Dimmelo tu. “Toni, mio padre” di Anna Negri

“Stiamo facendo un film o una seduta di psicoanalisi?”, sbotta a un certo punto Toni-padre di fronte ai tormenti di Anna-figlia. Risposta: tutti e due, anzi: tutti e tre. “Toni, mio padre” di Anna Negri è insieme un film, un film sul film, una lunga seduta di analisi. È il film su Toni che Anna ha voluto testardamente fare, e più pareva difficile più lei lo voleva. È un film sugli inciampi, le incertezze, gli scoramenti che Anna ha dovuto superare per farlo. Ed è una lunga seduta d’analisi, con la temporalità sgranata e onirica, le scoperte e le regressioni, l’insistenza ritornante del sintomo che sono tipici della pratica analitica. Cos’è un’analisi, se non un percorso insieme tormentato e felice in cui il sintomo torna e ritorna, si presenta e si ripresenta, finché attraverso questa ripetizione si dissolve, o diventa possibile accettarlo e conviverci? 

Non è la biografia intellettuale e politica di Toni il fuoco del film, pur se essa viene restituita, per lampi e grazie anche al montaggio di Ilaria Frajoli, tutta intera: l’infanzia segnata dalla guerra e dal lutto, la cattedra precocissima nell’accademia, l’amore e il sodalizio con Paola, le prime lotte a Porto Marghera, la nascita di Anna e del fratello, il Sessantotto e Potere operaio, il Settantasette e l’Autonomia, il 7 aprile, il carcere sopportato studiando Spinoza, la fuga in Francia, Doni e Nina, il ritorno in Italia, la rinascita con Impero e con Judith. Tutto questo c’è, ma il fuoco del film è il sintomo di Anna, che si incista con l’arresto del padre il 7 aprile del ’79 e non la lascia più. Quel fatto marca un prima, l’infanzia in una famiglia piena di amici e felice, e un dopo, quando Anna, a 14 anni, diventa la “figlia di” che porta sulle spalle le colpe presunte del padre, la “testimone di una storia complicata” che vorrebbe cambiare nome, l’adolescente che dal padre chiuso in galera si sente abbandonata malgrado le lettere amorose che lui le scrive regolarmente. Anna fugge a sua volta all’estero, cambia ambiente, studia cinema. Ma l’abbandono raddoppia quando entrambi tornano in Italia, e lei invece che un ritrovamento avverte di nuovo, a torto o ragione, un’esclusione dalla nuova vita del padre. Non solo. Il mondo nel frattempo è cambiato, e la figlia di una coppia di rivoluzionari degli anni Settanta si ritrova a vivere nella società neoliberale degli anni Novanta e neofascista di oggi: “i cocci che ci avete lasciato voi rivoluzionari ce li siamo cuccati noi”. Compresa, nei cocci, la consapevolezza guadagnata nel femminismo che anche le coppie rivoluzionarie sono marchiate dal patriarcato. 

Il film è tutto un chiedere conto di questo capovolgimento della storia e delle vite, e di come sia possibile attraversarlo senza abiurare a niente, ma senza nemmeno accontentarsi della promessa che prima o poi il comunismo trionferà. Questo rendiconto, che è una rivendicazione non solo personale bensì testardamente generazionale, Anna l’aveva già chiesto al padre nel suo magnifico libro del 2009, Con un piede impigliato nella storia, che fa da precedente del film. Ma quello era un monologo; il film, invece, è un dialogo. Serrato, senza sconti né concessioni dall’una e dall’altra parte, a tratti duro, come quando Toni rivendica a sua volta il riconoscimento del suo credo rivoluzionario o come quando chiede a sua volta conto alla figlia dell’etica individualista, autoimprenditoriale e competitiva che si è impadronita della generazione degli anni Ottanta e seguenti. E proprio perché è sincero, il dialogo sposta, nel suo farsi, le posizioni dei due protagonisti. 

