25 settembre, il rimosso e gli spettri

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 22 settembre 2022

L’“operazione militare speciale” della Russia in Ucraina è infine diventata ufficialmente e a tutti gli effetti, con il discorso di Putin del 21 settembre, una guerra dichiarata non solo contro l’Ucraina ma contro l’Occidente. Un esito inscritto nell’inizio (e neanche tanto implicitamente: si rilegga il discorso di Putin del 23 febbraio scorso), ma accelerato, più che dalla recente controffensiva ucraina, dalla dissennata strategia con cui il fronte atlantista ha reagito alla follia di Putin alimentandola con la gara al rialzo delle armi e con la guerra per procura invece di cercare di disinnescarla con una qualche iniziativa politica di pace. Lo spettro del ricorso all’arma finale, evocato da Putin come ipotesi realistica, si installa nell’immaginario geopolitico globale. Ma non è l’unico. C’è quello di una guerra di trincea lunga e forse interminabile, con un numero incalcolabile di perdite su entrambi i fronti. C’è quello, già materializzatosi, di un’Europa azzoppata economicamente dagli effetti-boomerang delle sanzioni contro Mosca e dalla ritorsione russa sulle forniture di gas, e divisa politicamente, in prospettiva, dalle reazioni sociali, prevedibilmente diverse da paese a paese, alla crisi energetica e all’inflazione montanti. E c’è quello della Federazione russa sull’orlo di una disintegrazione possibile sotto i colpi dei nazionalisti delusi dalla prova di forza fallimentare di Putin, e di un’implosione di regime altrettanto possibile sotto i colpi della diserzione e della fuga di massa dalla “mobilitazione parziale”.

Il salto di scala militare è immediatamente salto di scala politico e geopolitico. E si spera che il terrore per il famigerato bottone nucleare faccia finalmente il miracolo di mettere in testa a una classe priva di senso della storia che la guerra in Ucraina non è una guerra regionale in cui basta schierarsi dalla parte dei valori democratici perché il cattivo perda e tutto torni al posto suo: è una guerra destituente e costituente dell’ordine mondiale, dopo la quale, e comunque vada a finire, al posto suo non tornerà niente. Questione epocale, sulla quale non una sola parola è stato possibile ascoltare nella ridondanza mediatica e comunicativa della campagna elettorale italiana. Dove la guerra ha giocato un ruolo sorprendentemente bifronte.

Per un verso, l’allineamento iper-atlantista è stato l’elemento ordinatore, ma non dichiarato, della crisi di governo (la scissione dell’affidabile Di Maio e l’emarginazione dell’inaffidabile Conte dalla maggioranza di governo), della strategia delle alleanze (l’espulsione del M5S dal “campo largo” di Letta), della legittimazione nazionale e internazionale della probabile vincitrice (la professione di fede atlantista di Meloni, più forte di ogni sospetto di filo-fascismo, di ogni dichiarazione di anti-antifascismo, nonché di ogni prova provata di anti-europeismo). Per l’altro verso, troppo occupata a misurarsi i gradi di atlantismo e di anti-putinismo, l’intera classe politica si è esentata dall’abbozzare una qualche risposta a domande ineludibili come le seguenti: qual è la posta in gioco reale di questa guerra? Qual è l’obiettivo politico, non solo valoriale, dell’appoggio italiano e europeo incondizionato all’Ucraina? Qual è quello della guerra per procura contro Putin? Una qualche negoziazione futura o il crollo del suo regime? La tenuta o la disintegrazione nazionalista della Federazione russa? E quali sono gli effetti non solo economici – bollette e inflazione o peggio, stagflazione – ma politici della guerra e del suo esito sugli equilibri dell’Unione europea?

Lo stesso ulteriore spettro che si aggira in Europa, quello di un rigurgito, se non di fascismo inteso come regime, di forze politiche che alla tradizione fascista si ispirano o non ne prendono congedo definitivamente, ha a che fare con l’interminabile fine degli assetti ideologici e geopolitici novecenteschi che si sta consumando nella guerra in corso. Giorgia Meloni ne è perfettamente consapevole, quando nella sua autobiografia, ancorché pubblicata prima dell’invasione russa dell’Ucraina, connette il riscatto finalmente possibile della destra italiana ed europea, nonché la fine della discriminante antifascista posta a fondamento della Costituzione italiana, alla decomposizione dell’ex blocco socialista iniziata nell’89-’91. E del resto sappiamo bene, o dovremmo, come gran parte delle spinte neo-nazionaliste o sovraniste che non da oggi minacciano l’Unione europea, compreso il sovranismo imperiale di Putin o quello illiberale di Orbàn, provengano proprio da quella decomposizione, che oggi arriva a lambire perfino un paese come la Svezia, storico bastione di una inossidabile socialdemocrazia neutrale convertitosi al militarismo della Nato e investito dall’onda sovranista di un partito con origini neonaziste come SD. Senonché questa – o un’altra – visione dei processi di lungo periodo che stanno sullo sfondo della catastrofe attuale manca interamente nel discorso del Pd, che si guarda bene dal mettere in discussione la sua narrativa trionfale dell’89 e seguenti e dal vedere più in là della crociata contro l’autocrate di turno, e scarseggia anche nella frammentata sinistra radicale e pacifista, che pure si è espressa contro l’invio delle armi in Ucraina, l’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato e lo schiacciamento dell’Europa sulla strategia angloamericana. Non si tratta solo di differenze cruciali di posizionamento in politica estera, sono questioni che investono in pieno l’identità e le radici novecentesche della sinistra italiana (ed europea). Che se ne discuta poco o niente è la prima causa di disorientamento che conduce pezzi consistenti del suo elettorato di sinistra a non partecipare al gioco elettorale, o a parteciparvi tradendola.

