Lo scongiuro anti-antifascista

Pubblicato su centroriformastato.it il 24 aprile 2023

La strategia in tre mosse della destra meloniana sul fascismo e l’antifascismo, una guerra culturale cruciale per ribaltare l’egemonia della sinistra sulla visione della storia nazionale. Con il contributo decisivo della stampa liberale mainstream, e la copertura del sostegno alla resistenza ucraina.

Non c’era bisogno delle esternazioni del ministro Lollobrigida sulla “sostituzione etnica” per rendersi conto delle matrici culturali di chi ci governa (con, è bene ricordarlo per restare ancorati al principio di realtà, non con la maggioranza ma con il 13% dei voti dell’elettorato). Bastava quello che è successo poche settimane fa in quel di Cutro, con quella concezione gerarchizzata delle vite che contano e che non contano sottostante al mancato soccorso dei naufraghi, e delle morti che contano e che non contano sottostante all’ostentata indifferenza con cui la presidente del consiglio ha evitato di posare anche solo uno sguardo sulle bare delle vittime. Che cos’altro se non questa gerarchizzazione delle vite e delle morti porta alla “soluzione” dei campi, di concentramento e sterminio ieri e di detenzione e tortura oggi, nello stesso momento in cui, ieri e oggi come ieri, si piange sulla denatalità e si celebra la donna come madre della nazione e dei nativi?  

Nemmeno c’era bisogno dell’annuncio del 25 aprile praghese di Ignazio La Russa, con annessa barzelletta sull’assenza dell’antifascismo nella Costituzione, per assodare quale sia la strategia degli ex-post-neo fascisti rispetto al fascismo e all’antifascismo. Bastava il suo discorso di insediamento alla seconda carica dello Stato, giudicato all’epoca con connivente clemenza dalla stampa mainstream, e bastava pure l’autobiografia di Giorgia Meloni, per capire che la suddetta strategia non è estemporanea, non è una mera provocazione, non divide bensì unisce la presidente del consiglio e i suoi “fratelli”, e si articola in tre mosse. Prima mossa: equiparare nazifascismo e comunismo sotto il titolo comune di totalitarismo, e non concedere alcuna presa di distanza dal primo senza pretendere in cambio l’abiura del secondo, anzi rivendicare, come eredi del fascismo, un processo di democratizzazione avvenuto che gli eredi del comunismo non avrebbero invece portato a compimento. 

Seconda mossa, la più specificamente meloniana: identificare l’antifascismo della Resistenza con l’antifascismo militante degli anni 70 (e quest’ultimo con i suoi episodi più scriteriati e nefasti tipo l’incendio di Primavalle, oggetto nei giorni scorsi di una campagna cinicamente strumentale sui giornali della destra all’unisono), in modo da poter continuare a vittimizzare “i fratelli allora morti sul selciato” (ovviamente esentandoli da qualunque corresponsabilità nello stragismo neofascista del quale sempre si tace ), e in modo da poter continuare a sostenere che i conti in sospeso in Italia non sono quelli con il fascismo, bensì quelli con l’antifascismo. Terza mossa: derubricare il fascismo a un incidente di percorso nella lunga storia della “nazione”, ad esempio annacquando il senso della data del 25 aprile in una lista insensata di date che vanno dal 17 marzo, proclamazione del regno d’Italia nel 1861, al 18 aprile, vittoria della Dc sul fronte socialcomunista nel 1948, al 9 novembre, caduta del Muro di Berlino nel 1989.

         Sono i tre cardini di una “guerra culturale” condotta dal governo nella piena consapevolezza che attraverso di essa passa gran parte del tanto agognato trasferimento di egemonia dalla sinistra alla destra nella storia repubblicana. Grave errore è considerare questa guerra un diversivo per distrarre l’opinione pubblica dalle inefficienze del governo sui problemi del presente, vedi l’inflazione o il Pnrr, con il cabaret sul passato. La visione del passato e l’azione nel presente sono com’è noto sempre intrecciate. E infatti questa visione del passato è confermata e corroborata dall’azione di governo per come si è configurata fin qui: corporativizzazione della società e dell’economia, xenofobia galoppante, attacco ai diritti sociali e civili, demolizione della forma di stato repubblicana con le annunciate riforme del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, rivalutazione del passato coloniale (la visita di Meloni in Etiopia senza una parola sulle nefandezze lì compiute da Mussolini e dal generale Graziani oggi monumentalizzato è uno degli atti più indecenti e più sintomatici, nonché più sottovalutati, del melonismo). 

         Ce n’è quanto basta dunque per rilanciare l’antifascismo come postura di lotta politica sul presente e non come celebrazione vuota del passato. Ma ce n’è quanto basta anche per rimettere la questione del rapporto fra presente e passato sui binari giusti, dai quali continuamente deraglia grazie a un dibattito mal posto, che liquida qualunque allarme sui possibili ritorni di fascismo nelle democrazia italiana (e non solo italiana) sulla base di una presupposta incomparabilità fra le nuove destre e il fascismo novecentesco. 

Tralasciamo il fatto, ovvio, che le congiunture storiche diverse sono comparabili per definizione, altrimenti lo stesso lavoro degli storici non avrebbe senso, e che la comparazione con il passato fascista è non solo lecita ma dovuta in un paese come l’Italia che il fascismo l’ha inventato e ce l’ha impresso nel Dna, e veniamo al punto, un tantino più complesso di come viene liquidato. Perché se è vero che dopo mezzo secolo di neoliberalismo il fascismo non può tornare nella sua configurazione novecentesca, statalista, autoritaria e repressiva, è altrettanto vero che ingredienti basilari della cultura fascista possono transitare sotto forme istituzionali e disciplinari diverse da quelle del regime di un secolo fa. E se è vero che le destre radicali di oggi sono fatte da una miscela assai contraddittoria – libertarismo e autoritarismo, moralismo e nichilismo, individualismo e populismo, tradizionalismo e nuovismo, liberismo e protezionismo – e diversa da quella dei partiti fascisti del passato, è altrettanto vero che gli ingredienti di questa miscela si combinano a loro volta con quelli che della tradizione fascista sono i più classici, dal nazionalismo al razzismo al sessismo, il tutto sotto il velo legittimante di forme democratiche svuotate di sostanza. E infatti quello a cui stiamo assistendo non è un ritorno del fascismo storico: è un non meno allarmante riciclaggio democratico della sua cultura politica.

A distinguersi in questa operazione di riciclaggio non è solo il partito dei “fratelli d’Italia” tuttora illuminato dalla fiamma tricolore. È l’area cosiddetta liberale della stampa mainstream, militantemente impegnata con una mano a legittimare la destra radicale di governo come destra democratica destinata a evolvere verso un partito conservatore “europeo” e “normale”, dall’altra a sostenere il teorema di cui sopra della sua incomparabilità con il fascismo storico. Le due cose, a ben vedere, si tengono. Ripetuto come uno scongiuro, il suddetto teorema serve infatti a scongiurare non tanto o non solo un ritorno di fascismo quanto e soprattutto un ritorno di antifascismo: ovvero ad archiviare la forma agonistica conflittuale di una democrazia che si vorrebbe invece anestetizzare nell’alternanza meramente elettorale fra una sinistra che non dev’essere più sinistra e una destra supposta, contro ogni evidenza contraria, “normale” e innocua.

Non basta, perché i tempi sono tempi di guerra e a questi argomenti se ne aggiunge ora un altro, secondo il quale basterebbe lo schieramento senza se e senza ma dalla parte della resistenza ucraina a fornire al governo la credenziale definitiva di democraticità, se non di assunzione sia pure involontaria dei valori dell’antifascismo. Si occulta così il fatto che nella prospettiva di Meloni l’appoggio all’Ucraina coincide con l’allineamento ai valori e alla strategia di Visegrad e dei paesi baltici. Ovvero di quel pezzo di Europa centro-orientale che ha già ricostruito la propria identità nazional-sovranista precisamente sulla base di un revisionismo storico che, partendo dall’equiparazione fra i due totalitarismi novecenteschi, finisce di fatto col derubricare i crimini del nazismo per demonizzare quelli del comunismo sovietico. Non vengono solo da Putin i rischi di un ritorno agli anni più bui del Novecento europeo, e il laboratorio italiano è come sempre solertemente all’opera.

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Diario di una strage annunciata

Pubblicato su Dinamopress il 9 marzo 2023

Otto giorni dopo la strage che ha disseminato di corpi martoriati la spiaggia di Steccato di Cutro, spezzato l’esistenza di più di settanta persone di cui almeno ventotto minorenni, gettato nel lutto decine e decine di famiglie, declassato al cospetto del mondo l’immagine dell’Italia a quella di un paese senza governo e senza cervello, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi si è infine presentato in parlamento non per dimettersi, come qualunque uomo politico dotato di spina dorsale avrebbe fatto. Né per scusarsi delle parole dal suo sen fuggite il giorno stesso della strage, quando ha colpevolizzato le vittime trattandole come scavezzacollo irresponsabili che per lasciare i loro paesi mettono a rischio la vita dei figli. E nemmeno per ammettere la possibilità di avere commesso qualche errore, lasciandosi così aperta una via d’uscita qualora – vedi mai – l’inchiesta giudiziaria dovesse accertare qualche responsabilità sua o del suo amico Salvini. 

No, si è presentato per ribadire il suo brillante teorema capovolto, secondo il quale le migrazioni “irregolari” sono un flagello dovuto all’esistenza degli scafisti e non gli scafisti un flagello dovuto all’impossibilità di migrare regolarmente. E per fare un minuzioso quanto inutile resoconto dei fatti di quella dannata notte della strage che già conoscevamo, tacendo sulle sole tre cose che non sappiamo e che lui era stato chiamato a dirci, ovvero 1) perché la guardia costiera non è intervenuta, o non è stata fatta intervenire,  per portare in salvo un caicco di legno pieno zeppo di persone a bordo in mezzo a un mare in tempesta; 2) perché e in base a quali criteri di fronte all’avvistamento di quel caicco da parte di Frontex è scattata un’operazione di polizia (in gergo law enforcement) con le motovedette inadatte al mare grosso della  guardia di finanza e non un’operazione di salvataggio (in gergo search and rescue, SAR) con le navi adatte della  guardia costiera; 3) a chi e sulla base di quale catena di comando sono riconducibili le decisioni prese, o non prese il che non sarebbe meno grave, quella notte.