Vale per Anna, che rivive il dolore del passato e si lascia riprendere dalla telecamera mentre torna bambina, regredisce, piange, vacilla, si arrabbia, ha paura; ma alla fine il film riesce a finirlo, segno che è riuscita anche a prendere in mano la regia della sua vita. Ma vale anche per Toni. Che nel film conquista di fotogramma in fotogramma quella funzione paterna che Anna gli imputa di non aver saputo o voluto esercitare nella vita: si espone alle rivendicazioni della figlia ma senza arretrare, ascolta e replica ma senza sopraffare, accetta di aver trascurato le relazioni familiari ma chiede rispetto per un’esistenza ridotta dal carcere a lotta per la sopravvivenza, accoglie la sofferenza di Anna ma non rinuncia a chiederle un salto di responsabilità: “se noi abbiamo sbagliato, dimmelo tu come si fa oggi a lottare contro l’alienazione che tu stessa denunci”. Fa insomma quello che farebbe un buon padre – e persino, ma questo lui non accetterebbe mai di sentirselo dire, un buon analista. Sì che alla fine, se il mito di Toni Negri esce scrostato dalle impietose domande di Anna, la persona di Toni esce integra e potente, infragilita ma non piegata dalla malattia che lo costringe in carrozzina, ammorbidita ma non sfigurata né imbruttita dall’età. E più sfaccettata di quanto l’abbiamo mai vista. “È stato bello correre”, ma anche quando rallenta la vita è piena di luce.

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About Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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2 Responses to Dimmelo tu. “Toni, mio padre” di Anna Negri

  1. Avatar di Massimo Ulivari Massimo Ulivari ha detto:

    Questo è il mio commento al film. Il Suo commento evidenzia aspetti autentici, io mi sono soffermato su un altro aspetto: vedo Anna in continuità con gli anni ’70.

    “Toni, mio padre”, film-documentario di Anna Negri

    Di primo impulso si potrebbe affermare che si tratti di una ricostruzione troppo sentimentale o emotiva, una testimonianza tutta personale, che può certo essere tema di una documentazione o di una qualche elaborazione artistica come un film, ma che poco ha di valore storico o culturale – e figuriamoci poi politico.

    Se questo è vero – ma non lo è – io trovo qui non il punto debole di quest’opera, ma la sua innovativa caratteristica di forza. E qui non sono solo in gioco le capacità artistiche di Anna Negri o il suo coraggio nel mettersi in questione come figlia, ma c’è l’autentico messaggio del Movimento di quegli anni e del suo culmine – tragico – nell’aprile del ‘79.

    Qui sta a mio avviso l’aspetto principale di quest’opera: Una Storia raccontata da sempre da quello che oggi chiameremmo mainstream, viene adesso ripresa con forza da chi quegli anni, volente o nolente, li ha vissuti dalla parte giusta, dalla parte dei giovani protagonisti con le canne e le speranze. Come dice Toni a suo modo nel film: “Il nuovo soggetto che danza e ha una molotov in mano”.

    Chi adesso scrive è biograficamente solo di tre anni più grande di Anna ed anche senza avere una tradizione familiare come la sua, ha vissuto e voluto vivere quegli anni nel Movimento. In questo film-documentario ho ritrovato le sue stesse istanze, non solo quelle positive e di liberazione, ma anche e soprattutto quelle autocritiche e drammatiche.

    Anna ha detto in un’intervista che spera con il suo lavoro di poter far rivivere alle nuove generazioni quell’esigenza di cambiamento e ‘rivoluzione’ così drammaticamente espressi in quegli anni. Non so se riuscirà nel suo intento, anche perché a mio personalissimo avviso i giovani di oggi hanno dovuto subire una ennesima sconfitta tutta politica, ma ovviamente anche esistenziale e culturale: Quella dell’autodistruzione del MoVimento 5 stelle, protagonista dello scorso decennio. Ma questo è un altro discorso.

