Il Quirinale fra desideri e incognite

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 16 dicembre 2021

Il Quirinale fra desideri e incognite 

Pubblicato il 16 Dicembre 2021 

Nemmeno l’istituzione del Presidente della Repubblica, quella che rappresenta l’unità del paese e vigila sulla Costituzione, è riuscita a sottrarsi negli ultimi decenni alle derive degenerative della politica e della sfera pubblica italiane. Non mi riferisco a come il ruolo del Presidente è stato interpretato – con più o meno discrezione o protagonismo – da quanti l’hanno rivestito, bensì al modo contraddittorio, se non schizoide, in cui è stato riconfigurato nell’opinione pubblica: per un verso sovraccaricandolo della funzione di unico perno saldo di un sistema istituzionale perennemente vacillante, per l’altro verso personalizzandolo oltremisura. Una deriva presidenzialista di fatto, contro una Costituzione che la esclude di diritto.

La personalizzazione ha raggiunto il culmine con il gioco della decifrazione del desiderio di Mario Draghi di trasferirsi al Quirinale o di restare a Palazzo Chigi che ha occupato la scena politica nelle ultime settimane. Come se i destini di due istituzioni dipendessero dai gusti di un singolo, per quanto prestigioso e autorevole, e non dal complesso processo decisionale di una democrazia costituzionale. Come se non contasse l’influenza dei poteri internazionali che Draghi l’hanno voluto dove sta adesso, a garanzia del Pnrr e di un equilibrio europeo assai incerto dopo la fine dell’era Merkel; e che magari lo preferirebbero domani di nuovo al centro della governance europea piuttosto che al Quirinale. Come se, infine, si potesse prescindere dal peso imponderabile del fattore pandemia, nella parte del famigerato oste che puntualmente è arrivato, con la variante omicron, a scombinare i conti fatti senza di lui, imponendo una proroga dell’emergenza che entra in palese contraddizione con un eventuale trasloco di Draghi da palazzo Chigi al Colle.

Si dovrebbe sapere, del resto, che quello del desiderio è un piano inclinato, che sfugge al controllo della razionalità politica. E si dovrebbe sapere altresì che sul piano del desiderio la classifica dei giocatori in campo cambia, essendo il campione assoluto in materia Silvio Berlusconi. Il quale è precisamente uno che sul proprio desiderio non molla mai, e sa come giocarlo, rilanciarlo e portarlo comunque a profitto. Ora, che il Quirinale fosse in cima ai suoi desideri non tanto reconditi lo si sapeva e non da oggi né da ieri o da ieri l’altro: sì che suonano stupefacenti i punti esclamativi scandalizzati con cui la sua “sfacciata” autocandidatura è stata accolta e, sulle prime, sottovalutata. “L’Italia è il Paese che amo”, disse il Cavaliere quando scese in campo nel lontano 1994, e quale modo migliore della conquista del Quirinale per coronare quell’amore? L’Italia ha rimosso il ventennio berlusconiano, ma Berlusconi non ha rimosso il suo amore per l’Italia. E forse sarebbe stato il caso di monitorare meglio le sue mosse degli ultimi dieci anni invece di considerare archiviata la pratica e il personaggio con la sua uscita da Palazzo Chigi nel 2011, o di compiacersi, come pure è stato fatto, del suo moderatismo degli ultimi tempi.

Ancora una volta, puntando a carte scoperte su sé stesso (altro che le mosse felpate di altri candidati in pectore stile Sabino Cassese, per dirne uno che ne ha fatte parecchie anche prima dell’ultima Leopolda), Berlusconi rompe i giochi, organizza l’ennesima campagna elettorale (un po’ di dieta dimagrante, un’esca ai Cinque Stelle, una raddrizzata anti-sovranista ai talk di Mediaset) e si mette in posizione win-win. Se ce la fa col centrodestra compatto – cosa difficile ma non impossibile, dalla quarta votazione in poi – fa bingo, se non ce la fa torna comunque al centro della scena, come king maker per il Colle o come regista dell’ennesima ristrutturazione del sistema politico (stavolta magari a tre poli invece che a due come nel ’94, perché l’Europa comanda di isolare i sovranisti e paradossalmente proprio Berlusconi potrebbe risolversi a scaricarli).

