Il Quirinale in tempi di post-verità

Pubblicato il centroriformastato.it il 24 novembre 2025

Dunque il più grosso incidente istituzionale capitato fin qui fra un governo e un inquilino del Quirinale è stato montato sulla base di una mail anonima, assunta come “fonte autorevolissima” in un articolo scritto sotto pseudonimo. Copyright “La Verità” di Maurizio Belpietro, testata che tuttavia l’intero arco mediatico nazionale, di destra e di sinistra fatte salve pochissime e meritorie eccezioni, assolve sostenendo che “ha fatto il suo mestiere”. Ma davvero? Davvero fare il proprio mestiere, nel giornalismo, significa fidarsi di una fonte anonima e riprodurla pari pari senza metterci la faccia, cioè la firma, ma coprendosi con un nome finto? Lo so, ormai si fa così con tutto, e prima di tutto con le intercettazioni con i danni che ben conosciamo. Ma che ormai si faccia così’ non significa che sia ben fatto. 
Che la verità coincida immediatamente con un’informazione, e che un’informazione supposta coincidente con la verità sia immediatamente notiziabile, sono due convinzioni sbagliate e parenti strette di quella nebbia cognitiva in cui viviamo e che va sotto il nome di post-verità. Fra una fonte, fosse pure la più attendibile (e perfino la più certificabile con un audio), e la costruzione di una notizia c’è di mezzo uno spazio, che sarebbe per l’appunto lo spazio del lavoro giornalistico. Il quale non consiste solo nella verifica del contenuto, ma anche nella ricostruzione del contesto, nella ricerca di conferme e di eventuali smentite, nella valutazione dell’impatto.

Quest’ultima è l’unica a non essere mancata nel caso in questione, perché è evidente che l’impatto esplosivo del cosiddetto scoop è stato valutato e proprio per questo voluto. Dalla testata, che ci ha visto l’occasione imperdibile per rilanciare la tesi, questa sì firmata dal direttore, di un intero ventennio dominato dalle oscure trame quirinalizie volte a insediare governi non legittimati dal voto. Dal partito – e con la pressoché certa autorizzazione – della presidente del consiglio, che ci ha visto l’occasione imperdibile per aprire l’ennesimo fronte contro l’ultimo potere di garanzia e di controllo da picconare dopo l’informazione indipendente e la magistratura, ovvero il Quirinale. 

Ora, che abbattere i poteri di controllo dell’esecutivo e di garanzia della Costituzione sia “il” progetto della destra postfascista, coerente con la sua concezione plebiscitaria della democrazia e con il suo disprezzo dello stato di diritto, non vale nemmeno la pena ribadirlo. Però Meloni meglio farebbe ad assumersene la responsabilità e a risparmiarci l’ipocrisia della visita riparatrice del giorno dopo e l’annuncio di prammatica che “il caso è chiuso”. Il caso non è chiuso affatto, perché si sa come funziona la strategia del manganello simbolico delle destre di oggi: spargere veleno e qualcosa resterà. Una volta seminato il dubbio che il Quirinale è di parte e non super partes, i frutti riaffioreranno nell’opinione pubblica qualunque cosa il Quirinale dica o faccia. Tanto varrebbe per il Quirinale esercitare le proprie prerogative più coraggiosamente di quanto non abbia fatto fin qui, ad esempio evitando di avallare sia pure obtorto collo leggi smaccatamente anticostituzionali tipo il decreto sicurezza.

Veniamo alla supposta trama politica intessuta nell’alto colle e spiattellata incautamente dal consigliere Garofani, che d’ora in poi farebbe bene a realizzare che a certi gradi di responsabilità istituzionale il silenzio è d’oro e alle cene di romanisti è meglio parlare di calcio. Si tratterebbe di una preoccupazione tutt’altro che infondata per le mire presidenzialiste e anticostituzionali di Meloni, condita dalla solita ricetta degli ex democristiani ora pdini: rinsaldare l’area centrista del Pd e trovare un candidato premier centrista tipo Ruffini per battere il centrodestra alle prossime elezioni ed evitare la scalata di Meloni alla presidenza della Repubblica. Originale, no? E soprattutto insospettabile nell’area politica di provenienza di Mattarella e dei suoi stretti collaboratori. Solo che non si capisce perché se ne adonti tanto e soltanto Meloni, visto che la ricetta prevede di battere lei giustiziando Elly Schlein: due piccioni (femmine) con una sola fava, niente male per quel gruppo di anziani gentiluomini che abitano il Quirinale, nonché per quelli come Romano Prodi che ad abitarlo non ci sono riusciti.

La tempistica, infine. Lo scoop de La Verità arriva il giorno dopo una riunione del Consiglio superiore di difesa (cui Garofani è il consigliere quirinalizio preposto) convocato al Quirinale per ribadire il sostegno all’Ucraina e monitorare le esigenze di difesa italiane sulla base di una relazione del ministro Crosetto. La quale relazione pone l’Italia al centro di una guerra ibrida concentrica, proveniente dalla Russia, dalla Cina, dall’Iran, dalla Corea del Nord e volta a sabotare infrastrutture, industrie e servizi. Il che ha dato la stura a più d’una penna pronta a sostenere che anche stavolta, come si dice nel gergo ironico dei social, “ha stato Putin” a orchestrare il caso per colpire un Quirinale troppo atlantista e troppo filo-Ucraina. Si attendono prove, che ovviamente non verranno: quando c’è di mezzo l’autocrate russo l’illazione basta e avanza. 

Una cosa invece è certa e comprovata: grazie al polverone scatenato dallo scoop, la riunione del Consiglio di difesa è rimasta avvolta dal più discreto e coperto silenzio. Però delle due l’una. O lo scenario dipinto da Crosetto è fuffa di sostegno alla strategia del riarmo, oppure, se davvero siamo sotto il tiro incrociato di mezzo mondo, bisogna che se ne discuta apertamente in parlamento e nel paese, non solo al chiuso del Quirinale. Magari fosse il garante della Costituzione a ricordarlo, e se del caso a imporlo.  

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Dimmelo tu. “Toni, mio padre” di Anna Negri

“Stiamo facendo un film o una seduta di psicoanalisi?”, sbotta a un certo punto Toni-padre di fronte ai tormenti di Anna-figlia. Risposta: tutti e due, anzi: tutti e tre. “Toni, mio padre” di Anna Negri è insieme un film, un film sul film, una lunga seduta di analisi. È il film su Toni che Anna ha voluto testardamente fare, e più pareva difficile più lei lo voleva. È un film sugli inciampi, le incertezze, gli scoramenti che Anna ha dovuto superare per farlo. Ed è una lunga seduta d’analisi, con la temporalità sgranata e onirica, le scoperte e le regressioni, l’insistenza ritornante del sintomo che sono tipici della pratica analitica. Cos’è un’analisi, se non un percorso insieme tormentato e felice in cui il sintomo torna e ritorna, si presenta e si ripresenta, finché attraverso questa ripetizione si dissolve, o diventa possibile accettarlo e conviverci? 

Non è la biografia intellettuale e politica di Toni il fuoco del film, pur se essa viene restituita, per lampi e grazie anche al montaggio di Ilaria Frajoli, tutta intera: l’infanzia segnata dalla guerra e dal lutto, la cattedra precocissima nell’accademia, l’amore e il sodalizio con Paola, le prime lotte a Porto Marghera, la nascita di Anna e del fratello, il Sessantotto e Potere operaio, il Settantasette e l’Autonomia, il 7 aprile, il carcere sopportato studiando Spinoza, la fuga in Francia, Doni e Nina, il ritorno in Italia, la rinascita con Impero e con Judith. Tutto questo c’è, ma il fuoco del film è il sintomo di Anna, che si incista con l’arresto del padre il 7 aprile del ’79 e non la lascia più. Quel fatto marca un prima, l’infanzia in una famiglia piena di amici e felice, e un dopo, quando Anna, a 14 anni, diventa la “figlia di” che porta sulle spalle le colpe presunte del padre, la “testimone di una storia complicata” che vorrebbe cambiare nome, l’adolescente che dal padre chiuso in galera si sente abbandonata malgrado le lettere amorose che lui le scrive regolarmente. Anna fugge a sua volta all’estero, cambia ambiente, studia cinema. Ma l’abbandono raddoppia quando entrambi tornano in Italia, e lei invece che un ritrovamento avverte di nuovo, a torto o ragione, un’esclusione dalla nuova vita del padre. Non solo. Il mondo nel frattempo è cambiato, e la figlia di una coppia di rivoluzionari degli anni Settanta si ritrova a vivere nella società neoliberale degli anni Novanta e neofascista di oggi: “i cocci che ci avete lasciato voi rivoluzionari ce li siamo cuccati noi”. Compresa, nei cocci, la consapevolezza guadagnata nel femminismo che anche le coppie rivoluzionarie sono marchiate dal patriarcato. 

Il film è tutto un chiedere conto di questo capovolgimento della storia e delle vite, e di come sia possibile attraversarlo senza abiurare a niente, ma senza nemmeno accontentarsi della promessa che prima o poi il comunismo trionferà. Questo rendiconto, che è una rivendicazione non solo personale bensì testardamente generazionale, Anna l’aveva già chiesto al padre nel suo magnifico libro del 2009, Con un piede impigliato nella storia, che fa da precedente del film. Ma quello era un monologo; il film, invece, è un dialogo. Serrato, senza sconti né concessioni dall’una e dall’altra parte, a tratti duro, come quando Toni rivendica a sua volta il riconoscimento del suo credo rivoluzionario o come quando chiede a sua volta conto alla figlia dell’etica individualista, autoimprenditoriale e competitiva che si è impadronita della generazione degli anni Ottanta e seguenti. E proprio perché è sincero, il dialogo sposta, nel suo farsi, le posizioni dei due protagonisti. 

Vale per Anna, che rivive il dolore del passato e si lascia riprendere dalla telecamera mentre torna bambina, regredisce, piange, vacilla, si arrabbia, ha paura; ma alla fine il film riesce a finirlo, segno che è riuscita anche a prendere in mano la regia della sua vita. Ma vale anche per Toni. Che nel film conquista di fotogramma in fotogramma quella funzione paterna che Anna gli imputa di non aver saputo o voluto esercitare nella vita: si espone alle rivendicazioni della figlia ma senza arretrare, ascolta e replica ma senza sopraffare, accetta di aver trascurato le relazioni familiari ma chiede rispetto per un’esistenza ridotta dal carcere a lotta per la sopravvivenza, accoglie la sofferenza di Anna ma non rinuncia a chiederle un salto di responsabilità: “se noi abbiamo sbagliato, dimmelo tu come si fa oggi a lottare contro l’alienazione che tu stessa denunci”. Fa insomma quello che farebbe un buon padre – e persino, ma questo lui non accetterebbe mai di sentirselo dire, un buon analista. Sì che alla fine, se il mito di Toni Negri esce scrostato dalle impietose domande di Anna, la persona di Toni esce integra e potente, infragilita ma non piegata dalla malattia che lo costringe in carrozzina, ammorbidita ma non sfigurata né imbruttita dall’età. E più sfaccettata di quanto l’abbiamo mai vista. “È stato bello correre”, ma anche quando rallenta la vita è piena di luce.