Piantato lì da solo dalla premier, che preferisce pavoneggiarsi all’inaugurazione di una sala della Camera intitolata alle “prime donne” e intanto si avoca le deleghe sull’immigrazione, e da Salvini che scappa come un coniglio, il ministro dimezzato prova a confondere le acque in tre mosse. Mente su Frontex, sostenendo che l’agenzia europea non ha segnalato la situazione d’emergenza del caicco, mentre i dati forniti da Frontex ben sette ore prima del naufragio erano più che sufficienti perché le autorità italiane prendessero la decisione, che spettava solo a loro, di aprire una procedura SAR. Entra in contraddizione con sé stesso, quando sostiene che guardia di finanza e guardia costiera, low enforcement e SAR, si coordinano e si completano a vicenda, ma poi non spiega per l’appunto perché non è partita la guardia costiera quando la guardia di finanza ha rinunciato a intervenire a causa delle condizioni del mare. Infine, snocciola un elenco macabro di naufragi e un elenco trionfalistico di salvataggi avvenuti negli anni passati mettendo insieme fatti e situazioni disparati, giusto per derubricare la strage in questione a cose che capitano. 

La performance è penosa, ha il solo effetto positivo di far brillare un’opposizione per una volta, come già in commissione affari costituzionali mercoledì scorso, non indegna di chiamarsi tale, e non spiana certo la strada alla furbata concepita fuori tempo massimo da Giorgia Meloni di convocare il Consiglio dei ministri giovedì a Cutro, dove a occhio e croce non sarà accolta con dei mazzi di fiori. Ma l’insieme del quadretto istituzionale, rafforzato dagli scherani del governo tipo il resuscitato Italo Bocchino spediti nei talk della sera a sostenere l’insostenibile col cinismo stampato negli occhi, risalta tanto più a confronto con quello che per una settimana s’è visto sul campo. Bisognerà ricordarsene, la prossima volta che ci si lambicca il cervello sulla crisi della politica, il tasso di astensione, la sfiducia nelle istituzioni: perché è in situazioni come questa che una democrazia si gioca la pelle, e sulla pelle le cicatrici restano anche quando i riflettori dei media si spengono. 

Perciò riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da tre: il contrasto fra la verità dell’esperienza e le fake news di stato, il rapporto fra lutto e politica, la rotta turco-jonica. Ma tenendo ben conficcate nella mente le immagini che, di persona o in tv, ci è toccato vedere in questi giorni: i cadaveri spiaggiati come balene, la disperazione sul volto dei due pescatori che all’alba erano lì da soli e se li sono visti arrivare addosso, i corpi dei bambini restituiti dal mare con i tratti irriconoscibili, la spiaggia coperta dai legni del caicco e disseminata di scarpe, tutine, flaconi di Nivea e altre tracce di vite quotidiane spezzate, le bare coperte di fiori allineate nel Palamilone con al centro quelle bianche dei bambini coperte di giocattoli e peluche, le madri superstiti di quei bambini  e le loro urla, i bambini delle scuole di Crotone fermi in silenzio davanti alle salme di altri bambini, le file dei parenti delle vittime arrivati da mezza Europa, i presidi laici e la Via crucis cattolica di una società ancora civile. Tutto tenderà a farcele rimuovere o a sostituirle con quelle del prossimo evento mediatico, e tutto bisognerà fare per non lasciarle scivolare via.

Chi sa e chi mente 

Sul campo, nessuno nutre grandi dubbi su come siano andate realmente le cose quella notte. Perché ci sono le sigle cifrate, le leggi, le ordinanze, le direttive, il labirinto delle policiessull’immigrazione in cui ci si perde, ma poi c’è l’esperienza, e se parli con chi ragiona sulla base dell’esperienza il bandolo lo trovi subito. Io sono arrivata a Steccato e poi a Crotone lunedì, il giorno dopo il naufragio, e l’ho trovato nelle parole di Vincenzo, il pescatore ormai noto alle cronache per essere stato il primo, con il suo amico Antonio, a tirare fuori quei corpi dal mare, e poi in quelle di Orlando Amodeo, anche lui ormai noto alle cronache per avere denunciato per primo, domenica sera a “Non è l’arena” su La7, le falle nei soccorsi. Da pescatore, Vincenzo conosce il mare, e sa che da queste parti quando c’è scirocco navighi col vento in poppa fino a riva, ma se incontri una secca sei finito. E da queste parti che a Cutro c’è una secca a pochi metri da riva lo sanno tutti, dai pescatori a chi ha compiti di sorveglianza e di soccorso. Com’è che a nessuno è venuto in mente che quel caicco, lasciato a sé stesso, si sarebbe schiantato sulla secca?  Da medaglia d’oro per il soccorso in mare nella polizia di stato, Amodeo sa come si fanno le operazioni di salvataggio, e smonta subito la prima bufala messa in giro dall’alto, che il mare quella notta era forza 7 e che col mare forza 7 non si può andare a salvare nessuno: falso, il mare era forza 4 e comunque la guardia costiera ha i mezzi per uscire anche col mare forza 7. Perché non è uscita? 

Inseriamo questi due tasselli nel racconto di Piantedosi e poniamo che sia andata così. Alle 22, 30 di sabato l’aereo di Frontex avvista il caicco a 40 miglia dalla costa e lo segnala alle autorità italiane. Dice che è una barca “presumibilmente coinvolta nel traffico di migranti”, con una sola persona sopra coperta e secondo i segnali termici probabilmente molte stipate sottocoperta, condizione che è di suo di pericolo imminente anche se la barca, al momento, sembra navigare senza problemi. Parte la prima navetta della guardia di finanza “per attività di polizia”, e a mezzanotte torna indietro per fare rifornimento; passano due ore e mezza – un po’ tanto per riempire un serbatoio – prima che riparta insieme con un’altra alla ricerca del caicco. Un’ora dopo, alle 3,30, entrambe rientrano in porto a causa delle condizioni del mare, nel frattempo peggiorate. Logica vorrebbe che se ne traesse la conseguenza che la barca avvistata è in pericolo e che va soccorsa; ma la guardia costiera, che potrebbe affrontare i marosi, non viene mobilitata. 

Mezz’ora dopo arriva un SOS ed “è questo il momento preciso in cui per la prima volta – dice Piantedosi – si concretizza l’esigenza di soccorso per le autorità italiane”: alla buon’ora. Soccorso che però non parte. In compenso alle 4,30, quando la barca viene segnalata a 40 metri dalla riva, vengono allertati un team sanitario, i vigili del fuoco e la polizia, evidentemente per accoglierla a terra. Anche un bambino capirebbe a questo punto che il soccorso in mare non è mai stato preso in considerazione. Per dolo? Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Per negligenza? Difficile che una negligenza possa durare la bellezza di più di sei ore. Più probabilmente per un calcolo sbagliato: che col vento in poppa il caicco sarebbe comunque riuscito ad arrivare a riva, senza che il governo dei porti chiusi e del pugno di ferro compromettesse la propria immagine dura e pura in un’operazione umanitaria di salvataggio, e col vantaggio di poter poi ululare contro l’ennesimo sbarco di “clandestini” e scafisti. Peccato che l’imprevisto, cioè la secca, ci abbia messo lo zampino. Trasformando un naufragio in una strage: di stato.

Tanatopolitica e pratiche del lutto

Le stragi si assomigliano tutte nella loro macabra grammatica dell’orrore, e giustamente in tanti hanno ricordato il tragico precedente di Lampedusa del 2013. Ma ogni strage è anche figlia del suo tempo. Oggi siamo in guerra e veniamo da una pandemia, e questa triangolazione, pandemia-guerra-profughi, pesa come una cappa sotto il cielo di Crotone. Spunta involontariamente nelle associazioni mentali, di fronte a quelle bare allineate in cerca di sepoltura – cento loculi disponibili non ci sono nei cimiteri di Crotone e Cutro – che inevitabilmente fanno tornare a galla quelle dei giorni peggiori della pandemia, anche allora i loculi non bastavano. E rimbalza dai racconti dei sopravvissuti, testimonianze di una regione – Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Siria, Palestina – che non trova pace dopo decenni di guerre intestine, tentativi di occidentalizzazione falliti, backlash fondamentalisti: anche Mattarella associa a modo suo ed efficacemente, paragonando i profughi della strage agli afghani attaccati agli aerei in decollo da Kabul durante la ritirata delle truppe americane. E tanto per continuare ad associare sintomi sparsi, il primo reportage italianosull’intensificazione della rotta migratoria fra la Turchia e la costa jonica calabrese, scritto da Annalisa Camilli nel novembre 2021,  raccontava che due anni fa l’organizzazione del traffico era in mano a un’organizzazione clandestina turco-ucraina, che arruolava come scafisti inconsapevoli, e convinti di andare a fare gli skipper da turismo,  i giovani ucraini in fuga fin dal 2014 dall’arruolamento forzato contro i russi nel loro paese. Il naufragio di Cutro è anche metafora, anzi sineddoche, del naufragio di un (dis)ordine mondiale in cui la sequenza guerra-persecuzioni-esodi forzati sono diventati la norma. Chi con una mano chiude i porti e con l’altra arma i popoli dovrebbe mettersi d’accordo con sé stesso.

