoca smemorata, ed evidentemente non hanno memoria nemmeno di se stessi oltre che di quello che è successo prima che venissero al mondo.

Pierluigi Castagnetti invece appartiene a un’epoca e a una politica diverse, e di come sono andate le cose in Italia quarant’anni fa dovrebbe avere memoria eccome. Sì che potrebbe essere più cauto nell’uso di paragoni storici ad usumdell’accordo di Governo giallorosso, tanto più se, come si vocifera, in quello che dice, anzi twitta, risuonano echi quirinalizi. Di fronte al bivio Conte 2 sì-Conte 2 no, Castagnetti ha premuto su Zingaretti per il sì, invitandolo a regolarsi come nel ’76 Berlinguer, il quale voleva fare il Governo di solidarietà nazionale con Moro, ma accettò suo malgrado di farlo con Andreotti pur di farlo. L’accordo Pd-M5S come il compromesso storico, Zingaretti come Berlinguer, Conte (o Di Maio) come Andreotti, Moro come lo spettro che non si reincarna ma sempre aleggia? Le due congiunture sono davvero paragonabili, e soprattutto: come andò a finire quell’esperimento del ’76, e chi ne trasse vantaggio?

Il cosiddetto Governo di solidarietà nazionale, un monocolore Dc guidato da Andreotti e sostenuto dalla “non sfiducia”, ovvero dall’astensione, del Pci, vide la luce il 30 luglio del 1976, dopo una campagna elettorale dominata dal terrore del “sorpasso” della Dc da parte del Pci (che alle amministrative del ’75 aveva conseguito il risultato senza precedenti del 33,4% ramazzando il voto di tutta la sinistra, storica e nuova). Il sorpasso infine non c’era stato (Pci 34%, Dc 38%), ma l’inedita bipolarizzazione del sistema politico (il Psi era sceso al minimo storico del 9,6%) persuase Berlinguer che era venuto il momento di stringere sulla sua strategia del “compromesso storico” fra la componente cattolica e quella comunista della storia repubblicana, e Moro sul suo disegno di una “terza fase” dell’egemonia democristiana, che avrebbe dovuto spuntare l’opposizione comunista integrandola nell’area di governo e aprendo la strada alla democrazia dell’alternanza.

Poco o nulla di quelle visioni strategiche di Moro e Berlinguer precipitò tuttavia in quell’esperimento di governo, mosso e legittimato soprattutto da un’esigenza d’ordine del sistema politico contro il “disordine” sociale e contro il terrorismo montante. Mentre negli Usa Steve Jobs fondava la Apple, l’Unione sovietica lanciava nello spazio la Soyuz 2, in Portogallo nasceva la nuova Costituzione dalla Rivoluzione dei garofani, in Libano infuriava la guerra civile, in Argentina si contavano i desaparecidos, in Germania la leader della Raf Ulrike Meinhof si impiccava nel carcere di Stoccarda, in Cina moriva Mao Tse Tung, nell’Italia del ’76 il “lungo Sessantotto” presentava il suo conto ad un sistema politico sordo alle esigenze impellenti di libertà di nuovi soggetti e di rappresentanza di nuove domande. A chi oggi di quella congiuntura riporta solo la scia di sangue terrorista, rossa e nera (giusto nel ’76, l’omicidio brigatista del procuratore Francesco Coco e quello del giudice Vittorio Occorsio firmato da Ordine Nuovo) bisogna ricordare dati di contesto come il voto congiunto della Dc e dell’Msi su una legge che dichiarava l’aborto un reato penalmente perseguibile, la ristrutturazione industriale spietata che si apprestava ad abbattere le conquiste operaie e a spaccare il mondo del lavoro fra garantiti e precari, nonché l’arretratezza delle due visioni strategiche di cui sopra, oggi tanto rimpiante, a fronte di una società trasformata dalla modernizzazione e scossa dal conflitto.

Che infatti dal Governo di solidarietà nazionale non fu ridotto ma esasperato, ed esplose nel movimento del Settantasette aprendo nella sinistra una frattura sociale, culturale e politica mai rimarginata e di cui ancora oggi si vedono i segni. Quanto al Governo, già messa in crisi nel gennaio del ’78 dall’ultimatum del Pci (fine dell’astensione, o governo o opposizione) la solidarietà nazionale toccò l’apice durante il sequestro Moro con la dissennata linea della fermezza, e con l’assassinio di Moro finì. Aprendo la strada non all’alternanza ma alla lunga stagione del pentapartito, con la rinnovata esclusione di un Pci costretto sulla linea difensiva della diversità e della questione morale. Per riparlare di alternanza e di Governo bisognerà aspettare l’89, Tangentopoli, la fine della Dc e del Psi, l’ascesa di Berlusconi, il bipolarismo della seconda Repubblica.

I governi d’emergenza non portano bene a chi si accolla l’onere “responsabile” di allestirli. Rispetto al ’76, immense sono oltretutto le differenze fra i soggetti in campo: allora si fronteggiavano due partiti a forte radicamento sociale, ideologicamente strutturati e relativamente compatti al loro interno. Oggi ciascuna forza politica è liquida, post-ideologica, precaria nel rapporto con l’elettorato e divisa al suo interno (il Pd fra Zingaretti e Renzi, i 5S fra Di Maio, Di Battista, Fico, Grillo, Casaleggio), il che accresce le possibilità dell’effetto boomerang di un’alleanza improvvisata.

Meno remoto sarebbe il paragone con il 2011, quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dimessosi Berlusconi e sotto l’emergenza della crisi finanziaria, diede vita a un diverso esperimento di solidarietà nazionale con il governo Monti, sbarrando il ritorno alle urne e impedendo così l’elaborazione nel rito elettorale della fine del ventennio berlusconiano. Anche l’appoggio esterno al Governo dei tecnici non portò nulla di buono al Pd: lungi dal contenere il populismo incipiente di M5S lo alimentò, e lungi dall’avvantaggiare il Pd sfociò nella sua “mezza vittoria” del 2013, per l’allora segretario Bersani una piena sconfitta seguita dalla scalata renziana del partito. Una catastrofe che doveva essere ben presente a Zingaretti quando, solo due settimane fa, perorava le elezioni come unico esito plausibile della crisi aperta da Salvini.

E’ vero che nel frattempo sono maturate molte buone ragioni per non andare alle urne e tentare di dar vita a un Governo giallorosso, prima fra tutte la necessità di imbrigliare i deliri di onnipotenza di Salvini nelle forme e nelle procedure parlamentari, sotto un’emergenza stavolta non economica ma politica in cui è in gioco la democrazia costituzionale oltre che il rischio di consegnare il paese e il Quirinale alla destra sovranista.

Ma per come si sta configurando, non è affatto certo che il gioco valga la  candela e sia all’altezza della posta. Fra l’arroganza malriposta di Di Maio, le rivendicazioni dell’operato gialloverde dello stesso Conte opposte alle sacrosante richieste di discontinuità avanzate da Zingaretti, la somma delle  opacità dei tre giocatori in campo di cui parlavamo all’inizio, l’effetto boomerang dell’operazione è tutt’altro che escluso. Con il rischio che, come nel ’76 ma con un segno ideologico rovesciato, sia il sociale a presentare in forme imprevedibili il suo conto alle infinite contorsioni della crisi della politica.

 

 

Informazioni su Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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