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Effetti imprevisti di una furbata

(Pubblicato il 3 ottobre 2025 su centrostudiriformastato.it)

La Calabria al voto regionale anticipato per la scommessa di Roberto Occhiuto sul plebiscito. Ma Pasquale Tridico ha risollevato le sorti del centrosinistra. Riusciranno due narrative polarizzate e due programmi finalmente diversi a forare il muro dell’astensione?

Mentre l’onda scatenata dalla vicenda della Flotilla dilaga e travolge l’agenda politica nazionale e internazionale, la campagna elettorale più breve della storia porta domenica la Calabria al voto anticipato di un anno per volere del suo presidente uscente di centrodestra Roberto Occhiuto. E anche in Calabria, come altrove, la prima e fondamentale questione che si pone è se la mobilitazione straordinaria delle coscienze su guerra e pace, violenza e genocidio, neocolonialismo e repressione del dissenso riuscirà ad incrinare il muro di indifferenza alla politica ordinaria che si esprime con l’astensione (alle regionali calabresi di quattro anni fa votò solo il 44%). E non è affatto detto, non perché valga sempre il refrain “piazze piene urne vuote” ma perché la divaricazione fra la politica che ci vorrebbe all’altezza dei problemi del mondo e quella che c’è nel cortile di casa è sempre più evidente.

Per una volta però la campagna elettorale calabrese ha alzato, non abbassato, la qualità del confronto pubblico. Eterogenesi dei fini rispetto al punto di partenza, la furbata di Occhiuto che in piena estate ha creduto bene di risolvere il problema di un’inchiesta giudiziaria per corruzione pendente su di lui con un “Mi dimetto e mi ricandido” annunciato con un video via social. Motivazione dichiarata, la burocrazia regionale che a seguito di quell’inchiesta si sarebbe messa in stand by impedendogli di lavorare. Ma si sa che “la burocrazia” se la batte con la magistratura nella classifica dei capri espiatori della destra; e in questo caso l’occasione era ghiotta per prendere tutti e due i piccioni, burocrazia e magistratura, con una sola fava, la scommessa su un plebiscito popolare. Tutto in linea con il berlusconismo da cui Occhiuto – vicesegretario nazionale di Forza Italia ed ex deputato di lungo corso – proviene, e con il conseguente sovversivismo delle classi dirigenti a cui siamo ormai talmente abituati da non salire come dovremmo sulle barricate. Ma tutto astutamente pensato, anche, per prendere di sorpresa il centrosinistra, dato come al solito per diviso e impreparato, nonché lo stesso centrodestra, sospettato di scarsa tenuta rispetto ai possibili esiti dell’inchiesta giudiziaria in questione. Altri due piccioni con una sola fava.

Acchiappato il secondo, perché come al solito di fronte alla convocazione delle urne il centrodestra ha fatto quadrato, a Occhiuto è però sfuggito il primo, perché stavolta il centrosinistra si è compattato anch’esso, sulla linea del campo largo “testardamente unitario”, e ha tirato fuori un ottimo candidato, Pasquale Tridico – economista, ex presidente dell’Inps, deputato europeo del M5S – scompigliando il gioco spericolato del presidente dimissionario per finta. Sì che quella che nei calcoli di Occhiuto doveva essere una campagna elettorale tutta in discesa si è trasformata in una sfida vera, sul piano dei contenuti programmatici e su quello della comunicazione, altrettanto importante tanto più in una regione la cui realtà, complicata ma differenziata e articolata, resta sempre imprigionata in rappresentazioni stereotipate (e spesso di squisito stampo coloniale). 

Prendiamo gli slogan dei due candidati. Quello di Occhiuto, “In 4 anni più che in 40”, esalta (quando non millanta) i risultati di quattro anni di governo e punta al rilancio, sostenuta da una campagna social martellante in cui dal governatore uscente non esce mai una sola parola su quello che manca ma solo sorrisi su opportunità, bellezza e risorse. Occhiuto non è nuovo a questo tipo di comunicazione: durante il suo mandato “cambiare l’immagine” della Calabria è stato un imperativo costante, supportato da sponsorizzazioni televisive, campagne di promozione del turismo, fiction girate nelle migliori location di cui la Calabria dispone. Giusto, se non fosse che ha esagerato: l’immagine alla fine si è mangiata la realtà con i molti problemi irrisolti che restano (do you remember Berlusconi?). 

Tridico, viceversa, ha puntato tutto su quello che manca, accogliendo e ribaltando con lo slogan “Resta. Torna. Crediamoci” la narrativa classica dell’emigrazione forzata e dello spopolamento della Calabria; a supporto, la propria biografia di figlio di emigrati che si mette al servizio della terra d’origine perché ci crede, e un “Crediamoci tour” che lo ha effettivamente portato di persona, non solo via social, in tutte le aree interne, i borghi spopolati, le periferie isolate della regione. Giustissimo, ma qualche accento in più sulle realtà più dinamiche, quelle non si vive affatto male e si fa fatica a riconoscersi in una storia fatta solo di deprivazione, forse sarebbe stato d’aiuto.

Fra queste due narrative polarizzate, restano sul tappeto i punti di attrito sui problemi più scottanti e più cronici, sanità, trasporti, povertà, lavoro, intrecciati con quelli dell’uso dei fondi europei, della politica ambientale ed energetica e dell’innovazione tecnologica. Sulla sanità, Occhiuto addossa il peggio alla gestione dei commissari nominati dal governo Conte (che lui chiama per due volte Antonio anziché Giuseppe, una gaffe che pareggia e supera il conto di quelle accumulate da Tridico) e rivendica i miglioramenti accertati dal rapporto Gimbe nonché l’ormai famosa assunzione dei medici cubani: facile per Tridico ricordagli che i nuovi ospedali sono ancora in alto mare e che delle 62 case della salute programmate ne è stata aperta una sola, ma c’è Meloni che soccorre il suo uomo annunciando urbi et orbi, in coda di campagna elettorale, che il commissariamento della sanità calabrese è finito, si torna a regime ordinario. Sui trasporti lo scontro si fa ancora più duro, perché incombe l’incubo, o il sogno secondo i punti di vista, del ponte sullo Stretto, il capriccio di Salvini a cui Occhiuto si è adeguato e che Tridico demolisce con i dati, e l’esperienza diretta, dello stato in cui versano strade e ferrovie soprattutto sul versante jonico e fra le zone montane della regione: è lì che bisogna investire e non su un’altra cattedrale nel deserto. Su povertà e lavoro la proposta-vessillo di Tridico – un reddito di dignità regionale e già sperimentato in Sardegna,  finanziato con risorse europee, depurato dagli aspetti assistenziali del vecchio reddito di cittadinanza e collegato all’ingresso nel mercato del lavoro – , obbliga Occhiuto alla rincorsa con l’invenzione di “reddito di merito” di 500 euro agli studenti che si iscrivono nelle università calabresi e di un bonus di ben 100.000 euro per l’acquisto o la ristrutturazione di una casa in un borgo spopolato da eleggere a residenza. Sull’innovazione tecnologica spinge di più Tridico con l’istituzione di tre poli di ricerca scientifica; sull’innovazione istituzionale anche, con l’ottima proposta di una federazione fra le regioni del Sud; sulla cultura Occhiuto punta sui grandi eventi e Tridico risponde proponendo come assessore regionale un sindaco che ha fatto rifiorire il suo piccolo comune valorizzando gli artisti di strada. Insomma una sfida elettorale in cui la differenza fra due visioni, nonché due persone, finalmente si vede.

A favore del centrodestra gioca, non c’è bisogno di dirlo, una macchina elettorale ben più potente e strutturata di quella dei partiti del “campo largo”. Tuttavia l’andamento dei sondaggi mostra una netta riduzione del vantaggio iniziale di 8 punti del presidente uscente, che nel 2021 fu eletto con il 54% dei votanti. Con Tridico e la sua squadra i calabresi hanno un’ottima occasione per sottrarsi alla scommessa plebiscitaria spericolata di Occhiuto. Che comunque, se invece sarà eletto, dovrà affrontare a breve i risultati dell’inchiesta giudiziaria. Sarà per questo che – vedi mai – al suo fianco Meloni ha fatto candidare la viceministra degli interni e sua protetta Wanda Ferro.    

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Laboratorio Gaza, atto secondo

(Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 1 ottobre 2025)

Nel piano di pace Trump-Netanyahu Gaza diventa il terreno di sperimentazione di una inedita forma di governance che sostituisce compiutamente le forme della politica moderna con la tecnocrazia e la sorveglianza.

All’indomani dei loro interventi all’assemblea generale delle Nazioni uniti, due performance da oscar del delirio di onnipotenza l’una, della volontà di sterminio l’altra, Donald Trump e Benjamin Netaniahu hanno partorito un cosiddetto piano di pace per Gaza e dintorni che non  è un piano di pace: a prenderlo a ridere è uno show messo su per i giurati (supposti imbecilli) del Nobel per la pace cui Trump notoriamente aspira (per invidia verso Obama),  a prenderlo seriamente è un ricatto bello e buono, una pistola puntata non solo su Hamas ma su tutti palestinesi perché capiscano che o ingoiano quella minestra o “sarà l’inferno”, per dirla con le parole vellutate di Trump, e l’esercito israeliano “finirà il lavoro”, per dirla con quelle altrettanto vellutate di Netanyahu. E ovviamente lo finirà addossando tutte le responsabilità a Hamas e ai palestinesi: se la sono cercata. Come del resto se la sta cercando la Flotilla che “vuole l’escalation”, parola della presidente del consiglio italiana Meloni e del ministro della difesa Crosetto. Abbiamo ai posti di comando del mondo un manipolo di guerrafondai irresponsabili ma non c’è alcun dubbio, sono le vittime che se la cercano e sono i pacifisti che lavorano per l’escalation. Abbiamo nei ruoli di governo schiere di odiatori di professione che vivono per spargere veleno, ma non c’è alcun dubbio, è la sinistra che semina l’odio ed è Giorgia Meloni la più odiata dell’Italia e del mondo – altro delirio, di vittimismo, pronunciato dal podio del Palazzo di vetro. Nel mondo rovesciato, si sa che a rovesciarsi per prima nel suo contrario è la verità. 