Di fronte a questa politica che diventa spudoratamente tanatopolitica, le pratiche del lutto diventano pratiche di resistenza generativa: significano la sospensione dal basso di una sequenza di morte ossessiva e senza tregua imposta dall’alto, la messa in comune della morte contro la sua privatizzazione spettacolarizzata, la restituzione della dignità a vite che ne sono state espropriate con la violenza. E non per caso formano una segnaletica che rimbalza di luogo in luogo e di situazione in situazione. Il giorno dopo il naufragio, davanti alla camera ardente del Palamilone ancora chiusa al pubblico, il presidio convocato dalla solida rete cittadina delle associazioni del terzo settore si è svolto su un tappeto di lumini e davanti a una parete di fiori e dediche, una scena che sembrava la fotocopia di quella di Ground Zero dopo l’11 Settembre. 

All’epoca furono due filosofe femministe, Adriana Cavarero e Judith Butler, a rivendicare pioneristicamente la valenza politica delle pratiche collettive di elaborazione del lutto: avevano ragione. E oggi, mentre si rischia l’ennesimo sfregio alle vittime con la decisione del Viminale,  parzialmente rientrata in extremis, di deportare le salme a Bologna contro la volontà delle famiglie di riportarle in Afghanistan, tanto più acquistano valore gesti come la disponibilità di alcune famiglie calabresi ad offrire le proprie tombe,  l’educazione al lutto collettivo delle insegnanti che portano i ragazzi a compiangere i loro coetanei nella camera ardente, la Via Crucis sulla spiaggia della strage come pure la convocazione lì di una manifestazione di donne per l’8 marzo, il pianto silenzioso delle madri dei dispersi che attendono sedute sulla riva che le onde restituiscano i corpi dei loro figli. Pratiche che tagliano e sospendono il cinismo di governo e la saturazione mediatica dell’evento quanto e più efficacemente delle manifestazioni di protesta tradizionali, che pure sono in preparazione: l’appuntamento, nazionale e convocato dall’Arci e da tutte le associazioni che operano nell’accoglienza, dall’Anpi e dalla Cgil, è per sabato alle 14,30, sempre sulla spiaggia di Steccato.

La rotta orientale

Poco illuminata dai riflettori dei media in assenza delle Ong che nel quadrante jonico non operano e non fanno notizia, nell’ultimo anno la rotta turca ha portato in Calabria, sulle più varie imbarcazioni, 17.000 persone, senza tensioni perché da queste parti l’accoglienza non si nega a nessuno e le amministrazioni locali si organizzano senza urlare all’emergenza, come ricorda il sindaco di Roccella che da mesi è la sede privilegiata degli sbarchi. Ma la stessa rotta era già attiva trent’anni fa, ai tempi dei primi sbarchi di curdi perseguitati da Saddam sulle spiagge di Badolato e Soverato, quando furono per l’appunto i rispettivi e coraggiosi sindaci a inventarsi quella formula di ripopolazione con i migranti dei borghi abbandonati poi rilanciata e resa famosa da Mimmo Lucano a Riace. 

Ho ripensato a quei primi sbarchi arrivando in macchina a Steccato, che Wikipedia classifica come località balneare ma è a sua volta un minuscolo centro spettrale,  dove d’inverno non c’è un’anima e le case aspettano l’estate per essere riaperte, di una costa magnifica spopolata dall’emigrazione: come in un cerchio che si chiude e si riapre sempre su sé stesso, per uno scherzo del destino la notizia del naufragio è arrivata il 26 mattina mentre a Riace, cento chilometri più a sud, era in corso una manifestazione di sostegno a Lucano, che è in attesa della sentenza d’appello al processo con cui la giustizia italiana punta a segregare dietro le sbarre lui e il suo esperimento. In trent’anni molte cose sono cambiate, in meglio – l’organizzazione dei soccorsi a terra, l’intermediazione culturale, la distribuzione di chi resta in sedi opportune, grazie soprattutto alle associazioni del terzo settore  – e in peggio, come dimostra per l’appunto la vicenda di Lucano e di Riace. 

Nel corso del tempo, da uno sbarco all’altro, abbiamo imparato che sui migranti sbagliamo tutti. Sbagliano i Salvini e i Piantedosi e le Meloni, che ossessionati dal fantasma persecutorio e squisitamente razzista della “sostituzione etnica” non riescono nemmeno a distinguere un esule con diritto all’asilo da un migrante economico, ammesso e non concesso che anche un migrante economico non sia a sua volta un esule in fuga da condizioni di vita impossibili. Ma sbagliamo anche noi, quando affidiamo a quel nome generico e neutro, “migranti”, pur cambiandone il segno da negativo a positivo, la rappresentazione di una pluralità irriducibile di storie, biografie, relazioni, situazioni che vanno interpellate una per una, singolarmente, con un lavoro di tessitura che altro non è che il lavoro di costruzione difficile e necessario di una società globale. 

Nel corso del tempo è rimasta però sempre uguale la disponibilità all’accoglienza di una regione come la Calabria che ha l’esperienza dell’emigrazione stampata nel suo Dna, come una condanna ma anche come un’apertura ad altro  e all’altro, e che ha la porosità dei confini stampata nel suo profilo geografico di finis terrae affacciata sul mare ed esposta da sempre, in particolare sulla costa jonica, ai venti, alle culture, alle contaminazioni nonché alle invasioni – quelle vere del passato remoto non quelle attuali inventate dai sovranisti – provenienti da Est. Il senso civico delle comunità del crotonese giustamente elogiato da tanti in questi giorni ha queste radici profonde che affondano in una civiltà antica. Magari sarà il caso di ricordarsene prima di rinchiudere questa regione, alla prossima occasione, negli stereotipi che la imprigionano più della criminalità organizzata e dei coefficienti del reddito e del cosiddetto sviluppo.

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Il corpo politico che muove l’Iran

Pubblicato su Italianieuropei 2023/1

“Donne senza uomini” dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, “fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me”. Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: “Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno”.

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà. 

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

2. La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia),  è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Masha Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-’19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica. 

 La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000,   ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.  

3. È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo. 

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta. 

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del Pci “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria. 

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sueconnivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico ) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo,  ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo. 

4. Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine. 

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani. 

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.

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Un anno, ed è subito sera

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 24/2/2023

Solo Vladimir Putin poteva pensare, se davvero come sembra l’ha pensato, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata una passeggiata di qualche settimana. Noi comuni mortali, privi della sua hybris, nonché dei suoi servizi di spionaggio farlocchi, quella mattina di un anno fa abbiamo avuto subito chiara una e una sola cosa: che quella lunga fila di carri armati in marcia verso Kiev era un evento di portata enorme; che era arrivato il momento della resa dei conti della storia ricominciata (e non finita, come allora si sostenne), con il 1989; che la guerra stava tornando “nel cuore dell’Europa” per restarci molto a lungo; e che la situazione in cui stavamo precipitando era senza via d’uscita da qualunque punto di vista la si guardasse.

Un anno dopo la situazione rimane bloccata, ma sul terreno giacciono – si stima, per difetto – 300.000 morti, che gridano e grideranno vendetta nei decenni a venire, aggiungendosi alla folla di spettri che ci guardano dal passato della interminabile guerra civile europea dalla quale ci eravamo illusi di essere usciti una volta per tutte nel 1945. E sì, ha ragione Jürgen Habermas quando, scandagliando il “paradigma morale” con cui viene giustificato l’invio delle armi all’Ucraina, ci invita a considerare il fatto che noi europei saremmo tenuti a considerare un imperativo morale non solo punire l’aggressore e solidarizzare con l’aggredito, ma anche rispondere di quei morti dell’una e dell’altra parte.

Un anno, e anche molto meno di un anno, è servito a capire che in Ucraina non si sta combattendo una guerra bensì almeno tre, una dentro l’altra come in una matrioska. C’è la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e di indipendenza dell’Ucraina dalla Russia, c’è la guerra preventiva di Putin contro la NATO e la guerra per procura della NATO contro Putin, c’è la guerra – dichiarata da Putin, sottaciuta dagli USA e dalla Cina – sugli assetti futuri dell’ordine mondiale. Nessuna di queste tre guerre ha una posta in gioco esplicita e definita – il che rende l’impostazione di un negoziato molto ardua, al di là dell’insipienza dei potenti della Terra – perché tutte e tre sono sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky: l’uno vuole che la Russia torni a essere riconosciuta come grande potenza, l’altro vuole che l’Ucraina sia riconosciuta come nazione occidentale a pieno titolo. E non c’è bisogno di scomodare Hegel per sapere che le lotte per il riconoscimento possono essere infinite e diventare spietate. Guerra “esistenziale” si dice infatti ora, per l’uno e l’altro contendente: e sull’esistenza non si negozia. 

La prima guerra dunque è impantanata in un crescendo di devastazione sul lato russo, di armamenti sul lato ucraino. La terza, quella che ha per posta in gioco la ridefinizione dell’ordine mondiale, è appena agli inizi, si combatte per ora soprattutto sul piano economico ma può prevedere altre guerre locali, o trasformarsi in un lungo “regime di guerra” che deciderà a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo: ci saranno sorprese, visto che due terzi di  mondo si rifiutano di allinearsi alla versione dei fatti atlantista e stanno cogliendo l’occasione della guerra in Ucraina per presentare all’Occidente il conto di due secoli di colonialismo. 

La seconda guerra, in compenso, sta già dando i suoi frutti: se l’Europa è il suo teatro, l’Unione europea è la sua posta in gioco.  E sul fronte ucraino l’Unione non si è compattata, come predicano ogni giorno i media  mainstream:  si è deformata, con un evidente spostamento di peso politico dall’asse Germania-Francia-Italia a quello Polonia-Paesi baltici, sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti,  che incassano l’indebolimento della Germania,  e del Regno unito, che riconquista manu militari il peso perduto con la Brexit. Il nuovo asse è composto da governi che brillano più per ardore nazionalista che per qualità democratica, è ferocemente antirusso ed è accomunato da politiche di regime della storia e della memoria che per seppellire il totalitarismo comunista chiudono più di un occhio sul totalitarismo nazista. Per l’Unione e per i suoi valori fondativi è una disfatta, che spalanca le porte a quella “Europa delle nazioni” che in casa nostra viene predicata da Giorgia Meloni e che a Strasburgo e Bruxelles si concretizzerà quanto prima in una maggioranza conservatrice. Ma di tutto questo in Italia si parla poco o niente, perché il verbo transatlantico comanda di identificare la causa ucraina con la causa democratica, e tanto basta a sospendere le chiacchiere sui colori, nero compreso, che le democrazie possono prendere.