    Quello che Anna sicuramente è riuscita a fare è rendere l’atteggiamento dei giovani del 77 nei confronti di quegli anni e di se stessi. Un se stesso che Anna continua a vivere – o a sopportare – anche oggi, quando suo padre è ormai novantenne e non è cambiato in niente, anzi si dice orgogliosamente comunista.

    Ma quale sarebbe questo atteggiamento ‘eversivo’ degli anni 70? È l’atteggiamento problematico e talvolta drammatico nei confronti della vita intera, è il carattere consapevolmente sperimentale di essa. Fin dall’inizio Anna ci introduce al suo lavoro nell’incertezza di volerlo fare e nella necessità di doverlo fare. Con un padre decisamente dominante, in ogni senso, è una figlia, una donna, che non sa come affrontare questa avventura, dove lei è innanzitutto in gioco. 

    Ma che significa tutto questo? È una forma di ‘giovanilismo’ perenne e immaturo, che piagnucola a ogni piè sospinto – Anna si mostra spesso mentre piange o si arrabbia – e in fondo non combina niente se non guai, proprio come i giovani di allora? No, il film c’è e sta lì davanti ai nostri occhi, l’opera è stata portata a termine, una testimonianza, come ho già detto, assolutamente originale perché vera, perché testimonianza autentica di quegli anni e di se stessa, come forse mai era stata raccontata prima.

    In questo senso, come riuscita rielaborazione di quegli anni, potrebbe anche aprire uno spiraglio di luce per il futuro, attraverso la capacità di rielaborare e rivivere il rimosso di quegli anni. In questo senso, parlare di pietas, come fanno anche Anna e Toni – ma già Hegel, ad esempio, la colloca come sentimento fondamentale della famiglia e Heidegger come disposizione emotiva di un generico domandare filosofico -, è secondo me ancora troppo poco. Perché non è ancora gioia di vivere, riconquistata individualità – la peste nera per Toni e forse per Anna una cosa subita -, e non può perciò divenire progetto politico.

    Ma qui è necessario tenere conto anche dei limiti biografici di Anna. Questa è la sua storia, costretta da un nome, cioè un cognome, che l’ha segnata per tutta la vita. Di fronte a questo dramma tutto personale è possibile solo ascolto e rispetto – e la voglia di abbracciarla che ti prende mentre vedi il film, anche lei “bellissima” come la madre Paola.

    Ma è appunto in ciò che è invece generalizzabile che trovo la testimonianza di Anna così forte e quasi vincente. Quella di una persona che racconta quegli anni e se stessa con le caratteristiche a mio giudizio tipiche di una donna. Anna evidenzia questo aspetto tramite la differenza da Toni, lui più attento “alla politica”, lei invece agli “affetti”. È secondo me tempo di capire che questa resa molto – troppo? – femminile non è solo un aspetto di circostanza, o magari proprio un difetto, che offre solo un punto di vista ristretto e particolare sulla Storia. Lo sguardo di una donna sulla Storia, come è anche quello di Goliarda Sapienza nel suo “L’arte della gioia”, potrebbe essere al contrario proprio quella nuova e decisiva prospettiva che Anna afferma prepotentemente nel suo film e che può divenire un buon viatico per tutti noi nel futuro. È tempo di assumere questo sguardo, fragile, pieno di attese, ma talvolta con le lacrime agli occhi, anche per osservare noi stessi e il nostro presente, per essere partecipi della nostra Storia.

    Dobbiamo perciò ringraziare Anna non solo per averci raccontato la sua storia in un modo che forse nessuno prima aveva mai fatto, per aprirci una prospettiva di riconciliazione con quegli anni del nostro passato, ma anche e soprattutto per presentarci un atteggiamento verso la vita capace di farci vivere nel presente in un altro modo, in un modo autenticamente proprio e individuale – insomma femminile. 

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