Ma tornando al cosiddetto piano di pace.  Fior di analisti si stanno esercitando a valutare i suoi margini di successo, le intenzioni e le divisioni di Hamas, gli interessi e gli opportunismi dei paesi arabi, la volontà dell’estrema destra israeliana di boicottarlo per completare il genocidio dei palestinesi e perseverare nel progetto della “grande Israele”. Si vedranno presto le mosse di ciascuna pedina, e non c’è da puntare molte fiches sulla possibilità che tutte le palle vadano in buca. Intanto però il punto è un altro, anzi i punti sono altri due. 

Il primo, patente, è il fondale colonialista della proposta, una sorta di agreement fra tre uomini politici bianchi e occidentali (Trump, Netanyahu e un Tony Blair resuscitato dalla soffitta della storia e dalle macerie dell’Iraq), siglato sopra la testa di un popolo che non viene consultato e il cui destino rimane sospeso nell’aria: nessun abitante di Gaza verrebbe obbligato a lasciare la Striscia, assicura bontà sua il piano, ma non si capisce sotto quali condizioni di vita salvo la vaga promessa di massicce dosi di aiuti umanitari distribuite non è chiaro da chi. Mentre della Cisgiordania e del progetto israeliano di annettersela non si fa menzione – il che significa che non lo si autorizza ma non lo si esclude – e la costruzione dello Stato palestinese, liquidata come “pura follia” da Netanyahu all’assemblea dell’Onu, svanisce dall’orizzonte. 

Gaza diventa in compenso – secondo e più inquietante punto – il terreno di sperimentazione di una inedita forma di governance,  che consiste nell’installazione dall’alto di una Autorità “apolitica” – la “Gaza International Transitional Authority” – composta da una squadra di tecnocrati palestinesi (magari con curriculum Ivy League?), supervisionata da un ulteriore organismo presieduto da Trump, istituito dagli Stati uniti sotto l’egida dell’Onu e previa consultazione dei partner arabi e europei, e collocato in Egitto ad Al-Arish, nel nord della penisola del Sinai. Commentando questa invenzione partorita dal genio congiunto di Trump, Blair e Jared Kushner, qualcuno parla di un ritorno a una forma squisitamente coloniale di protettorato. Ma si sa che nel mondo post-moderno ogni apparente salto all’indietro nasconde in realtà un salto in avanti. Dove? In un futuro in cui la governance tecnocratica si sostituisce compiutamente alle forme politiche del governo, della rappresentanza e della cittadinanza. 

Non è chiaro di quale statuto saranno titolari i gazawi che dovessero decidere di restare nella striscia. Cittadini palestinesi, in mancanza di uno Stato cioè dell’ente da cui la cittadinanza dipende? Cittadini israeliani di serie A, B, C? Abitanti ghettizzati di un regime di apartheid? Forza lavoro a basso costo per la ricostruzione della “riviera” stile Trump-Kushner? Sorvegliati speciali grazie alle tecnologie AI già ampiamente sperimentate durante il massacro della Striscia? Quanto alla rappresentanza politica, il profilo della “squadra di tecnocrati” semplicemente ne prescinde: se ne riparlerà, forse, quando l’Anp si sarà data una ripulita. Cruciale rimane, da questo punto di vista, il modo in cui viene risolto, si fa per dire,  il “problema” Hamas, creatura notoriamente bifronte, con un’ala militare e una politica, un’ideologia fondamentalista e un radicamento sociale, una pratica terrorista e una funzione di governo guadagnata con le elezioni del 2006: una ambivalenza che il “piano di pace” scioglie, significativamente, con la decapitazione politica e il condono penale (salvacondotto per i leader, scarcerazione dei prigionieri) dell’organizzazione. 

Mesi fa avevo scritto su queste stesse pagine che Gaza si stava configurando come il laboratorio politico del nostro futuro, per via della già menzionata sperimentazione su vasta scala delle tecnologie di sorveglianza che le democrazie occidentali importano da Israele, finora soprattutto per controllare confini e migranti ma domani chissà, e che già sono oggi ampiamente adoperate negli Stati uniti di Trump per la repressione del dissenso interno. Tanto più diventa un laboratorio del nostro futuro con questo “piano di pace”. Al netto della complessità della vicenda storica, la condizione palestinese è da sempre l’indicatore di una crepa interna alla forma dello Stato-nazione, da sempre sospesa in quel lembo di terra fra un non ancora e un mai più. Con l’Authority progettata per Gaza questa sospensione finisce, e la tecnocrazia si installa nel luogo sovrano che fu dello Stato moderno con la sua relativa costellazione concettuale. Il lapsus di Trump, come tutti i lapsus, dice la verità: non della pace perpetua kantiana si tratta, bensì della pace eterna dei cimiteri, il cimitero delle forme politiche della modernità. 

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Il genocidio e la politica dell’odio

Pubblicato il 16 settembre 2025 su Facebook

Non so dire esattamente che effetto mi provoca guardare da una parte le immagini del genocidio in diretta che arrivano da Gaza City e ascoltare dall’altra parte il frastuono delirante seguito all’esecuzione di Charlie Kirk. Ci sono dissonanze cognitive insopportabili, anche per una come me che crede che la storia sia fatta largamente di contingenza, caso e caos imprevedibili e irriducibili a coerenza e a ragione. Ho passato l’estate parlando con svariate amiche di come l’incombenza della guerra e del lutto ci abbia portato a moderare toni e desideri, fossero pure i desideri più innocenti, come mettersi un bel vestito addosso o farsi un bagno spensierato. Eppure sembra che, al contrario, guerra, violenza e lutti siano l’humus ideale per fare alzare all’internazionale nera, di qua e di là dall’Atlantico, i toni della menzogna programmatica e del delirio fuori controllo.

La menzogna numero uno è quella che occulta la violenza e l’odio sistematici di cui si alimenta una destra etnocratica, razzista, suprematista, classista, sessista, omofobica e transfobica, guerrafondaia attribuendoli invece a una fantasmatica “sinistra” che ha la sola colpa (non piccola) di non rispondere per le rime barbare. La menzogna numero due è sbraitare da ogni microfono disponibile (e spesso complice) che sono tornati gli anni di piombo, il terrorismo, le Br e quant’altro. Dagli anni Settanta in poi sulla violenza politica credo di averne letto e viste di tutti i colori. Ma quello che si legge e si sente oggi supera tutti i precedenti, per ignoranza, malafede e strumentalità.

L’Italia degli anni Settanta non c’entra niente né con l’Italia né con gli Stati uniti di oggi. Allora in Italia c’era compromesso nel sistema politico e contestazione sociale, talvolta violenta e talvolta armata, contro questo compromesso da sinistra, stragismo efferato da destra. Oggi la polarizzazione, spesso fittizia e funzionale solo a scopi elettorali, è tutta interna al sistema politico, con ben poca – troppo poca – contestazione sociale. Quanto agli Stati uniti, un paese che non ha certo bisogno di ispirarsi a noi nella pratica delle esecuzioni, quello che sta accadendo lì non parla tanto di violenza politica, quanto di una sindrome sociale fatta di disorientamento cognitivo e ideologico, solitudine e alienazione individuale, dipendenza tecnologica dalle bolle identitarie in rete. Una sindrome che è precipitata nel trumpismo ed è aggravata dal trumpismo, ma affonda le sue radici nella scoperta della vulnerabilità e del declino americani. 

Trump e i suoi, negli Usa e qui, continuano a dire che l’assassino Kirk, di famiglia rep-MAGA, si era “radicalizzato a sinistra in rete”. Ma di sinistra non c’è traccia nelle tracce che il ventiduenne Tyler Robinson ha seminato. Colpisce piuttosto, nella retorica di Trump e dei suoi come pure in quella di alcune community on line di indecifrabile colore politico, il ricorso alla terminologia jihadista del “martirio” traslata in salsa suprematista bianca. La prova più triste del fallimento e dell’approdo della strategia militare e culturale dello “scontro di civiltà” che ha tenuto banco negli Usa e in tutto l’Occidente dall’11 settembre in poi.

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Per Gaza e per noi

(Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 6 giugno 2025)

Finalmente una piazza grande per Gaza il 7 giugno. E un’altra contro il genocidio, la guerra e il riarmo europeo il 21. Non c’è che da esserne felici. La convocazione del centrosinistra per la piazza del 7 è stata tardiva? Sì, ma tardi è meglio che mai e recriminare non serve a niente. È deprimente che i cosiddetti moderati alla Renzi, Calenda & Co manifestino a parte la propria equidistanza dal Governo israeliano e da Hamas? Sì, ma è confortante che AVS, PD e M5S abbiano tenuto ferma la propria piattaforma e che le loro componenti più attive e più allarmate per la sciagurata ed efferata politica di Benjamin Netanyahu, AVS in primo luogo, abbiano prevalso su quelle più pigre o più scettiche. C’è il rischio che la manifestazione di sabato depotenzi quella del 21, convocata in precedenza da Stop Rearm Europe? Al contrario, bisogna fare di tutto perché i due appuntamenti si potenzino a vicenda e perché fra le due piazze – e le due piattaforme, giacché manifestare contro il riarmo europeo è altrettanto urgente che manifestare per Gaza – ci sia il massimo scorrimento possibile.

Un diffuso e inaccettabile cinismo predica ogni giorno in televisione e nei giornali mainstream che niente e nessuno, salvo Donald Trump che non ne ha alcuna intenzione, può fermare Netanyahu, e che dunque manifestare non serve a niente. È falso, ed è un modo per non fare quello che invece andrebbe fatto.

La politica dello sterminio del Governo israeliano è la quintessenza del razzismo e del sadismo che anima e alimenta le destre in tutto l’Occidente. Non è in continuità con la causa ebraica novecentesca, ma ne è il rovesciamento autolesionista. Ed è il laboratorio di un futuro possibile da scongiurare con tutti i mezzi e per ogni dove, fatto di ossessione identitaria, pulizia etnica, deportazioni, remigration, controllo e sorveglianza “intelligenti” sulla popolazione, annichilimento dell’informazione. Un laboratorio che si avvale non solo dell’indifferenza, ma, peggio, del godimento dell’orrore di quanti da mesi e mesi ne guardano gli scorci che filtrano sui social e in tv senza alzare un sopracciglio, se non compiacendosene.