Sempre in Italia, ma non solo in Italia, un anno e molto meno è bastato per sperimentare un tasso di militarizzazione del dibattito pubblico mai sperimentato prima, nemmeno ai tempi delle guerre contro il terrorismo internazionale. Chi non è allineato alla narrativa mainstream è un traditore dell’Occidente, chi si oppone all’escalation delle armi è un disertore, chi solleva mezzo interrogativo è un ventriloquo di Putin. Del resto, in Germania uno come Habermas, che storicamente è tutt’altro che un pacifista ma oggi osa stilare un appello per un negoziato, viene liquidato come un vecchio signore ingenuo che ha fatto il suo tempo. Questo è lo stato delle democrazie che stiamo armando fino ai denti per sconfiggere gli autocrati.  Un anno è bastato perché, per dirla in poesia, si facesse subito sera.   

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Ruby Ter, il caso è chiuso?

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 16 febbraio 2023

BERLUSCONI, IL CASO E’ CHIUSO?

Nello stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

Ida Dominijanni

Lo stato di diritto è stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?

Nello stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti – l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

Così almeno dovrebbe essere in uno stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby-ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali. 

Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali – Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga – aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili,  entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra. 

La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra – lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An – l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne – per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier – che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo. 

Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne,  segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale. 

Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato finora grandi frutti, mentre a destra Giorgia Meloni – che all’epoca votò in parlamento che Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” – ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me-too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima. 

Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi esso si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo. 

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L’Iran è vicino

pubblicato su Facebook il 10/12/2022

Un regime che mira agli occhi, al viso, al seno e ai genitali delle donne che gli manifestano contro pacificamente rivendicando vita e libertà, e mira proprio lì per “colpire la bellezza”, è un regime condannato a finire molto presto negli scantinati della storia per non aver capito che quando la libertà femminile si mette in moto non c’è modo di disciplinarla e irreggimentarla. Un regime che impicca un ragazzo di ventitrè anni reo di aver partecipato a una manifestazione, ostruito una strada di Teheran e ferito un paramilitare, e lo accusa di “inimicizia contro Dio” dopo averlo costretto a confessare sotto tortura, è un regime arrivato al capolinea, che ha un bisogno disperato di mostrare i muscoli all’interno e al mondo intero mentre tuttavia tratta in segreto una via di fuga all’estero per i suoi aguzzini.

Mohsen Shekari, cui non è stato concesso nemmeno un ultimo saluto dei familiari, non è la prima e purtroppo non sarà l’ultima vittima della feroce reazione del governo della Repubblica islamica al movimento di rivolta innescato dalla morte di Masha Amini: altri 11 giovani sono già stati dichiarati in lista d’attesa per l’esecuzione, anche loro condannati senza processo e seviziati, mentre la conta dei morti a causa della repressione arriva a 475 di cui 6 minorenni, e quella delle/degli arrestete/i a 18mila. Ma la feroce reazione del regime non basterà a domare una rivolta che non si ferma, malgrado le reazioni tardive e di superficie dei governi occidentali e delle organizzazioni internazionali, che purtroppo non si sa più a che cosa servano.

Per questo mi auguro che la marcia convocata a Roma dal partito radicale in solidarietà con le donne e gli uomini iraniani in rivolta, alla quale purtroppo non potrò partecipare non essendo in città, sia grande ed efficace, pur non condividendo alcune delle motivazioni portate a suo sostegno: ci sono circostanze in cui le ragioni di una mobilitazione superano i distinguo culturali e politici sulla posta in gioco, e questa è una. Con l’auspicio però che di quello che sta accadendo in Iran si possa parlare d’ora in poi con maggior cognizione di causa. Perché purtroppo ne sappiamo ancora troppo poco, malgrado il lavoro prezioso fatto da alcune testate (radioradicale in primis) e malgrado gli altrettanto preziosi seminari convocati nelle ultime settimane da università e fondazioni culturali.

L’Iran è un paese complicato, che periodicamente si rivela decisivo per le sorti del mondo, ma che è difficile decifrare dall’esterno e che è sbagliato giudicare sulla base di codici e parametri occidentali, già clamorosamente smentiti in passato. E’ difficile raccontare oggi alle generazioni più giovani l’impatto spiazzante che sulla generazione degli anni Settanta ebbe la rivoluzione khomeinista, quando frotte di studenti iraniani che popolavano le nostre università, le nostre assemblee e le nostre lotte, si affrettarono a rientrare nel loro paese per sostenere quella che immaginavano come una rivoluzione marxista (una “rivoluzione contro il Capitale”, come all’epoca titolò persino l’autorevole settimanale del Pci “Rinascita”) e che presto si risolse nell’instaurazione del regime fondamentalista e liberticida della Repubblica islamica. Analogamente mi pare assai incauto, oggi, leggere l’attuale movimento di rivolta contro il regime come una promessa di democratizzazione, laicizzazione e occidentalizzazione dell’Iran (ovvero come l’ennesima tappa della magnifica e progressiva laicizzazione, democratizzazione e occidentalizzazione del mondo): una lettura certo conveniente, sul piano geopolitico, al fronte occidentale in guerra contro i regimi “autocratici”, ma non sappiamo con quanti effettivi riscontri nella società iraniana.

Del resto, è proprio l’egemonia femminile nel movimento di rivolta a suggerire chiavi di lettura diverse e più complesse. Perché se da un lato dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto la rivolta antipatriarcale sia centrale e cruciale ad ogni latitudine del pianeta e nella crisi di civiltà che tutto il pianeta sta vivendo, dall’altro lato è l’esito di una libertà femminile che in Iran è cresciuta senza tradursi nel lessico occidentale dei diritti, come sa bene chiunque abbia visto una mostra o un film di una interprete finissima della società iraniana e al contempo di quella americana come Shirin Neshat. E’ il miracolo della “libertà senza emancipazione” delle donne iraniane – come titolava un numero profetico della rivista femminista “Via Dogana” del giugno 2002 – che oggi ci regala i suoi frutti.

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Giorgia and her Brothers. Italian Politics between Post-Fascism and Sovranism

Testo delle lecture tenute alla Virginia University e allo Hamilton College il 7 e l’11 novembre 2022

1. Last October 13, in a highly symbolic ceremony worthy of an Oscar award for best screenplay, the irony of history decreed that it would be the senator for life Liliana Segre, as the oldest member of the assembly, who would preside over the first session of the Senate elected on September 25th, that would in turn designate Senator Ignazio La Russa as president. A victim of the racial laws of 1938 and survivor of Auschwitz, Liliana Segre is a ninety-year-old witness of the crimes of the fascist dictatorship. Ignazio La Russa – whose middle name is Benito like Mussolini whose busts La Russa collects – is a leading exponent of Fratelli d’Italia (The Brothers of Italy), the post-fascist party that won the recent elections. He was a long-time militant of the Movimento Sociale Italiano (Italian Social Movement), the neo-fascist party born from the ashes of Mussolini’s after the Liberation; and he was also a front-line protagonist of the clashes between “blacks” and “reds” that punctuated the social conflict in Italy throughout the Seventies.

Two lives, two stories, two memories, two speeches which express two opposing visions of the past and the present. Liliana Segre restated the anti-fascist foundation of our Constitution born from the partisan Resistance, reaffirmed the importance of civil festivities such as April 25th, the anniversary of the Liberation that the post-fascists refuse to celebrate, and warned against the constitutional reforms that the center- right has been threatening to impose for thirty years and can now more easily carry out. La Russa, on the other hand, reproposed in softened tones the post-fascist thesis of the so-called “national reconciliation”, which basically consists of the normalization of fascism within national political history, the dissolution of the Constitution’s anti-fascist discriminant, the joint and equal condemnation of the right-wing and left-wing “opposite extremisms” of the Seventies.

There is in the close comparison between these two figures a catalog of all the questions that have been stirring Italian public debate since Fratelli d’Italia and its young leader Giorgia Meloni won the elections establishing a double record of firsts: the first time a post-fascist party becomes the leading party, and the first time a woman becomes Prime Minister – both, another irony of history, exactly one hundred years after the March on Rome that launched the fascist regime in 1922. There is – first – the historical-political problem of the relationship between the current sovereignist far-right and historical fascism. There is – second – the biographical-political problem of the conflicting memories of three different generations: the generation of fascism and the Resistance; the generation of 1968 and the 70s, which renewed militant anti-fascism as a safeguard against the neo-fascist violence and massacres that were bloodying Italy; the generation that grew up in the 90s, during the so-called Second Republic, which seems more inclined to normalize post-fascism within a physiological alternation between right and left. There is – third – the problem of the so-called glass ceiling, which has been broken by a right- wing woman and not, as one could have taken for granted, by a leftist one. And there is, last but not least, the legal-political problem of the destiny of the Constitution of 1948 under the government of a right that, since its inception in 1994, has had the declared aim of overturning it.
What is at stake is complex, and incomprehensible without shuttling between the present and the past of Italian political history, a history in which the Seventies and the Nineties of the last century play a perhaps more decisive role than the Twenties. I will begin from the present, with a brief analysis of the results of the elections of September 25th.

2. The victory of Fratelli d’Italia, though broadly reported as clear and indisputable, was not overwhelming from a numerical point of view. Its 26.5% vote is certainly an astonishing leap from the 4% it obtained in 2018, but it drops to 17% when taking into account that only 64% of the electorate voted, the lowest voter partecipation rate in the history of the Republic. That 26.5%, moreover, was gained by Fratelli d’Italia at the expense of its allies, the League and Forza Italia, which, compared to 2018, saw their support halved from 17 to 8.7% and 14 to 8.1% respectively. Overall, compared to 2018, the center-right coalition maintained but did not increase its support (12 million votes), which, however, rose from 37 to 44% thanks to the increase in abstention and translated into 59% of parliamentary seats thanks to an electoral law that rewards coalitions over single parties. Paradoxically, the forces opposing the center-right received more votes both in absolute terms (14 million) and percentage-wise (49%), but they lost because they did not form a coalition and fought amongst themselves. The center-right founded by Berlusconi in 1994 therefore returns to government for the fourth time (after ’94, 2001, 2008) without expanding its thirty-year electoral base.