Sono evidenti le ragioni per scongiurare che il suo desiderio si avveri. E sono partiti appelli e petizioni che le snocciolano. Berlusconi è divisivo e non può rappresentare l’unità nazionale; ha tentato per vent’anni di stravolgere la Costituzione e non può diventarne il garante; ha fatto una guerra senza quartiere alla magistratura e non può presiedere il Csm. È stato condannato per frode fiscale, ha vissuto di illegalità e menzogna sistematiche, si è preso gioco del parlamento con la storia della nipote di Mubarak e con le leggi ad personam, ha governato avvalendosi di un sistema di scambio prostitutivo fra potere, denaro e all’occorrenza sesso. Tutto vero, tutto noto, tutto largamente rimosso.

Eppure questo memorandum delle sue malefatte rischia ancora una volta di mancare il bersaglio, riproducendo gli antichi vizi di un antiberlusconismo inefficace che tralascia tre cose essenziali. La prima: Berlusconi è stato egemone per vent’anni non malgrado tutto ma grazie a tutto questo, perché nei suoi disvalori la maggior parte della società italiana si rispecchiava e si riconosceva. La seconda: Berlusconi è stato qualcosa di più di tutto questo elenco di misfatti: è stato la via italiana al neoliberismo, cioè a un’economia e a un’etica tutte incentrate sul mercato e sull’impresa e a una libertà tutta incentrata sull’egoismo che sono tuttora valori egemoni e indiscussi, che nemmeno la pandemia è riuscita a scalzare. È stato il gran maestro della svolta populista della politica italiana, con fin troppi allievi di cui la politica italiana non riesce a liberarsi. Ed è stato il costruttore di una sfera pubblica totalmente mediatizzata nella quale tuttora siamo immersi. Detto in sintesi, ha plasmato la società italiana a sua immagine e somiglianza, trasformandola – in peggio, s’intende – come forse nessun altro leader è mai riuscito a fare. Il suo desiderio di Quirinale fa leva su questa base materiale. Per sconfiggerlo non servono i pur sacrosanti appelli morali. Servirebbe dimostrare che siamo davvero fuori dal cono d’ombra della sua epoca; possibilmente senza l’ausilio di altri leader della provvidenza.

La cattiva notizia non è solo o tanto l’autocandidatura di Berlusconi. È il fatto che il sistema politico nel suo complesso sia arrivato alla scadenza del settennato di Mattarella senza un’altra idea che implorarne una proroga, duplicando così lo strappo formale già verificatosi con Napolitano, e con troppe incognite strutturali: sulla tenuta della maggioranza di Governo (che ne sarebbe dell’unità nazionale se Draghi traslocasse, e quale sarebbe l’esito elettorale di una pressoché certa fine anticipata della legislatura?), sulla struttura bipolare o tripolare del sistema (il fantomatico centro ribolle, ma stavolta avendo dalla sua l’obiettivo strategico europeo dell’isolamento dei sovranisti di cui sopra), sulla solita madre di tutte le incertezze, cioè la legge elettorale con cui prima o poi bisognerà eleggere il prossimo parlamento dimezzato. Troppi punti sospensivi perché maturi quel “king maker collettivo e condiviso” invocato da Enrico Letta. Allo stato, è più facile che il prossimo inquilino del Quirinale lo decida la somma algebrica di queste incognite. Magari coprendole con l’indicazione “di genere” – e dunque generica – di “una donna”, fin qui purtroppo non meglio specificata ma buona per dare una parvenza progressista a una situazione stagnante.


Informazioni su Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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