Questa fabbrica dell’orrore va fatta saltare, e questo godimento dell’orrore va spezzato. Ne va dei palestinesi, della loro sopravvivenza, della loro resistenza. Ma ne va anche di noi, e non solo perché la storia ci chiederà prima o poi dov’eravamo, ma perché da troppo tempo Gaza si è installata come l’ombra incombente di un lutto permanente sulle nostre coscienze, sul nostro inconscio, sulla nostra gioia di vivere, sulla nostra possibilità di essere felici. Da troppo tempo stiamo male, per Gaza. E per troppo tempo questo malessere è stato censurato, tacitato, reso incomunicabile, affinché il lutto non lo si potesse nemmeno elaborare collettivamente e non potesse sfociare in pratiche di condivisione, protesta e ribellione.

A poco a poco, e mentre già gli studenti delle università americane ed europee pagavano il prezzo di una repressione violenta per la loro sollevazione, abbiamo inventato i modi per uscire da una insostenibile sopportazione privata e dolente. Di città in città, di passaparola in passaparola, sono spuntati sudari bianchi esposti alle finestre, processioni di donne con in braccio le controfigure dei bambini massacrati, cortei rossi come il sangue versato a Gaza, fiaccolate notturne, scalinate dipinte con i colori della bandiera palestinese, concerti lacrimosi in piazza, striscioni negli stadi, performance artistiche, vignette di denuncia, monologhi teatrali.

Qualcuno, fra gli intellettuali e gli attivisti palestinesi, ci ha messo in guardia sul senso di queste pratiche, sostenendo che si tratta di forme occidentali di estetizzazione del lutto, che, pur animate dalle migliori intenzioni, rischiano di riprodurre il discorso coloniale e di spoliticizzare la questione palestinese, rappresentando il dolore in forma astratta e decontestualizzata, rimuovendo le cause strutturali della violenza e evocando lacrime e pietà laddove si tratterebbe di costruire un’alleanza politica. “Le nostre morti diventano metafore, i nostri corpi segni estetici. Ma noi non siamo simboli, siamo persone, e ci stanno ammazzando. Voi organizzate veglie, noi lottiamo per la nostra liberazione”, ha scritto il poeta palestinese Mohammed el-Kurd, lamentando che la ritualizzazione del dolore finisca anch’essa col tacitare le voci e l’esperienza reale dei palestinesi.

Mi sembrano sospetti comprensibili ma infondati. Di fronte al panorama di morte e macerie in cui siamo immersi sia pure da spettatori e non da protagonisti diretti, le pratiche di condivisione del dolore e di elaborazione collettiva del lutto sono un passaggio cruciale e ineludibile della presa di coscienza e della mobilitazione politica. Infatti hanno smosso acque che erano molto stagnanti. Se adesso le piazze si affollano e se l’opposizione è in grado di pretendere dal Governo italiano atti concreti e ufficiali di sanzionamento del Governo israeliano, lo si deve anche e prima di tutto a quelle pratiche, nate come fiori nel deserto all’incrocio fra l’impotenza della ragione, la forza del desiderio e la necessità della rivolta.

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Gaza, il laboratorio del nostro futuro

(pubblicato su Facebook e su centrostudiriformastato.it il 26 e 30 maggio 2025)

Pochi giorni fa ho avuto la fortuna, grazie a un’amica (di cui non faccio il nome per non metterla nei guai), di parlare con un giovane (di cui non faccio il nome per non metterlo nei guai) che lavora per l’Organizzazione mondiale della sanità e che rientrava per qualche giorno in Italia da Gaza. Sentire raccontare dal vivo le cose che leggiamo o guardiamo sui social e in tv fa ovviamente un altro effetto. Ad esempio, toglie già il sonno sapere che i feriti che hanno la fortuna di arrivare in ospedale devono sopportare di essere operati senza anestetico, ma lo toglie due volte se la persona con cui stai parlando queste operazioni senza anestetico le ha viste fare di persona. Da questo incontro ho tratto le seguenti informazioni e considerazioni. 

1) Il progetto di pulizia etnica che il governo israeliano sta portando avanti procede senza alcuno sconto. Una parte della popolazione palestinese viene uccisa con le bombe o con armi intelligenti (spesso puntate volutamente sui bambini), un’altra parte viene costretta ad andarsene con mezzi ricattatori, un’altra parte viene sospinta in un quadratino nella parte meridionale della Striscia. 

2) Questo quadratino è l’unico lembo di terra che potrebbe restare ai palestinesi, il resto della Striscia essendo ormai tutto nelle mani dell’esercito israeliano; il famoso “Stato palestinese”, ove fosse riconosciuto anche dai paesi fetenti come il nostro e gli USA e da Israele, consterebbe dunque di questo lembo più la Cisgiordania, dove però com’è noto la colonizzazione degli israeliani procede senza remore.

3) La popolazione di Gaza e gli operatori di ospedali e ONG sono sottoposti a un’azione di sorveglianza e controllo h24: esercito e servizi israeliani sanno tutto di tutti, e in base alle informazioni che hanno dosano minacce e avvertimenti (ad esempio, ti buttano giù il muro di cinta della tua casa per invitarti gentilmente a levarti di torno, e se non ti levi torno ti bombardano anche l’interno. 

4) Il cosiddetto piano di aiuti che Israele dice di volere autorizzare è in realtà un piano di ulteriore vessazione, ricatto e selezione della popolazione palestinese. Il cibo verrà sadicamente razionato (non più di 1.700 calorie al giorno), verrà erogato – non più dalle organizzazioni internazionali ma da contractors al servizio di Israele – solo nel suddetto quadratino, sì da sospingere lì i gazawi, e verrà distribuito selettivamente, secondo l’esito dello spionaggio a tappeto di cui sopra. 

5) Governo ed esercito israeliano, dopo avere com’è noto impedito l’accesso a Gaza ai giornalisti, stanno ora cacciando con le buone o con le cattive anche gli operatori degli ospedali e delle istituzioni umanitarie internazionali, cosa che, per quanto riguardo gli italiani, la Farnesina non può non sapere ma tace. 

6) I gazawi erano più di 2 milioni all’inizio della guerra ma si calcola che ora si siano ridotti del 40%: il conteggio dei morti oscilla fra i 60 e gli 80.000 (il 60% dei quali donne, bambini e anziani) ma se si contano le morti prevedibili per fame, sete, inquinamento, mancanza di cure si arriva nei prossimi cinque anni a 500.000. Ai quali vanno aggiunti i palestinesi che sono riusciti ad andarsene dalla striscia. 

7) Fra i sopravvissuti, i più vogliono in tutti i modi resistere alla deportazione forzata in Egitto, in Giordania, in Libia o chissà dove, paesi che peraltro notoriamente non li vogliono e che in più d’un caso sono ricattati economicamente e tenuti sotto scacco dagli Stati Uniti. 

8) I palestinesi che vogliono resistere ci chiedono di fare pressione sui nostri governi perché anche quelli che non l’hanno ancora fatto, come l’Italia, riconoscano lo Stato palestinese. Personalmente io non credo da tempo nella soluzione “due popoli due Stati”, e fra la resistenza e l’esodo, se fosse possibile (ma oggi non lo è, da Gaza non si può uscire) sceglierei l’esodo. Ma se i palestinesi vogliono resistere lì e chiedono di aiutarli a ottenere il riconoscimento del loro Stato, bisogna fare quello che loro chiedono. 

9) In conclusione, la situazione è senza uscita.

Tutto questo, si dirà, lo sapevamo. Sì. C’è una cosa però che non si dice mai, perché cozza con l’immaginario coloniale che ancora ci permea tutti/e: Gaza non è una situazione residuale, la coda estenuata di un passato che non passa e non si risolve. Non è nemmeno soltanto l’indice più evidente di un mondo impazzito. Gaza è il laboratorio del nostro probabile e prossimo futuro: di un futuro fatto di deportazioni autorizzate (compresa la remigration vagheggiata dai neonazisti europei), e soprattutto di sorveglianza, controllo, dossieraggi, spionaggio, con le tecnologie e l’intelligenza artificiale usate dal potere politico e militare per gli scopi più nefasti. Se non la pietà, l’orrore e la vergogna, questo almeno dovrebbe farci mobilitare con tutte le forze di cui disponiamo.

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Le “cose nuove” di Leone XIV

(pubblicato su centrostudiriformastato.it l’ 11/5/2025)

Non sapevamo nulla del cardinale Prevost quando si è affacciato alla loggia di San Pietro in qualità di Papa Leone XIV. Due minuti dopo, grazie a internet, a Wikipedia e alla sala stampa del Vaticano, sapevamo tutto della sua biografia, della sua formazione agostiniana e della sua passione per il tennis e per il pollo fritto, ma sempre troppo poco per dedurne che tipo di papato sarà il suo, malgrado le deduzioni proprie e improprie cominciassero a fioccare da tutti i media del mondo mentre le sue prime parole sulla “pace disarmata e disarmante” ci confortavano sulla tenuta di una parte almeno, la più impellente, dell’eredità di Francesco.

Quello che sappiamo e che abbiamo realizzato subito, perché ci è stato mandato a dire con inequivocabile chiarezza, è che la Chiesa, l’istituzione-Chiesa, ancora una volta ha reagito ai segni dei tempi con una mossa veloce e magistrale. Passano in secondo piano, a occhi profani, le mediazioni e le alleanze interne al conclave che hanno costruito le convergenze su un candidato sottostimato – e che tanto stanno a cuore ad alcuni liberal-conservatori di casa nostra, preoccupati solo di vedere ricucite le smagliature e i dissidi di una gerarchia traumatizzata e disorientata dalla rinuncia di Ratzinger e dal “peronismo argentino” (sic) di Bergoglio (Massimo Franco sul Corriere della sera).

Quello che balza in primo piano è piuttosto il fatto che di fronte al disordine mondiale in cui siamo immersi, e di cui sono magna pars la frattura interna all’Occidente fra Stati uniti ed Europa e la crisi verticale in cui versa sotto ogni profilo la democrazia statunitense (non che quelle europee stiano molto meglio), la Chiesa globalizzata riunita e rappresentata nel Conclave più multiculturale della sua storia abbia reagito non evitando il campo minato, come avrebbe potuto fare eleggendo un papa asiatico o africano (ipotesi ben più coerente con i tempi di quanto non sarebbe stata quella di un “ritorno all’Europa”, o all’Italia), ma decidendo di attraversarlo e di sfidarlo con tutto il peso della propria autorità, incarnata da un papa che da quel campo viene e che lo conosce a fondo.