According to the numbers, therefore, there is no shift to the right in Italian society; there is rather a shift of the center-right towards the far- right. And this shift only partly expresses an ideological shift, being due also and above all to a protest vote that rewards Fratelli d’Italia’s opposition to Mario Draghi’s government, as well as to a bet placed by the electorate on the novelty-Meloni – the same bet that for too many years in Italy has been placed on the latest leader launched on the political-media market.
Undeniable, however, is the hegemonic potential of the right, which makes its numerically modest victory appear as a resounding victory, while the left’s loss of hegemonic ambition makes its numerically slight defeat appear as a historical debacle. In brief, this is the first time in the history of the Italian Republic that the far right has won; but it is also the first time that there is neither a recognizable left nor a structured center-left. Compared to the seventies, when Italy was the political laboratory of the strongest Western left, now the situation is reversed: Italy has become, or can become, the political laboratory of the most dangerous radical right in Europe.

3. We are therefore at the apex – or perhaps, I hope, at the beginning of the end – of a long process of destructuring the left and restructuring the right that began in the early Nineties. After the collapse of the Berlin Wall, in Italy the political system of the so-called First Republic, which hinged on three major parties, the DC, the PSI, the PCI, collapsed in turn. The DC and the PSI were destroyed by judicial investigations into political corruption, the PCI changed its name and nature, abandoning both the communist and the social-democratic tradition and embracing a more neoliberal rather than liberal-democratic perspective.

In the rubble of the first Republic Silvio Berlusconi entered the field and won the election in 1994, building a center-right political coalition that included his newborn personal party called Forza Italia, the Lega Nord (Northern League) and Alleanza Nazionale. (National Alliance). It was a strange mix, made up of different political cultures, held together only by Berlusconi’s charismatic personality. Forza Italia was a business-party, evoking the structure and language of Berlusconi’s television empire and inaugurating an unprecedented form of media and aesthetic populism marked by the neoliberal ethics of pleasure, consumption and self-entrepreneurship. The Lega Nord was a regional and, originally, secessionist party, born to defend the interests of the rich and productive north by appealing to the imaginary identity of “Padania”, as the north-east of Italy had been renamed. Alleanza Nazionale was a party of order, conservative and statist, which under a new name recycled the symbol and the political class of the Movimento sociale italiano, heir, as we have seen, to Mussolini’s fascist party. Its leader at the time, however, Gianfranco Fini, agreed to pay the price of its relegitimization by condemning historical fascism as “absolute evil”, a clearer rebuke than what Giorgia Meloni is willing to concede today.

We therefore owe to Berlusconi the legitimizing of the post-fascists, if we want to see it negatively, or their inclusion in a democratic dialectic between right and left, if we want to see it positively. But many things have changed profoundly since then. Berlusconi’s hegemony over the center-right held until 2011, when he fell under the blows of sex-gate and the economic crisis. Then the political climate changed: the Berlusconi Carnival was replaced by the Lent of austerity policies imposed by the European Union. In a country hard-pressed by an acute economic, social and political crisis the alternation of center-right and center-left was replaced by the conflict between the parties aligned with the directives of Brussels and the populist movements that provided a voice to social discontent. In perpetual fibrillation, the political system twice entrusted the solution of its problems to two technocratic national-unity governments, Mario Monti’s in 2011 and Mario Draghi’s in 2021, triggering the alternation between technocracy and populism that characterizes the decade. Throughout this period, Fratelli d’Italia remained in opposition. When Mario Draghi resigned last July, Meloni was ready to reap the rewards of her consistency, and to tie up in her own way the loose ends of the thirty-year history of the Italian right.
Reading Meloni’s autobiography, Io sono Giorgia, published with great media timing a year ago, helps us understand the intertwining of the personal and the political that characterizes her rise as well as her construction as “the first woman to break through the glass ceiling”.

4. Meloni was born in 1977, the year in which the social conflict of the Italian “long Sixty-eigth” reached its peak, just before, in 1978, the terrorism of the Red Brigades took center scene with the kidnapping and assassination of the DC president Aldo Moro. Of the Seventies, therefore, Meloni has only an indirect memory, transmitted to her by her mother, a sympathizer of neo-fascist movements who raised her, while her father, who was a leftist, abandoned the family when she was still a child. Yet the ghost of the Seventies haunts her: in her speeches she frequently returns to her duty to redeem “the brothers who died on the pavement” in clashes with the “reds”. So, too, will forever haunt her the ghost of her lost father, which will play a decisive role in her choices as an adult.

In 1989, when the Berlin Wall collapsed, Giorgia was only 12 years old, but that was enough for her to remember, as an adult, the liberation of “the brothers of the East crushed by communist oppression”: another story to be redeemed. The third story comes three years later. On 19 July 1992, while the corruption investigations were demolishing the political system, the anti-mafia prosecutor Paolo Borsellino wasassassinated in Palermo, a few weeks after Giovanni Falcone. In the wake of that trauma, at the age of 15, Meloni crossed the threshold of the Fronte della Gioventù, the youth organization of the Movimento sociale italiano, and there found other brothers who needed to be rescued, this time from the position of the marginalized of the First Republic: some of them still today sit alongside her in the government.

Two years later, as we already know, Berlusconi welcomed the Movimento sociale italiano, transformed in Alleanza nazionale, into the centre-right. Meloni continued her rapid career in the Fronte della gioventù, a very different world from the Berlusconi’s glitzy and glamorous one: “it was difficult – she writes – to amalgamate our boys with those rampant young people in blue jackets and high heels”. Yet with those high heels Giorgia has long lived in the years at the turn of the century, which are not at all secondary in the bildungsroman of the “first woman who breaks the glass ceiling”.

Those are the years when, to use a Gramsci’s category, a sort of “passive revolution” aimed at domesticating women after the feminist subversion was deployed in Italy. It consisted in translating – and betraying – the political and collective freedom gained in feminism into individual and competitive (self-)promotion, through a perverse form of “valorization” of women’s qualities in the labor, consumption and sex market, as well as in the political market. A non-marginal aspect of the neoliberal (counter)revolution throughout the West, this operation found in the Italian laboratory the support of Berlusconi’s powerful media apparatus, and showed in the very person of Berlusconi both the triumph of market ethics and its symbolic implication, that is, the decline of paternal law and authority. The tragicomic mask of “Papi”, a diminutive of “father” which Berlusconi used to be called by the young escorts who gladdened his nights for a fee, condenses this two- sided change that impinges the socio-symbolic order of gender relations.

It is noteworthy that while this change was clearly visible on the center-right stage, in the center-left the hands of the clock went backwards. In the nineties, Democratic party women broke bridges with feminism and its radical project of changing the subjects and forms of politics and dusted off the old “feminine question” made onlyof discrimination, self-victimization and claiming pink quotas. Meloni capitalized on this situation in her own way. She noted that “on the left they talk a lot about equality, but it is the right that has brought out more women at the top”. But she closed both eyes to the obscene side of this neoliberal promotion of women at the top, dismissing Berlusconi’s system of exchange between sex and power as “a somewhat unscrupulous private conduct”. She internalized the neoliberal competitive ethic, which allowed her to challenge her male rivals, and took advantage of the eclipse of paternal authority to break with her political fathers.

It is 2011, “when – she writes – everything was about to end”. Meloni had been a deputy for five years, thanks to Gianfranco Fini, in 2006 she had become vice-president of the Chamber and then minister of youth in the fourth Berlusconi government. When the economic crisis and the long wave of sex-gate forced Berlusconi to resign, Giorgia saw in that government crisis the end of a world. The glittering promise of the triumphant phase of neoliberalism was replaced by a destiny of precarization, all the more bitter for the younger generations: in Italy and not only in Italy, the “entrepreneur of him/herself” who bet on the future and on futures was transformed into the owner of goods and rights in search of protection, security, values and beliefs substituted for those that the “society without fathers” no longer offered. Neoliberalism everywhere lost its joyful face and everywhere – in Europe, in the USA, in Brazil – sought and found a home in neoconservative and sovereignist ideologies.

Giorgia smelt the change of season and decided that the time had come to embark her brothers towards the promised land of the right’s redemption, with the wind in the sails of the far-right movements growing throughout Europe. She had already broken with Fini, reproaching him for “condemning the right to extinction”. Then she broke with Berlusconi as he was entering the technocratic Monti government. She saw before her “the right-wing people, lost after years of scandals and economic crisis”, ended with a farewell to her political fathers the circle of her life begun with the abandon of her biological father, and founded Fratelli d’Italia.

Italian political thinker and activist Franco Berardi Bifo commented this way on Meloni’s parable: “The psycho-cultural background of the rampant psycho-political crisis is the disintegration of the father figure and the sense of disorientation this causes in sons and daughters. But it is the daughters who know how to react to this condition, thanks to the strength that the history of feminism has given them… Instead of whining about the pink quotas, Giorgia took command of the sinking ship. She forgot her fathers and re-found patriarchy starting from the “brotherization” of women.” This is a pertinent reading, which develops my own reading, in the wake of some lacanian analysis, of Berlusconism as a theater of the crisis of the paternal order. But it needs a correction. What emerges from Meloni’s biographical-political story is not a refoundation of patriarchy, which would presuppose a solid father’s law and the exclusion of women from the transmission of male power. Rather, it is a sort of “fratriarcal” order, based on the competitive inclusion of women for reactionary purposes, within a framework of traditionalist values substituted for law. To better understand how this socio-symbolic structure works we are helped by some Meloni’s recent and public utterances.