Come dire “vedo” in una partita di poker geopolitico, nella quale il giocatore principale, Donald Trump, bluffa in continuazione, annuncia e smentisce contratti di pace, mette e toglie dazi, gode nel deportare migranti e nell’arrestare dissenzienti, e – non bastasse – osa travestirsi lui stesso da papa. O per fare un paragone meno irriverente, come se oggi la Chiesa percepisse lo stesso smottamento dell’ordine mondiale che con largo anticipo sulla politica secolare percepì nel 1978, quando allo smottamento dell’impero sovietico rispose con la mossa preventiva, e decisiva nel seguito della vicenda storica, dell’elezione di Karol Wojtyla.

Prevost, leggiamo da giorni, sembra avere tutte le carte in regola per giocare al meglio sia la partita geopolitica sia quella interna alla Chiesa. Nato e cresciuto da genitori europei a Chicago (cuore delle contraddizioni dell’America profonda, ma anche “città santuario” dei migranti), missionario in Perù, è il primo papa statunitense ma con una formazione anche europea e sudamericana, quasi a condensare quell’apertura universalistica che negli Stati Uniti e nell’Europa sovraniste di oggi vacilla – e infatti è stato sostenuto in conclave dai cardinali del sud del mondo, a conferma che dalla Chiesa globale di Francesco non si poteva tornare indietro, ed è visto come il fumo negli occhi dai trumpiani, che lo hanno già bollato come la nuova “marionetta marxista in Vaticano”. Capo del dicastero dei vescovi per volontà di Francesco, conosce la macchina della Chiesa e può mediarne le tensioni interne.

L’autonomia e l’autorità della Chiesa ne escono riconfermate, a onta degli “anti-papa” che usano la religione come protesi impropria del loro potere autocratico. E però, si sa che questa autonomia e autorità si avvalgono di una sostanza dottrinaria più ampia di questi riflessi politici e geopolitici. E sul piano dottrinario si vedrà che cosa ci riserva l’agostiniano Prevost. Conforta quell’appello iniziale a una pace “disarmata e disarmante” scagliato contro l’escalation bellicista dei potenti della Terra. Confortano i tweet contro l’ordo amoris gerarchizzato e blasfemo di J.D. Vance. Ma hanno già suscitato perplessità forti due “passaggi stonati” (Vito Mancuso) sull’ateismo nella prima omelia del nuovo Papa. E allarmano le sue chiusure del passato sulla posizione delle donne nella Chiesa e sulle istanze LGBTQ+. Decisiva sembra comunque la motivazione che Prevost stesso ha dato della sua scelta di chiamarsi Leone XIV, la necessità di sporgersi oggi sulle trasformazioni indotte dall’intelligenza artificiale come Leone XIII si sporse ai suoi tempi con la Rerum novarum sulle trasformazioni del mondo del lavoro. Sulla rivoluzione antropologica in corso Leone XIV promette di mettere i piedi nel piatto e di dire la sua.

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La macchia nera

(Pubblicato su centrostudiriformastao.it il 28 aprile 2025)

Ogni volta che un papa muore e un papato termina, l’imponente coreografia di Piazza San Pietro – la sua geometrica potenza, verrebbe da dire se non suonasse blasfemo – testimonia la grandezza dell’istituzione-Chiesa, che tale permane nonostante la sua tanto proclamata crisi. E ogni volta quella coreografia sembra fare posto ai potenti della terra solo per dimostrare loro che fra la politica della Chiesa e la politica secolare non c’è partita, perché la prima mantiene, con il rigore formale e l’esattezza dei codici, quella tensione alla trascendenza che la seconda ha completamente perso e rinnegato, anche e tanto più quando fa della religione un’arma impropria di legittimazione del potere.

Tutto sembra ripetersi uguale nell’ossequio della tradizione: la bara del pontefice al centro della scena; nell’anfiteatro attorno, sulla sinistra il rosso e l’oro dei cardinali e il viola dei vescovi, sulla destra il nero dei capi di stato e di governo, costretti all’ordine alfabetico; più in là il bianco del clero; infine, come fosse da accogliere ma tenendolo a debita distanza, il popolo che accorre vestito come può. Eppure, nella continuità della scenografia e del messaggio, quale differenza fra il funerale di Francesco oggi e quello di Giovanni Paolo II vent’anni fa.

Allora, il rigore delle forme e l’esattezza dei codici rappresentava una Chiesa ancora imperiale, che era nata dalla sconfitta del comunismo anzi ne era stata parte determinante, accettava la sfida della globalizzazione ma guardandola ancora da un supposto centro europeo, rifletteva, e spesso anticipava, il cambiamento delle forme della politica: la curvatura populista del rapporto fra il capo e i fedeli (checché se ne dica oggi, è stato Wojtyla, non Bergoglio, il primo papa populista), l’accentuazione biopolitica del governo dei corpi e delle anime, l’uso spregiudicato dei mass media nella costruzione dell’egemonia.

Oggi, la riforma apparentemente minima della liturgia funeraria voluta da Francesco ne smonta di fatto il sostrato gerarchico, e riporta alla più ampia riforma che ha contrassegnato il suo pontificato. La bara uguale a quella dei comuni mortali e senza catafalco toglie al vicario di Cristo l’aura regale e lo umanizza; il percorso da San Pietro a Santa Maria Maggiore, a bordo della papamobile bianca e frugale e in mezzo a due ali di fedeli, ribadisce che la Chiesa deve uscire dal perimetro dello Stato vaticano, e il popolo dal ruolo di contorno della tribuna dei potenti; l’approdo a Santa Maria Maggiore fra gli “scarti” umani – detenuti, migranti e trans, occultati dalle televisioni mainstream – riflette la Chiesa “aperta a tutti” e “ospedale da campo” di Bergoglio, con al centro un Papa che non si è limitato a parlare al suo popolo ma è andato a incontrarlo nelle periferie del mondo, sui confini fra gli Stati e ai margini della società, portando la croce e la redenzione di Gesù dove più forte è il disagio, più stridenti le contraddizioni, più acute le ingiustizie, più violente le reclusioni e le deportazioni.

Dove cioè la volontà di potenza del “capitalismo sfrenato” ha mostrato il suo risvolto catastrofico. A differenza di Giovanni Paolo II, della globalizzazione Francesco non ha attraversato la fase trionfante bensì quella fratturata dall’incombenza di crisi devastanti, da quella climatica a quella pandemica a quella migratoria, e dal ritorno in grande stile della guerra al centro della scena. E a differenza di Benedetto XVI, non ha cercato di affrontarle concimando le radici cristiane dell’Europa, le ha afferrate una per una spostando radicalmente il punto di vista aldilà del perimetro dell’Occidente. Se non è una rivoluzione, di certo è una rotazione dalla quale la Chiesa prossima ventura non potrà prescindere: non solo nella prosecuzione (o nel tradimento) dell’agenda di Bergoglio, ma anche e tanto più negli orientamenti che si troverà ad assumere, mediando necessariamente fra prospettive culturali assai diverse, sulle questioni ad alto impatto antropologico e ontologico – sacerdozio femminile, sessualità, genere, post-umano, intelligenza artificiale – che Francesco ha lasciato aperte e che incombono sul prossimo futuro.

Da questa rotazione non dovrebbe prescindere neanche chi in attesa del conclave si esercita a ipotizzare quale sarà la Chiesa post-bergogliana, applicando automaticamente e malamente alla comunità cristiana gli schemi, peraltro consunti, della politica secolare occidentale. Un fatto è certo: sulle grandi sfide globali del nostro tempo, la voce autorevole di Francesco non ha trovato interlocutori alla sua altezza. Non sulle questioni come la crisi ecologica, la pandemia, le migrazioni, che domandano un governo dell’interdipendenza globale e alle quali la politica ha risposto invece erigendo muri e gonfiando i muscoli dei nazionalismi. Non sulla “guerra mondiale a pezzi”, l’allarme massimo di Francesco rimasto inascoltato precisamente da quanti non gli hanno mai perdonato il suo mancato allineamento con il fronte occidentale, tanto in Ucraina quanto in Palestina.

Quei muri e quella sordità restano sul campo come un marchio d’infamia della classe politica responsabile di un disordine mondiale ormai fuori controllo. La fiera dell’ipocrisia che si è scatenata in morte di Francesco non basta a rimuoverlo, come non bastano due foto-opportunity strappate nel backstage del rito del commiato. Sul sagrato di San Pietro, quella della tribuna politica era e rimane una macchia davvero nera.

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Totalitarismo democratico. Il testamento politico di Mario Tronti

(Pubblicato il 7 aprile 2025 su Il Tascabile Treccani)

Si vive in tanti modi, si muore in tanti modi. Dare forma alla propria fine è un modo per ricomporre la forma della propria vita, e per consentire a chi resta di ereditarla senza sfigurarla. Non è da tutti: ci vuole del talento, e il dono del tempo necessario per poterlo fare. Mario Tronti, uno degli intellettuali comunisti più originali e influenti del Novecento italiano ed europeo, è morto il 7 agosto 2023 a novantadue anni, dopo una malattia abbastanza veloce da sottrarcelo senza che noi – le sue “amicizie politiche”, come gli piaceva chiamarci – ce ne rendessimo conto, ma abbastanza lunga da fargli licenziare il libro a cui stava lavorando. “Questo è pronto”, aveva detto consegnandolo a sua figlia Antonia pochi giorni prima di andarsene. Il testo è ora in libreria per il Saggiatore, a cura di Giulia Dettori, titolo (hegeliano) Il proprio tempo appreso col pensiero, sottotitolo (scarno) “libro politico postumo”. La copertina bianca con sopra il tronco di un albero rosso riproduce la ginestra essiccata che Tronti aveva fatto verniciare nel giardino della sua casa di Ferentillo dove si rifugiava a scrivere, ma funziona anche come citazione cromatica del quadro di El Lisitskiy del 1920 sulla rivoluzione bolscevica, Spezza i Bianchi col cuneo rosso, di cui Tronti teneva sempre una copia bene in vista sulla scrivania e che ricorre anche in quest’ultimo scritto. 

1. La risorsa della memoria

Si tratta di un testo intenzionalmente, non accidentalmente, postumo, come prova un appunto dell’agosto 2021, risalente a ben prima della malattia, ritrovato per caso in uno dei tanti quaderni su cui Tronti annotava di tutto e posto ora in esergo al testo: “Un libro volutamente postumo, lasciato forse non finito. Scrivo non alcune pagine, ma alcune righe al giorno, e non tutti i giorni…un distillato di pensiero”. Un lascito ereditario dunque, affidato performativamente a un testo che (anche) sul tema dell’eredità ruota. L’eredità del Novecento nel secolo successivo che ne è un rovesciamento, l’eredità della politica moderna nell’epoca dell’antipolitica postmoderna, l’eredità del Movimento operaio nel tempo della sua sconfitta certificata. La postura è quella dell’angelo di Benjamin, con lo sguardo su un panorama di rovine e il futuro alle spalle: “Il passato in generale, e il passato novecentesco in particolare, sta davanti a noi come una città morta che il tempo ha devastato. Ma le rovine sono a cielo aperto. Nascoste sotto i detriti vivono dimenticati tesori di civiltà”.

Di fronte a questo deposito archeologico, e contro “il vuoto di memoria voluto e coltivato” dai “cattivi eredi” del movimento operaio che ne hanno dissipato il lascito, la memoria diventa una “risorsa antagonistica” strategica, il conflitto sull’interpretazione del passato diventa un conflitto sul presente, la decisione sull’eredità – su che cosa della tradizione merita di rivivere, e come – diventa una decisione politica. Alla rilevanza per il presente di questa triangolazione fra storia, memoria e tradizione Tronti ci aveva già abituati, con il “pensiero della fine” – fine del Novecento, finis Europae,fine della politica moderna, fine del conflitto di classe – che ha caratterizzato l’ultimo trentennio della sua produzione. Ma nel libro-testamento c’è un salto di tono e di umore. Se in precedenza la scrittura trontiana aveva il timbro di una pratica di elaborazione del lutto, adesso il lavoro del lutto è finito. “Le illusioni sono tutte consumate, i rischiaramenti tutti esauriti, le volontà abbattute, le velleità tutte ridicolizzate”: si può e si deve ricominciare da capo. “Dalla critica di tutto ciò che c’è”, perché nel conformismo pervasivo che connota lo spirito del nostro tempo è in primo luogo l’attitudine alla critica che è andata perduta: “Siamo in una condizione pre-marxiana”, dentro un contesto dominato da un dispositivo accelerato di innovazione reazionaria. Perciò, “mordere nuovamente bisogna. Con passaggi inediti, e strumenti sorprendenti, e strappi nella tradizione teorica, e ricongiungimenti con la tradizione storica”. 

Questo libro infatti morde in profondità, colpendo al cuore il discorso pubblico dominante, di destra e di sinistra, con una interpretazione in controtendenza della fase storica e politica che va dal 1989 ai giorni nostri, interpretazione che a sua volta riverbera sulla lettura dell’intero Novecento approdando a una critica affilata della “democrazia reale” che dopo la Guerra fredda si è imposta come il regime politico vincente e come l’unico desiderabile. Basterebbero i due imperativi programmatici posti al centro del volume – “liberare la rivoluzione dal socialismo” e “liberare la libertà dalla democrazia” – per far trasalire tutto quel novero di uomini e donne “catturati dai lustri del Palazzo e dai meriti dell’Accademia”, nonché dalle luci del palcoscenico mediatico, nei quali Tronti vede i principali responsabili del “lento graduale processo di imborghesimento dei ceti politici e intellettuali” del nostro paese. Ma prima di addentrarsi nei contenuti del libro è bene fermarsi ancora un momento sul significato che questo lascito testamentario “volutamente postumo” assume a conclusione della traiettoria teorica e politica dell’autore.  

2. La traiettoria di un “politico pensante”

Mario Tronti è da decenni consacrato in Italia e nel mondo, ed è stato ricordato nel momento della morte anche dall’informazione mainstream, come il padre dell’operaismo italiano. Inscindibilmente legata alla sua opera più famosa, Operai e capitale (Einaudi, 1966), alla scossa antistoricista e antidogmatica che quel testo provocò nel marxismo italiano di allora, alla risonanza da cult-book che ebbe nel contesto delle lotte operaie degli anni Sessanta e del movimento del Sessantotto, questa definizione è incontrovertibile. E tuttavia non dev’essere considerata esaustiva dell’intero percorso di Tronti, soprattutto se finisce con l’oscurarne l’ultima stagione, incentrata sulla critica della democrazia politica, cui egli attribuiva la stessa intenzionalità sovversiva della prima, incentrata sulla critica dell’economia politica. Tronti stesso del resto, in una concisa e autoironica autobiografia filosofica scritta nel 2008 per Bompiani (poi in Dall’estremo possibile, a cura di Pasquale Serra, Futura 2011) avvertiva il rischio di poter restare “quasi imprigionato” nell’icona del leader teorico dell’operaismo (“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì,scrisse in un’altra circostanza).

Sia chiaro: non si tratta di disconoscere la matrice operaista del percorso di Tronti, né di derubricarne la portata. Basta leggere uno dei suoi testi più intensi, Noi operaisti (introduzione al volume su L’operaismo degli anni Sessanta, DeriveApprodi 2008), per capire quanto l’esperienza di Quaderni Rossi e Classe operaia, le due riviste-laboratorio dell’operaismo in cui maturò anche la stesura di Operai e capitale, abbia segnato per sempre la sua postura esistenziale e intellettuale,   cristallizzandosi in uno “stile” inconfondibile: “dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di stato d’eccezione intellettuale permanente” (Fuori norma. Lo stile operaista, “il manifesto”, 20/6/2006). Nemmeno si tratta, come pure è stato fatto insistentemente, di giocare una contro l’altra le diverse stagioni del percorso trontiano, soprattutto la seconda, quella incentrata sull’autonomia del politico, contro la prima, quella operaista. Più volte Tronti ha rivendicato l’intima coerenza di un itinerario che mantiene fermi alcuni punti di metodo e di merito – il punto di vista di parte, la critica radicale dell’esistente, l’intreccio originale fra marxismo antidogmatico, tradizione politica moderna, cultura della crisi, teologia politica – modificando di volta in volta il campo dell’analisi e l’oggetto della messa a fuoco, in stretto rapporto con le domande poste dal contesto storico-politico. 

A volerla ripercorrere in estrema sintesi, l’analisi trontiana si concentra sul rapporto fra capitale e classe nella fase operaista, calata nelle lotte di fabbrica degli anni Sessanta; si sposta sulla sfera politica all’inizio degli anni 70, quando Tronti avverte che il conflitto anticapitalistico deve varcare i confini della fabbrica e assumere il politico come campo d’iniziativa autonomo dall’economico e dal sociale  (Sull’autonomia del politico, Feltrinelli 1972);  ingaggia di conseguenza, durante i venti anni d’insegnamento all’università di Siena,  un  corpo a corpo con i classici del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Nietzsche passando per un blasfemo accostamento fra Marx e Schmitt (Hegel politico, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1975; Il tempo della politica, Editori riuniti 1980; Il Politico, Feltrinelli 1979-‘82). Si sporge oltre i bordi della tradizione politica moderna, verso il pensiero teologico e mistico, quando il cambio di stagione annunciato dalle trasformazioni del capitalismo degli anni Ottanta domanda l’elaborazione di un nuovo paradigma antropologico-politico (Con le spalle al futuro, Editori riuniti 1992). E si concentra nell’ultima stagione, quella già citata del “pensiero della fine”, sulla critica della democrazia, sullo statuto della libertà e sul rilancio del criterio del politico in tempi di antipolitica (La politica al tramonto, Einaudi 1998; Dello spirito libero, Il Saggiatore 2015; Il popolo perduto, con Andrea Bianchi, Nutrimenti 2019). Fra un passaggio e l’altro, costante rimane il rapporto insieme problematico e inossidabile con il Pci (e poi con il Pds-Ds), e incessante la frequentazione di reti di elaborazione collettiva come la rivista “Laboratorio politico” negli anni Ottanta, l’eremo camaldolese di Montegiove e la rivista Bailamme” fra anni Ottanta e Novanta, il Centro studi per la riforma dello Stato di cui Tronti è stato presidente dal 2004 al 2015. 

Chi volesse approcciare per la prima volta e nella sua interezza questo percorso dispone oggi, oltre che della monografia su Tronti di Franco Milanesi (Nel Novecento, Mimesis 2014), dell’ottima antologia dei principali testi trontiani uscita nel 2017 per il Mulino con il titolo Il demone della politica e curata da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat, tre dei giovani studiosi di cui Tronti amava circondarsi negli ultimi vent’anni, in grado di ereditarne il lascito anche “per cesura” generazionale, come essi stessi scrivono e com’è giusto che sia. E chi volesse addentrarsi nell’annoso ma sempre vivo dibattito sul rapporto fra il Tronti operaista e il Tronti pensatore del politico dispone altresì del piccolo e prezioso Anatomia del Politico (Quodlibet 2022, anch’esso curato da Jamila Mascat), che raccoglie un dibattito parigino del 2019 fra Tronti, Etienne Balibar e Toni Negri precisamente sulla “tensione tra la continuità del punto di vista e la discontinuità dei punti di svolta”, come scrive Mascat, dell’itinerario trontiano. Vi si rintracciano tra l’altro, attualizzati, tutti i motivi della divaricazione delle due traiettorie di Tronti e Negri rispetto alla comune matrice operaista, nonché, avanzate da Balibar, alcune obiezioni che dalla prospettiva dei teorici della democrazia radicale possono essere rivolte alla prospettiva trontiana di critica radicale della democrazia. 

Ma per tornare al libro postumo, ecco come qui lo stesso Tronti chiude la questione della coerenza della sua traiettoria: “E comunque si sappia che tutto questo accidentato percorso di matta e disperatissima ricerca – operaismo, autonomia del politico, teologia politica, spiritualità e politica, grande pensiero conservatore, urlo di profezia, concretezza di utopia e perfino monachesimo combattente – ha in sé un filo che lega i passaggi, gli attraversamenti, tutti mirati a un al di là rispetto a questo tipo di mondo, a questo tipo di vita. Dietro, a fondamento, il punto di vista di parte, conquistato una volta per tutte, in giovane età”. Ed è vero che la tonalità battente di questo ultimo testo e la sua mira polemica contro “il senso comune intellettuale di massa” riportano, come in una magica chiusura del cerchio della vita, al “primo” Tronti. Tuttavia non è un caso che il cerchio si chiuda su questo testo, che porta a sintesi e coronamento “l’ultimo” Tronti, e non su un altro. Come se nel momento della fine “il pensatore politico, anzi il politico pensante”, come Tronti era solito definirsi per sottolineare la vocazione militante del suo lavoro filosofico, ci invitasse a non rinchiuderlo nella galleria dei classici, dove un posto post-mortem non si nega a nessuno, nemmeno al padre fondatore di una tradizione sovversiva come l’operaismo, ma a confrontarci con il suo messaggio più urticante per il presente e fin qui non abbastanza recepito, con il  “passaggio più difficile, aspro, respingente, improponibile”, della sua ricerca: la critica, “urgente e incomunicabile”, per non dire blasfema, della religione democratica, nell’epoca in cui su di essa a tutti, e a tutte, viene richiesto ogni giorno un giuramento di fede, quando non un arruolamento armato.