5. You can easily find on You tube the viral video of Meloni’s rally at a gathering of the Spanish neo-Francoist party Vox in Andalusia last June, when she summed up her program in a series of YES and NO: “yes to the natural family, no to the LGBTQ lobby; yes to sexual identity, no to gender ideology; yes to the culture of life, no to the culture of death; yes to Christian values, no to Islamist violence; yes to secure borders, no to mass immigration; yes to work for our children, no to international finance; yes to the Europe of the people, no to the bureaucrats of Brussels”. To seal this eloquent manifesto of European far right’s identity, Meloni also performed a shouted show-down of her own identity, immediately arranged as a rap in social networks: “I am Giorgia. I am a woman. I’m Italian. I am a mother. I am a Christian.” Here Meloni’s cultural and political turn is clear: another passive revolution, after Berlusconi’s, which translates the feminist legacy into its opposite. If Berlusconism translated the feminist collective and political freedom into individual and competitive self-affirmation,

Meloni translates the feminist positive claim of being a woman into an identity politics that makes woman, or better mother, the pivot of a new nationalistic and reactionary order. In this order there are no possible deviations from sexual binarism and the heterosexual family, and woman, as mother and only as mother, is the means of counteracting the declining birth rate with reproduction among compatriots, which in turn is a barrier against the “ethnic replacement” and the Islamization of Europe coming from immigration.

There is no need to emphasize here the fascist ancestry of this approach. More useful, and more amusing, is to highlight two patent contradictions on which Meloni stumbles. The first is linguistics – and language, as we know, never lies. Immediately after Meloni took office as prime minister, her secretariat circulated an official note specifying that she must be addressed as “il presidente”, masculine, and not “la presidente”, feminine. The use in Italian language of grammatical feminine instead of masculine-neutral is an achievement of feminism, and Meloni’s predilection for masculine clearly shows that, despite her shouting “I am a woman”, she believes that masculine lends authority to her institutional role while feminine decreases it. Unless you want to interpret that note, as has been ironically done, as a slip of the tongue revealing a gender-fluid orientation in blatant contradiction with Meloni’s crusade against “the GLBTQ lobby”.

The second contradiction is political. Consistent with its name, Fratelli d’Italia is a mainly male party, with a leadership structure where there are only 5 women out of 24 members, and a parliamentary group where the number of women – in line with the trend of the other parties – declines compared to the previous legislature and does not cross the 30 percent threshold. As for the government led by a woman for the first time, there are only 6 women ministers out of 24, while elderly and seasoned men, resurrected from the center-right governments of the 1990s, abound.
These figures aside, women never appear in Meloni’s speeches as companions or privileged reference points for her political enterprise, nor does any reference to feminism ever appear: the “first woman” is alone in her competition with men. It is true that Meloni has been good at founding and leading a party by putting her “brothers” in line; and it

is true that she has been even better at resisting the pressures, trips and traps of her allies, Silvio Berlusconi and Matteo Salvini, who are far from willing to cede the scepter of the coalition leadership to her. However, it is equally true that “the self-made underdog”, as Meloni likes to represent herself, actually had some male guardian angels, co- founders with her of Fratelli d’Italia, who cleverly guessed that a young woman would be more attractive than them to an electorate tired of the convulsions of male politics.

All of this should shed a critical light on the “first woman to break the glass ceiling on the right instead of the left” that is running in the Italian media with the purpose of proving that feminism finds more audience on the right than on the left, that the right is more in tune with the times than the left, and that the left is out of touch with the world and history. This narrative can seduce neoliberal feminism, which identifies its main goal as the female conquest of top positions. It can serve as a leverage to the women inside the institutional left for fighting against the misogyny of their parties. But it may not convince radical feminism, whose issue is not the conquest of power but the change of politics, and whose practice is not the individual competition with men but the construction of significant relations among women. We should rather overturn this narrative asking whether what is taking place, in Italy and throughout Europe, is not a feministization but a feminization of the new rights, which are relying on women to foster regressive issues that would be rejected if proposed by alpha-men condemned by history to sunset.

6. I am going to close by returning from here to more general questions. Giorgia Meloni, who is also the leader of the European Conservatives Party in the European Parliament, has built her political rise on two polemical axes: the polemic against the European integration, in the name of a “Europe of the nations” based on the restoration of national sovereignty; and the polemic against big global finance and its European technocratic arm, in the name of an economic policy more responsive to the national interests and less dependent on external constraint. In the last months, however, in the run-up to winning the government she has modified these positions. She has concealed the extremist profile of the Vox rally as well as her support for Orbàn’s Hungarian regime, seeking to legitimize herself in the western establishment that she previously contested and aligning herself to the positions of Draghi’s government which she previously opposed.

On the economic side Meloni, now that she leads the government, knows well that she has no freedom to maneuver with respect to Brussels, given Italy’s public debt and given the energy crisis to which Europe must necessarily find unified solutions. On the foreign policy side, instead, things are more complex. The emphatic professions of Atlanticist faith made by Meloni after the Russian invasion of Ukraine are not necessarily at odds with her intention to undo the EU; indeed, her Atlanticism may strengthen ties with Washington and with strongly pro-USA and anti-Russia countries such as Poland, at the expense of ties with EU founding countries such as France and especially Germany – an eventuality not necessarily disliked by Washington.

In both economic and foreign policy, however, Meloni will have to contend with her allies: Salvini does not desist from pressing for economic measures that involve further increases in public debt, and both Salvini and Berlusconi favor opening negotiations with Putin, in a country where most of public opinion is unwilling to further approve the sending of arms and the unconditional support to Ukraine – as a big demonstration showed last Saturday in Rome.

All indications are that Meloni will aim to strengthen her international legitimacy in order to have a free hand on the illiberal policies she intends to pursue in Italy on civil rights, public order, immigration, and the control of dissent, as well as on her constitutional reform project. On the first side, the first signals from the new government are unequivocal. The first bill presented by Fdi in parliament would establish the legal personality of fetus, an old workhorse of the pro-life front. And the government’s first decree-law, issued in no time to block a rave party, is written in such a way to restrict the constitutional right to assemble and demonstrate in public places. As for the constitutional reform, it foresees an unequal regionalism that would be balanced by the direct election of the President of the Republic: in fact, the undoing of the structure of the republican state and its balance of powers.

What is being announced, therefore, is a cultural syncretism made up of hyper-Atlanticism in foreign policy, neoliberalism in economic policy, illiberal turn in domestic policy. This mixture is not and could not be a replica of historical fascism: as Foucault has taught us, after five decades of neoliberalism authoritarianism cannot reappear with the same face, the same state, the same methods as a century ago. But it is an equally if not more dangerous mixture, in which the unresolved link with the fascist past should not be underestimated, as it can bring to the right the symbolic advantage of a grounding in a nineteenth-century tradition that the left for its part has systematically demolished since 1989.
It may be that the convulsions within the right-wing coalition, the mounting economic and social crisis and Italy’s international obligations will make the Meloni experiment very short-lived. Or, on the contrary, it may be that Meloni will be able to silence her allies, quell social unease with a few populist moves, accredit her own proposal by riding the crisis of European democracies and slipping into the cracks opened by the war in Ukraine in the apparent compactness of the EU. And perhaps by waiting for Trump’s wind to blow back in her favor in the US. A century later, Italy could again become the political laboratory of a reactionary experiment with devastating effects for the old continent and perhaps for the West as a whole.

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Miscela Meloni

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 27 ottobre 2022

Tre appunti sulla Meloneide appena conclusasi con il voto di fiducia della Camera e del Senato al nuovo Governo. Sull’effetto “prima donna”, sulla questione fascismo-antifascismo, sul programma.

1. Come il profluvio di dirette, maratone e talk televisivi dimostra, la “prima donna” è e sarà inevitabilmente oggetto dello sguardo maschile e femminile più degli uomini che l’hanno preceduta. Meloni lo sa e per due giorni si è offerta a questo sguardo generosamente, senza sottrazioni e senza complessi, avendo capito e capitalizzato, grazie alla storia del femminismo che non le appartiene ma di cui si avvale, che oggi come oggi, in tempi di crisi devastante della politica maschile, essere una donna è un vantaggio e non uno svantaggio. La prima donna ha fatto la primadonna, mettendosi al centro della scena con il suo corpo, i suoi gesti, la sua storia, la sua biografia. La rottura stilistica rispetto al linguaggio scisso della politica maschile (fatto salvo Berlusconi, che il confine fra pubblico e privato l’ha rotto da quel dì e anche ieri, in apertura della sua rentrée al Senato, con l’annuncio del suo diciassettesimo nipote) è stata evidente, ed è la sola cosa di cui rallegrarsi.

Il che non toglie che per altri versi sia proprio il linguaggio a mostrare come con il suo essere donna Meloni sia tutt’altro che pacificata. Lo dice l’uso del maschile – il presidente e non la presidente – cui si ostina ad affidare il riconoscimento del proprio ruolo, come se il femminile invece lo diminuisse. Lo dice l’uso dei nomi senza cognomi con cui rende omaggio (qualcuna deve averglielo consigliato, perché non l’aveva mai fatto prima) ad altre “prime donne” che l’hanno preceduta, ma rigettandole in una sorta di album di famiglia privato e cifrato dove riconoscerne il ruolo pubblico diventa impossibile ai più. Lo dice la dose permanente di aggressività fallica cui non rinuncia nella sua competizione ravvicinata e spericolata con gli uomini.

Quello che resta stupefacente è come tutte e tutti, donne e uomini, siano cadute/i nel trappolone della “prima donna che sfonda a destra e non a sinistra”, una narrativa che punta dritto a dimostrare che il femminismo trova ascolto più a destra che a sinistra, che la destra è più di sinistra della sinistra e che la sinistra è fuori dal mondo e dalla storia. Strano che nessuna/o provi a rovesciarla e a chiedersi come mai le destre radicali di oggi, non solo in Italia, abbiano bisogno di femminilizzarsi – cosa ben diversa dal femministizzarsi – per addolcire e rendere commestibili i loro contenuti programmatici più retrivi. Provare a sostituire la faccia di Meloni con quella già vista all’opera di Salvini o con la mimica di La Russa o con la stazza di Crosetto per credere: le reazioni sarebbero ben più ruvide di quelle oltremodo contenute che abbiamo visto in Parlamento da parte delle opposizioni.