3. Alle radici della democrazia

Il progetto intitolato “Per la critica della democrazia politica”, parafrasi e complemento della marxiana critica dell’economia politica, venne lanciato da Tronti – ne sono testimone diretta – in un seminario alla Certosa di Pontignano del 1988, quando gli eventi del 1989-91 non erano né previsti né prevedibili, ma il XVIII congresso aveva già innescato nella cultura del Pci la sostituzione dell’”orizzonte del comunismo”, come lo chiamava Cesare Luporini, con l’orizzonte liberaldemocratico, sostituzione che diventerà esplicita e programmatica con la svolta della Bolognina all’indomani del crollo del Muro di Berlino. Da allora la critica della democrazia reale non ha più smesso di contrassegnare la produzione trontiana: compare già in Con le spalle al futuro, viene messa a tema in due saggi del 2001 e del 2005 entrambi intitolati per l’appunto Per la critica della democrazia politica, si fa più affilata nelle Tesi su Benjamin che concludono La politica al tramonto, ricompare in Dello spirito libero, si cala nel vivo della crisi della sinistra e dell’emergenza populista ne Il popolo perduto. Fin dall’inizio si intreccia con la reinterpretazione storica del Novecento, mette in tensione filosoficamente la tradizione del pensiero liberale con quella democratica, e nel corso del tempo si confronta con la cronaca della crisi estenuante ed estenuata delle democrazie contemporanee. Soprattutto, e a differenza dei molti altri discorsi sullo stato delle democrazie occidentali, non guarda solo né tanto al disfunzionamento dei sistemi politici e istituzionali: va, a monte, alla radice del paradigma democratico, mettendo sotto analisi le sue aporie costitutive; e insiste, a valle, sulla crisi antropologica che attacca lo stato di salute del demos ancor più di quanto non appaia compromesso quello del kratos. Questo stesso impianto analitico ritorna nel libro-testamento, ma supportato da una diagnosi più stringente dei processi storici che ne radicalizza la prognosi politica. 

4. Il biennio bianco

Il punto di partenza è la data spartiacque del 1989-91, il “biennio bianco” come lo chiama Tronti riprendendo il titolo del suo intervento a un convegno del Crs sul trentennale della caduta del Muro. Il nome, in evidente contrapposizione con il “biennio rosso” operaio del 1919-20, dice la cosa. Celebrati dalla narrativa neoliberale dominante, di destra e di sinistra, come l’inizio di un’era di libertà, progresso economico e ordine mondiale, l’abbattimento del Muro e il crollo dell’Unione Sovietica – il secondo per Tronti più importante del primo, per implicazioni e conseguenze storiche e geopolitiche – sono stati in realtà il sigillo di un’età di restaurazione. Più precisamente, il coronamento definitivo del “ritorno all’ordine” decretato dalla Trilateral già nel 1973 contro il “disordine” sociale degli anni Sessanta-Settanta, e portata avanti già durante gli anni Ottanta dalla ristrutturazione post-industriale del capitalismo e dalla razionalità neoliberale, unite nel demolire le condizioni di esistenza del conflitto di classe.

L’89-91 completa l’opera, con una tragica ambivalenza che la versione dei vincitori traduce in una marcia trionfale. Il crollo del Muro sancisce sì la liberazione dall’oppressione totalitaria dei regimi dell’Est, ma con la libertà degli individui scatena anche quella degli “spiriti animali” del capitalismo che quei regimi “avevano malamente trattenuto”. Il collasso dell’Unione sovietica mette sì la parola fine a un esperimento fallito, ma con la fine di quell’esperimento viene decretata anche la fine tout court del conflitto fra capitalismo e socialismo. Abbattuta la carica simbolica del suo Altro, scrive Tronti, resta in campo solo la potenza indiscussa del capitalismo reale – ma qui si potrebbe dire, con Lacan, il Reale del capitalismo, o con Mark Fisher il “realismo capitalista” –, senza più nemmeno la pensabilità di un’alternativa di sistema.

Non avere tenuto aperta questa pensabilità è l’imperdonabile colpa che Tronti attribuisce alla sinistra post-89, italiana ed europea. Il “biennio bianco” segna una rottura in senso proprio catastrofica del corso della storia, che andava pensata come tale e contrastata con un contrattacco, e che invece i cattivi eredi del Movimento operaio hanno interpretato come una tappa evolutiva verso il meglio, accodandosi alla narrativa dominante e attaccandosi alla tara storicista e progressista della propria cultura.  Nessuna lettura critica della fine della Guerra fredda da parte degli sconfitti, nessun laboratorio paragonabile alla Vienna o alla Weimar del primo dopoguerra. Nessuna analisi del perché e per come “un miracolo cominciato con il ‘che fare?’ di Lenin sia giunto alla fine con le sbronze di Eltsin” senza riuscire a mettere al mondo “l’uomo nuovo”, ovvero un’antropologia politica alternativa a quella della società capitalistica. E dunque, nessun tentativo di salvare l’assalto al cielo del 1917 dai misfatti dello stalinismo e dall’esito fallimentare del socialismo reale (“Quei regimi meritavano di cadere? Sì. Quell’esperimento meritava di morire? No”). Nell’”agghiacciante silenzio dei perdenti” la narrativa messianica dei vincitori – modernizzazione, globalizzazione e democrazia come unico regime politico legittimo e desiderabile, da esportare con le buone o con le cattive – diventa l’unico paradigma in campo. “I postcomunisti ne rimasero abbagliati, come il gatto che di notte si ferma davanti ai fari dell’auto in corsa”. 

Da quell’abbaglio, le sinistre europee non si sono mai più riprese; e basta pensare alla loro sostanziale indistinguibilità dal fronte di centro-destra nella gestione europea della guerra d’Ucraina per capire quanto pesi tuttora nella loro cultura politica un difetto d’analisi dell’89-91 e dei suoi effetti di lungo periodo. Ma è la vicenda del principale partito della sinistra italiana, con quel progressivo slittamento dall’aggettivo “comunista” all’aggettivo “democratico” senza più neanche il sostantivo “sinistra”, a restare la più emblematica su scala continentale di quello che dopo l’89-91 non fu affatto il “nuovo inizio” allora predicato, bensì “un cupio dissolvi” e “una resa senza condizioni”. Per uno come Tronti, che del Pci-Pds è stato un iscritto fedele ancorché eterodosso per quaranta anni, e che del Pd è stato senatore sia pure indipendente dal 2013 al 2018, si tratta di un giudizio forse tardivo, ma definitivo e senza appello.

5. Il fantasma del capitalismo

Ma non è solo dal punto di vista delle sorti della sinistra che con l’89-91 “i conti non sono stati fatti”: il “biennio bianco” riverbera all’indietro, sulla lettura complessiva del Novecento, e in avanti, sulla lettura complessiva del presente. È una tesi nota e discussa di Tronti, fin da La politica al tramonto, che la fine dell’assetto bipolare del mondo chiuda l’epoca della “grande politica” basata sul criterio amico/nemico, di cui la Guerra fredda e il conflitto di classe sarebbero state l’ultima e civilizzata forma, e apra un’epoca di spoliticizzazione di massa sotto le insegne della democrazia. Nuova è invece in quest’ultimo libro l’analisi delle variazioni che il criterio dell’amico/nemico subisce fra la Prima e la Seconda guerra mondiale, con effetti che si prolungano per tutta la Guerra fredda e arrivano ai giorni nostri. 

È con la Seconda guerra mondiale che alle motivazioni militaristiche tradizionali dei conflitti armati subentra il paradigma di ascendenze medievali della guerra giusta e moralmente giustificata contro un nemico identificato come il male assoluto. Non poteva che essere così, ed era giusto che fosse così, sottolinea Tronti, contro il nazismo che combatteva a sua volta in nome della superiorità della razza ariana: “Nasce sui cruenti campi di battaglia la contrapposizione ideale fra democrazia e totalitarismo che segnerà la seconda metà del Novecento”. E “il Movimento operaio degli anni Trenta fece la scelta giusta, irreversibile, di schierarsi dalla parte della democrazie”, mettendo fra parentesi il conflitto di classe per dare la priorità ai fronti popolari antifascisti; la guerra civile spagnola e la Resistenza italiana restano nella loro drammaticità scuole ineguagliate di formazione di un’intera generazione. Senonché “Qual è il problema? Il problema è che quella parentesi non si è più chiusa”. Lo schema di gioco della contrapposizione fra democrazia e totalitarismo trapassa intatto dalla Seconda guerra mondiale alla Guerra fredda, con la conseguenza nefasta dell’equiparazione fra il totalitarismo nazista e quello comunista, che furono invece radicalmente diversi, anzi contrapposti, per origini e fini. E rimane operativo anche dopo la fine della Guerra fredda, quando viene periodicamente riattivato nella sequenza di guerre “giuste” condotte in nome della democrazia contro nemici di varia natura, dai terroristi ai dittatori agli autocrati, ogni volta rappresentati come il male assoluto e ogni volta paragonati, non a caso, a Hitler. La risposta del fronte atlantista all’invasione russa dell’Ucraina (sulla quale Tronti si esprime più ampiamente nella bella intervista con Andrea Ampollini che chiude la recente riedizione DeriveApprodi de La politica al tramonto) è l’ultimo esempio di questa sequenza.

Non solo. Nel corso dei decenni il conflitto democrazia/totalitarismo ha finito con l’oscurare, anzi con l’eclissare, il conflitto di classe. “Si guardi a quanto è facile oggi essere antifascisti, quanto difficile essere anticapitalisti”. Si potrebbe obiettare, e molti di sicuro obietteranno, che oggi, di fronte alla nuova “internazionale nera” che va stringendo in una tenaglia le due sponde dell’Atlantico, essere antifascisti torna a essere un esercizio tutt’altro che facile oltre che necessario. Ma proprio la difficoltà di assegnare automaticamente alla categoria storica del fascismo le nuove destre, figlie dell’epoca neoliberale e contraddittoriamente intessute di reazione tradizionalista e innovazione capitalista, di gerarchismo e libertarismo, di protezionismo anti-globale e liberismo sfrenato, dimostra che oggi come e più di un secolo fa l’antifascismo senza analisi e critica del capitalismo rischia di essere una postura tanto nobile quanto insufficiente. Un’altra sveglia che suona, o dovrebbe, per una sinistra di cui il capitalismo è diventato, come denunciava Slavoj Žižek già svariati anni fa, il “fantasma fondamentale”, rimosso e innominabile.