2. Conviene riavvolgere il nastro della Meloneide guardardo la prima giornata, invece che dalle centinaia di telecamere piazzate nel palazzo, dal particolare imprevisto delle cariche della polizia sulla manifestazione antifascista della Sapienza. Arrivato puntualmente a smentire una delle solenni dichiarazioni biografico-politiche della neopremier (“vengo dai movimenti giovanili e proverò simpatia anche per chi ci contesterà in piazza”), l’episodio annuncia il clima prossimo venturo, che prevedibilmente farà largo uso dell’ordine pubblico per lanciare segnali d’ordine più generali. Ma non solo: fa saltare d’un colpo uno dei due cardini su cui Meloni e i suoi (La Russa nel giorno della sua incoronazione a presidente del Senato non era stato da meno) allestiscono la loro idea della “riconciliazione nazionale”.

I due cardini sono connessi e riguardano, neanche a dirlo, il fascismo e l’antifascismo. Sul fascismo Meloni se l’è cavata come di consueto con poco, pochissimo, annegandone i contorni specifici nella condanna dei totalitarismi novecenteschi, garantendo di non aver mai “provato simpatia per i regimi antidemocratici, fascismo compreso”, e limitandosi a esecrare le leggi razziali del 1938 invece del regime nel suo complesso. Sull’antifascismo ha fatto peggio. Ha ignorato l’antifascismo della resistenza, ovvero il fondamento della costituzione, e ha attaccato l’antifascismo militante degli anni Settanta, commemorando “i ragazzi innocenti uccisi in suo nome a colpi di chiavi inglesi” e nascondendo sotto il tappeto il filo nero delle stragi neofasciste che percorre la storia della cosiddetta Prima repubblica e che dell’antifascismo militante fu la causa e la ragione. La risposta stizzita di Meloni al senatore Scarpinato che gliel’aveva fatto notare è la controprova che Scarpinato aveva colpito nel segno: questo è il copione della riscrittura della storia e dell’offerta di “riconciliazione nazionale” della destra postfascista. Si può esserne felici e contenti, come certa stampa liberale italiana che da anni accompagna e promuove questo revisionismo in nome e per conto della “normalizzazione democratica” di una “destra conservatrice” ripulita delle sue origini. Ma non ci si può meravigliare se poi contro questa rimozione del fascismo storico e del neofascismo della Prima repubblica l’antifascismo militante rispunta alla Sapienza o altrove.

3. Fin qui l’identità delle origini del melonismo. Sulla quale si innesta una miscela di neoliberalismo e sovranismo solo in apparenza contraddittoria, il sovranismo essendo in tutto il mondo una sorta di evoluzione perversa della weltanschauung neoliberale dissipativa, globalista e gaudente nel suo contrario rancoroso, nazionalista e suprematista. Sì che Meloni è neoliberale quando parla di merito e di capitale umano, di libertà di circolazione del contante, di “non disturbare chi vuole fare” cioè l’impresa; è sovranista quando evoca a ripetizione la nazione e le magnifiche sorti delle bellezze italiche, quando invoca il blocco dei migranti e la procreazione fra conterranei come antidoto al calo della natalità, quando vagheggia l’Europa “dei popoli e delle diversità” contro quella dei banchieri e dei burocrati; o quando con un eloquente lapsus riserva il “tu” a Abubakar Soumahoro, l’alieno nero piovuto dai campi nel parlamento dei bianchi; o quando parla di se stessa come l’underdog che ricorda tanto, è stato notato, i forgotten di Trump – salvo poi promettere la guerra ai poveri sul reddito di cittadinanza. Ed è infine schiettamente reazionaria, destra d’ordine doc, quando parla di carcere ostativo, quando (non) parla del reato di tortura che FdI vuole abolire, quando nomina le differenze come devianze, quando vaneggia di città insicure da consegnare alla vigilanza delle forze dell’ordine.

Questa miscela può essere esplosiva. Paradossalmente la doppia emergenza della guerra e della crisi energetica è, per ora, l’ancora di salvezza del nuovo Governo, perché lì la strada dell’atlantismo e del vincolo europeo è rigidamente tracciata dai poteri nazionali e internazionali senza la cui benedizione la “prima donna” non sarebbe dov’è. Solo per ora però, perché le differenze interne alla sua coalizione in materia di politica estera (né Berlusconi né la Lega hanno rinunciato a distinguersi dalla premier sulle prospettive della guerra in Ucraina) e di politica economica sono anch’esse potenzialmente esplosive. L’unico terreno su cui nel frattempo Meloni potrà consolidare l’identità della “destra conservatrice” è quello tradizionalissimo di una svolta d’ordine. Non saranno mesi facili. Tanto meno senza un’opposizione politica all’altezza della situazione.

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Vertigini della storia

Pubblicato su internazionale.it /l’Essenziale il 13 ottobre 2022

È sempre con la sua proverbiale ironia, più o meno dolce più o meno amara, che la storia ci mette lo zampino. Un’ironia amara ha voluto che toccasse a Liliana Segre, testimone vivente di Auschwitz, passare il testimone della seconda carica dello stato, quella che in caso di necessità assume le funzioni di garante della costituzione proprie del presidente della repubblica, a un signore che di primo nome fa Ignazio e di secondo Benito, che di essere definito fascista si è detto più volte onorato e di non essere antifascista si è più volte fatto vanto, che negli anni settanta a Milano era noto come “il camerata la rissa”, che il braccio destro l’ha alzato con arroganza in pubblico più di una volta. Senza il conforto di tutti i voti di Forza Italia e con il soccorso di una ventina di voti dell’opposizione, tanto per non smentire che la commedia all’italiana è sempre la commedia all’italiana, Ignazio La Russa è il nuovo presidente del senato. Si insedia con un discorso pieno di astuzie e lungo venticinque minuti, tre in più dei ventidue impiegati da Liliana Segre prima di ricevere una standing ovation molto calda dalla parte sinistra dell’emiciclo, molto tiepida dalla parte destra.

Due discorsi che sono due programmi. I commentatori liberali, gli stessi che da mesi sono impegnati in un’opera alacre di legittimazione preventiva del non ancora nato governo Meloni, si affannano a sommarli come fossero un solo, il programma della riunificazione e della pacificazione nazionale. Ma si sbagliano: l’una, Segre, e l’altro, La Russa, ciascuno a suo modo ed entrambi pur ligi al galateo che vuole le istituzioni al di sopra delle parti, tracciano di nuovo la linea del conflitto fra due modi di intendere la repubblica, la costituzione, la comunità nazionale.

Da quell’ironia della storia che la mette nel posto giusto al momento sbagliato Segre non si fa imbrigliare. La esplicita, nominando la “circostanza casuale” della coincidenza fra la sua funzione temporanea (e la nascita di una maggioranza a guida postfascista, anche se questo invece resta implicito) e il centenario della marcia su Roma. Prende dalla sua biografia personale il ricordo delle leggi razziste e della deportazione, che suona evidentemente come un severo memento politico al nuovo parlamento.

Poi snocciola una a una le condizioni di una unità repubblicana fondata su “un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti”, e sono tutte condizioni che alla destra vincente fanno venire l’allergia: l’ancoraggio alla costituzione, “testamento di centomila caduti nella lotta per la libertà” che non inizia nel 1943 ma con l’omicidio di Matteotti; la necessità di attuarla, soprattutto nel principio di uguaglianza, invece di farsi prendere dal prurito di modificarla; la celebrazione convinta e non rituale delle ricorrenze “scolpite nel grande libro della storia patria”, il 25 aprile che la destra non ha mai voluto onorare, il 1 maggio, il 2 giugno.

L’ultima freccia è contro il linguaggio dell’odio e della discriminazione, e anche questa, per quanto abbia una destinazione trasversale, colpisce di più nel campo in cui le diversità si chiamano devianze. Morale: in democrazia le urne sono sovrane e il loro responso va accettato, ma la democrazia costituzionale italiana ha una genealogia e un tracciato precisi che vanno rispettati e rinnovati. Segre ha l’autorità e si prende la libertà di dirlo senza troppi complimenti e senza peli sulla lingua.

Il presidente del senato ancora in pectore le ha portato in omaggio dei fiori bianchi, ma la ascolta con disappunto evidente. E mente sapendo di mentire quando, una volta investito della carica, premette che “non c’è una parola di Segre che non abbia meritato il mio plauso”, comprese quelle sul calendario civile delle ricorrenze condivise. Per i postfascisti è l’ora della ricerca della legittimazione, ideologica prima che politica. La Russa è scaltro, sa come si fa: ora che hanno vinto, possono professare unità per ribadire e finalmente imporre la loro versione della storia patria.

Dunque il neopresidente premette il dovuto rispetto per le istituzioni e per la terzietà del ruolo che lo attende, ma rivendica tutto intero il suo percorso militante di parte. Sostituisce ai centomila morti della resistenza i caduti “in divisa” nelle missioni italiane cosiddette di pace. Omaggia Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Della costituzione dice che invece va riformata, promettendo l’ennesima bicamerale o l’impossibile assemblea costituente che il centrodestra vagheggia da trent’anni.

Poi arriva l’affondo sugli anni settanta, perché la lingua batte dove il dente duole e fra i postfascisti è quello il dente che duole: “I momenti duri, durissimi, della contestazione, della violenza, della resistenza al terrorismo”. Mica quelli delle stragi di destra e di stato, no: quelli “dei tanti ragazzi, di ogni colore politico, che hanno perso la vita solo perché credevano in degli ideali”. Sergio Ramelli, “ma anche” Fausto e Iaio. Neri o rossi per lui pari sono e per ora basta ottenere questo, la parificazione degli opposti estremismi sotto la voce “violenza”. È quello che Giorgia Meloni chiama “il riscatto dei fratelli caduti” e tenuti ai margini della storia nazionale da quella discriminante antifascista che oggi la destra vincente può considerare finalmente abbattuta.

E che del resto vacilla non oggi. Maldestramente e del tutto arbitrariamente La Russa cita Sandro Pertini per glorificare la propria capacità di lottare, in gioventù, dalla parte perdente della storia, “senza paura ma anche senza speranza”. Più appropriata, astuta e ahinoi inattaccabile la citazione finale che riserva al discorso di insediamento alla presidenza della camera di Luciano Violante. “Non ho bisogno di ripetere per intero le sue parole, ma solo la parte che spero sia più condivisibile da tutti”, quella in cui Violante perorava il comune riconoscimento di tutte le parti politiche, sia pure con le loro distinzioni e contrapposizioni, “in un sistema comunemente condiviso”. Correva l’anno di grazia 1996. Nella parte che La Russa evita astutamente di citare, Violante parificava i combattenti della resistenza ai ragazzi di Salò. Due anni prima Berlusconi aveva sdoganato i postfascisti accogliendoli nel Polo delle libertà, e il partito erede del Pci pensò bene di non essere da meno.

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Per chi brucia quella fiamma

Pubblicato su internazionale.it/l’Essenziale il 26 settembre 2022

Gli occhi dell’altro sono spesso più veritieri dei propri. Colpisce, per tutta la lunga notte dei risultati elettorali, lo scarto fra come ci guardano dall’estero e come ci guardiamo noi. Gli altri, al di qua e al di là dell’Atlantico, puntano il dito sulla luna: per la prima volta in Italia vince un partito postfascista, per la prima volta spetterà a una donna mettersi a capo di un governo. Da noi si preferisce guardare il dito, normalizzando il risultato con la conta delle percentuali e dei seggi e glissando sul postfascismo, decretato dalla stampa liberale argomento obsoleto. Quanto alla “prima donna” l’attenzione è già tutta puntata sulla reazione dei maschi, i suoi alleati in primo luogo che in superficie festeggiano ma di certo in cuor loro non gradiscono lo smacco.

Gli storici del futuro saranno più precisi. Scriveranno che nel centesimo anniversario della marcia su Roma, e mentre nel cuore dell’Europa infuria una guerra che fa implodere definitivamente il campo ex comunista novecentesco, in Italia un partito con la fiamma tricolore nel simbolo vince le elezioni e va – legittimamente, come del resto il fascismo storico e il nazismo – al potere. Questo, alla fin fine, è il fatto, e i fatti storici sono sempre un misto di ripetizione del e differenza dal passato. No, non si annuncia un ritorno di fascismo-regime. Però sì, i sovranismi di oggi riciclano molti e sostanziali ingredienti del fascismo di ieri. L’Italia non ridiventa fascista, ma certo la discriminante antifascista, fondamento valoriale e politico della repubblica nata dalla resistenza, vacilla. Drammatizzare questo fatto con gli occhi rivolti al passato è presbite, minimizzarlo è miope. Metterlo a fuoco nelle sue cause e nei suoi effetti, interni e internazionali, in un sistema politico come quello italiano che da trent’anni non trova pace, sarebbe il primo nodo da sciogliere.

Il fatto accade, in primo luogo, in costanza di un tasso di astensione del 36 per cento, il più alto alle elezioni politiche della storia della repubblica, che al sud raggiunge picchi del 50 per cento. Significa che un terzo dell’elettorato e metà di un terzo del paese, vuoi per disinteresse, per disperazione o per protesta, al rito elettorale non crede più. La politica-spettacolo scivola sempre più, è stato efficacemente detto, in uno spettacolo senza pubblico. Dove il richiamo al fascismo o alla discriminante antifascista suona più o meno come la citazione di un geroglifico in una classe di marziani, e ben di più conta la consuetudine ormai inerziale a votare per l’ultimo prodotto disponibile e pubblicizzato sul mercato politico, della serie “proviamo anche con lei, non si sa mai”.

In secondo luogo. Meloni vince, con un balzo che dal 4 per cento del 2018 la porta al 26,5 per cento di oggi; ma non stravince, e cresce soprattutto a scapito dei suoi alleati (rispetto al 2018 la Lega crolla dal 17 all’8,8 per cento, Forza Italia dal 14 all’8). L’agognata maggioranza assoluta necessaria al centrodestra per farsi in casa il presidenzialismo “madre di tutte le riforme” non c’è. Quella per governare sì, anche se è tutto da vedere se e quanto reggerà alla prova della ferita narcisista di due maschi alfa come Salvini e Berlusconi messi in riga da una donna. Tanto più che con il suo 8 per cento la neonata formazione centrista di Calenda e Renzi manca di un soffio il sorpasso di Forza Italia, ma diventa pur sempre una tentazione a portata di mano per un eventuale sganciamento di Berlusconi dai suoi alleati euroscettici. Se a questo si sommano le divergenze interne alla coalizione sulla politica economica e la prevedibile resa dei conti interna alla Lega, i destini del futuro governo a guida meloniana sono più incerti di quanto appaia fulgida l’egemonia della destra sulla società italiana.

Che è pari all’annunciata implosione del campo opposto, dove la sconfitta politica e culturale è perfino più eclatante di quella numerica. Sono note le responsabilità del segretario del Partito democratico nella conduzione del gioco. A vanificare il ruolo di partito-guida del centrosinistra che il Pd si era sempre attribuito hanno contribuito la rottura isterica con Conte reo di lesa maestà nei confronti di Draghi, le oscillazioni fra la costruzione di un fronte antifascista (ma senza i cinquestelle) o di un’alleanza programmatica (con Calenda, poi sottrattosi), lo spostamento tardivo verso contenuti di politica sociale in contrasto con l’ossequio precedente all’agenda Draghi. E sopra tutto questo, la sottovalutazione delle trappole di una legge elettorale ai limiti dell’incostituzionalità, fatta apposta per premiare l’unità e punire le divisioni.

Disorientamento senza precedenti

Come sempre in questi casi, tuttavia, serve a poco o nulla la crocifissione del leader di turno, che peraltro ha già annunciato la sua intenzione di cedere il passo di qui a poco (magari a una donna, perché a sinistra si ricorre alle donne solo quando ci sono cocci da incollare e non quando la partita si può vincere). Con ogni evidenza il problema non è Letta o solo Letta, bensì la natura irreparabilmente contraddittoria e irriformabile di un partito geneticamente sospeso fra (abiura della) sinistra e adesione al credo neoliberale, attaccato alla funzione di governo e di “perno del sistema” come uniche ragion d’essere, e diventato di recente il garante di un atlantismo acritico a trazione anglo-americana dopo essere stato per decenni il garante di un europeismo acritico a trazione tedesca. Né le colpe della desertificazione di oggi vanno messe solo sul conto del Pd. La sinistra radicale non ha dato prova migliore di sé, con la decisione di Sinistra italiana di tornare a stringere con il Pd un’alleanza non poco innaturale date le diverse posizioni di partenza sulla guerra in Ucraina, e con l’ennesimo scacco matto dell’area aggregatasi in Unione popolare.

Il risultato è stato un disorientamento senza precedenti dell’elettorato di sinistra, che in parte – e magari obtorto collo – ha trovato nei cinquestelle un argine a cui affidare due messaggi in bottiglia: l’urgenza di ritrovare, a sinistra, un radicamento nei ceti popolari, e l’urgenza di calmierare l’atlantismo con qualche domanda più che legittima sulle prospettive politiche e geopolitiche della guerra in corso. Il partito di Conte se ne è giovato, ma che sia stato effettivamente la carta giusta su cui puntare per questa duplice scommessa è tutto da vedere, al di là dell’abilità che il suo leader ha dimostrato nello smentire con un 15 per cento (pur sempre la metà rispetto dell’exploit del 2018) i pronostici che davano per morto il movimento pentastellato. La vicenda non è comunque liquidabile con la diagnosi imperante di un successo dovuto, soprattutto nel sud, a un assistenzialismo incentrato sulla sola difesa del reddito di cittadinanza. Nel recupero elettorale ha contato la popolarità guadagnata da Conte nella prima fase del governo della pandemia, evidentemente non del tutto soppiantata dalla mitografia agiografica del successivo governo di Mario Draghi.

Il che vorrà pure dire qualcosa che l’informazione mainstream non vuole sentirsi dire, intenta com’era stata, all’epoca dell’insediamento del governo Draghi, a festeggiare l’archiviazione per via tecnocratica dei populismi. Il voto di domenica dice l’esatto contrario, confermando la regola per cui tecnocrazia e populismo si alimentano a vicenda l’una essendo l’altra faccia dell’altro. Certo, qualcosa di sostanziale è cambiato dal 2013: allora la fine del governo tecnico di Mario Monti scatenò il populismo “né di destra né di sinistra” di un movimento informe come il Movimento 5 stelle di Grillo e quello di destra della Lega xenofobica di Matteo Salvini; oggi la fine del governo Draghi premia un partito d’opposizione di destra come quello di Giorgia Meloni e un movimento diventato partito come quello di Conte, ricollocato a sinistra e passato all’opposizione dopo una lunga (e bifronte) esperienza di governo.

In un certo senso il quadro è più chiaro, così come ovunque nel mondo si va chiarendo la destinazione divaricante dei populismi, o verso il sovranismo tradizionalista di destra o verso un’iniezione di vocazione popolare perduta nella sinistra. Ma l’alternanza di tecnocrazia e populismo si conferma come la spia più evidente, e tuttora accesa, della crisi verticale della democrazia rappresentativa italiana. Anche le crisi più estenuate, però, a un certo punto si chiudono. Difficile scommettere che dalla propria sconfitta una sinistra parlamentare possa trarre le energie per una qualche palingenesi. Più facile prevedere che la via d’uscita si profili nello scontro fra la stretta d’ordine che la destra di governo tenterà di imprimere a un paese sull’orlo del collasso e il conflitto sociale che ne scaturirà. ⬤

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