6. L’individuo senza qualità

Dunque che cosa resta, un secolo dopo, della contrapposizione frontale fra democrazia e totalitarismo che ha plasmato il discorso teorico e orientato le politiche e la geopolitica novecenteschi, e che tuttora si ripresenta nel dibattito pubblico nella forma della contrapposizione fra democrazia e autocrazia? La categoria apparentemente ossimorica di “totalitarismo democratico” cui Tronti approda nel libro-testamento – ma che compare già nel primo dei due già citati saggi Per la critica della democrazia politica, e  ricompare nella produzione successiva – dice che quella contrapposizione non funziona più o non è più così frontale, e suggerisce di ripensare entrambi i termini che la compongono,  nelle differenze che li distinguono ma anche nelle segrete affinità che li accomunano, o nelle porosità che rendono possibile lo slittamento dall’uno all’altro. 

Tronti definisce il totalitarismo come “un sistema chiuso, internamente totalizzante, che mira a introiettare la funzione del potere nelle singole soggettività”, uniformando e massificando la coscienza individuale attraverso un forte apparato ideologico e l’uso dall’alto di mezzi di formazione di un consenso fideistico. Totalitario, attenzione, non è sinonimo di autoritario: che i due totalitarismi novecenteschi si siano avvalsi di metodi e forme di governo autoritari non esclude che la vocazione o la deriva totalitaria di un sistema politico possano presentarsi senza supporto autoritario o repressivo, o con un supporto autoritario debole infiltrato nella centralizzazione e verticalizzazione delle forme di esercizio del potere. Che è precisamente quello che sta accadendo nelle democrazie contemporanee. Dove la massificazione procede grazie alla “conta quantitativa dell’individuo senza qualità” e all’omologazione delle forme di vita, “la dittatura non è imposta con la violenza ma introdotta con il messaggio”, e “la servitù volontaria prende il posto della proibizione imposta”. 

Non si tratta per Tronti, si badi, solo dell’effetto contingente delle note tendenze degenerative dei sistemi democratici contemporanei (torsione maggioritaria, presidenzialismo, uso manipolativo dei massmedia), bensì di una deriva inerente allo statuto del modello democratico, contrassegnato ab origine da una matrice identitaria che annoda demos e kratos e non sopporta il taglio conflittuale della differenza (e infatti lo assorbe costantemente in un differenzialismo inclusivo che si ribalta sempre in pluralismo identitario). A questa deriva totalitaria originaria – che spiega fra l’altro il rispecchiamento fra popolo e leader tipico dei populismi contemporanei – se ne aggiunge al compimento della parabola democratica un’altra, che è la controfaccia del trionfo planetario conseguito dalla democrazia dopo l’89-91, un trionfo che consacrandola come destino universale senza alternative ne alimenta perciò stesso la pretesa totalizzante.

7. La libertà raggirata

Ma se queste derive totalitarie sono vere, e se il totalitarismo è nemico della libertà, occorre spezzare il nesso automatico e scontato che tanto nella teoria quanto nel senso comune lega democrazia e libertà. Non si tratta solo, sul piano politico, di prendere atto che nelle democrazie contemporanee, tutte attraversate dai processi di massificazione della società e di verticalizzazione e personalizzazione del potere di cui sopra, “la libertà non viene negata ma raggirata” e il suo esercizio “diventa sempre più formale”. Si tratta anche di prendere atto sul piano teorico che la democrazia può divaricare dal liberalismo e rivelarsi invece compatibile con il totalitarismo. Accade all’esito di un processo storico e concettuale che per un verso ha annodato libertà politica e libertà economica fino a sovrapporle, per l’altro verso ha creduto di presidiare la libertà politica agganciandola a un sistema di diritti e garanzie giuridiche che finisce con l’essere complice di un individualismo esasperato e spoliticizzato. E accade all’esito di un gigantesco equivoco, anche questo teorico e politico, che equiparando autorità e autoritarismo ha messo in contrapposizione libertà e autorità. 

Fra libertà e autorità – qui è esplicito il debito di Tronti con il laboratorio teorico-politico del femminismo della differenza – va riattivato invece un circolo positivo, perché la libertà è correlata al riconoscimento spontaneo della valenza simbolica dell’autorità e ne è potenziata.  E viceversa, l’autoritarismo spunta proprio nei sistemi politici caratterizzati da un potere privo di autorità: una condizione, quest’ultima, che accomuna la parabola fallimentare del socialismo reale, dove l’esperimento rivoluzionario non ha generato una classe dirigente alla sua altezza, e la crisi terminale delle democrazie reali, dove il deficit d’autorità della politica sta alla radice dell’antipolitica e del populismo. Ne consegue un duplice compito, concettuale e pratico. Per un verso l’autorità va riformulata in positivo contro la sua identificazione corrente con l’autoritarismo, e “la distinzione fra potere e autorità acquista una portata strategica”. Per l’altro verso la libertà va riformulata come autonomia di pensiero contro il conformismo dilagante e come libertà affermativa, politica e relazionale contro la sua concezione individualistica e impolitica corrente. Repressa dai totalitarismi, impensata o subordinata all’eguaglianza dal marxismo, ridotta a libertà negativa dal liberalismo, a libertà di mercato dal neoliberalismo, a catalogo di diritti dal costituzionalismo, la libertà è il problema che il Novecento ci consegna aperto, e oggi più che mai domanda, come diceva Hannah Arendt, di essere rimessa al mondo.   

8. Democrazie senza politica

Al fondo, ciò che muove la critica trontiana della democrazia non è solo la constatazione che le democrazie contemporanee mostrano una crescente incapacità di governare crisi sistemiche ricorrenti (economiche, ecologiche, pandemiche, belliche), ma soprattutto la duplice convinzione che la base quantitativa e contabile del paradigma democratico è strutturalmente convergente con la logica capitalistica della merce, e che la  democrazia reale si è rivelata  “la forma politica finora meglio riuscita di neutralizzazione e spoliticizzazione del conflitto sociale”. Quest’ultima tesi è correlata al punto forse più contestato – anche dalla sottoscritta – dell’ultimo Tronti, la sua svalutazione del Sessantotto come una stagione solo illusoriamente rivoluzionaria, di fatto riassorbita dai processi di modernizzazione capitalistica e di inclusione democratica. E’ vero che nel ragionamento trontiano la denuncia della deriva spoliticizzante della democrazia fa velo alla comprensione dei processi di politicizzazione – non solo della sfera produttiva ma di quella riproduttiva, e della vita intera – che dal Sessantotto e dal femminismo in poi i movimenti sociali non cessano di innescare, scuotendo il teatro democratico e invadendolo con forme di soggettivazione irriducibili alla sua contabilità individualistica, alla sua grammatica dei diritti, alla sua sintassi rappresentativa. Ma è anche vero che il problema dell’effettiva capacità di rottura antisistemica di queste insorgenze è un punto irrisolto in tutta la teoria politica critica contemporanea, da quella marxista e moltitudinaria di Toni Negri e Michael Hardt a quella post-marxista e populista di Ernesto Laclau.

Lascio aperto questo punto – peraltro a mio avviso indecidibile solo in punta di teoria – per fare un’ultima considerazione. Tronti ha sempre presentato la sua critica della democrazia come una postazione teorica priva di implicazioni pratiche contro la democrazia. “Si può fare oggi critica della democrazia politica accettando, difendendo, sviluppando, riformando i sistemi politici democratici”, aveva scritto qualche anno fa (Dello spirito libero, p. 183) rivendicando, come altre volte, lo scarto fra teoria e pratica che spesso gli è stato contestato. Quella trontiana è dunque soprattutto una sfida per la pensabilità e l’immaginazione di un’altra forma di vita e di regime politico, contro le pretese universali e totalizzanti della religione democratica. Questa sfida deve partire dalla presa d’atto che il paradigma democratico è ormai realizzato e compiuto, che la sua crisi non dipende dalle sue promesse mancate, come sosteneva Norberto Bobbio già mezzo secolo fa, ma dalle sue premesse realizzate, e che dunque “è scaduto il termine per un uso diverso del concetto” (ibidem) e si sono ristretti i margini per riformarne gli esiti storici. 

9. Credere nel possibile 

Rispetto a quando, un anno e mezzo fa, Mario Tronti ha licenziato il suo libro-testamento, la storia si è messa a correre rendendo tanto più difficile quanto più necessario “apprendere il proprio tempo col pensiero”. E ha impresso un’accelerazione vertiginosa alla crisi della democrazia, che oggi non appare tanto, o soltanto, assediata da regimi autocratici ostili, come recita la vulgata dominante, quanto divorata dalle sue contraddizioni interne, come dimostra la parabola degli Stati Uniti trumpiani nonché il moto retrogrado delle democrazie europee verso suggestioni neo e postfasciste che parevano consegnate all’archivio della storia. Il sodalizio fra democrazia e liberalismo sembra avviato a un divorzio tutt’altro che consensuale, l’autoritarismo avanza forte del consenso popolare, l’ottimismo progressista delle sinistre post-89 viene stracciato dal futurismo tradizionalista della coppia Trump-Musk, il capitalismo tecnocratico e oligarchico è chiaramente intenzionato a emanciparsi definitivamente dalle correzioni redistributive novecentesche e comanda alla politica di riarmarsi, la libertà individualistica, prestazionale e competitiva dell’epoca neoliberale evolve nel libertarismo sovranista di quelli che possono basato sulla schiavitù e la deportazione di quelli che non possono. 

Ma mentre la crisi della democrazia galoppa, la critica – e l’autocritica – tace, balbetta, indugia su rattoppi inefficaci e su retoriche poco credibili, si rifugia dentro trincee difensive friabili. Non ci voleva l’aggressione di Putin all’Ucraina per accorgersi che l’ordine mondiale istituito dopo la fine della Guerra fredda stava per implodere. E non ci voleva la seconda incoronazione di Donald Trump per accorgersi che la democrazia rischia di entrare a far parte del panorama di macerie novecentesche da cui avrebbe dovuto salvarsi e salvarci.  Di fronte a questo rischio che impone ultimativamente la necessità di pensare un’altra forma di vita prima che un altro regime politico, la sfida lanciata da Tronti suona ancora più urgente, e ancora più calzante il suo invito a “cercare ancora” e a “credere nel possibile, malgrado tutte le prove empiriche dimostrino l’impossibile”. Cercheremo di essere all’altezza. 

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