C’è un ultimo spettro che va menzionato, ed è quello della pandemia. Quelle del 25 settembre sono le prime elezioni generali che si tengono dopo il più forte e inedito trauma che si è impresso, letteralmente, sul corpo, sulla pelle e sull’apparato sensoriale del paese. L’invasione di un microorganismo sconosciuto capace di mettere sotto scacco il primato della specie umana sulle altre, il confinamento e la desocializzazione forzata, la digitalizzazione delle relazioni sociali, i morti in solitudine senza rito della sepoltura, le città svuotate avvolte da un silenzio metafisico, gli esiti nefasti dell’erosione neoliberale del sistema sanitario nazionale, l’importanza cruciale del lavoro degli essential e delle reti di solidarietà, la presa d’atto della comune vulnerabilità, l’urgenza di costruire una società della cura e di mutare radicalmente la concezione antropocentrica della vita del pianeta. Era solo poco più di due anni fa, eppure anche tutto questo è caduto nella rimozione ed è scomparso dal discorso politico pre-elettorale, che pure avrebbe potuto e dovuto giovarsene, soprattutto a sinistra, se la sinistra avesse ancora a che fare con l’immaginazione politica di un cambiamento dello stato delle cose.

Sono rimozioni che si pagano, e non solo perché lo spettro “variante” del virus è sempre lì in agguato. Ma perché quando si separa così nettamente dall’esperienza comune, la politica svanisce. Diventa essa stessa spettrale, seppure apparentemente incarnata da leader onnipresenti che saltellano da un talk all’altro o da un socialnetwork all’altro. Ridarle materialità, al di qua e al di là delle pur determinanti e discriminanti maggioranze di governo che usciranno dalle urne, è il compito improcrastinabile che la probabile deriva verso il peggio ci impedirà di eludere.

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La nave distopica di Giorgia e i suoi fratelli

Pubblicato su internazionale.it-l’essenziale il 26 agosto 2022

Conosco molte femministe che non prendono neanche in considerazione l’ipotesi di votare per Giorgia Meloni, a causa delle sue idee e nonostante sia una donna. Non ne conosco nessuna intenzionata a votarla in quanto donna e nonostante le sue idee. Sarà pure un sondaggio personale e limitato, ma magari fornisce una piccola bussola per orientarsi nel dibattito assai confuso e non poco strumentale che sta montando sul tema e che, come sempre quando si discute di femminismo e politica, ha come principale obiettivo la spettralizzazione e la colpevolizzazione del femminismo.

Per spettralizzazione intendo la pessima abitudine di parlare del femminismo approssimativamente, senza riguardo per la sua storia, le sue articolazioni interne, le sue trasformazioni maturate nel susseguirsi delle stagioni politiche; e quindi facendone una galassia confusa che riparte ogni volta dal grado zero su ogni questione. La colpevolizzazione ne consegue: così rappresentato, il femminismo si può sempre cogliere in castagna per qualche cosa.

Esempi. Non è vero che “il femminismo” abbia mai fatto proprio lo slogan di “una donna” presidente del consiglio, o della repubblica o in altri ruoli apicali, lanciato a più riprese da pezzi di opinione pubblica femminile progressista. Il femminismo radicale l’ha anzi contestato vibratamente, l’ultima volta durante l’elezione del presidente della repubblica: primo perché “una donna” senza un nome e un cognome non esiste, secondo perché “una donna” senza ancoraggio nella politica delle donne non è una garanzia per nessuna, terzo perché il problema, per il femminismo radicale, non è mai stato quello di espugnare o di spartire i vertici della politica maschile, ma di cambiarla.

Secondo esempio. Non è di oggi l’illusione, di recente rilanciata da una petizione promossa da Marina Terragni e contestata da Natalia Aspesi, che tra donne si possa creare un fronte unitario, basato su istanze condivise e trasversale alle appartenenze politiche. E non è di oggi neanche la disillusione, perché se ognuna è in primo luogo una donna nessuna è soltanto una donna e le appartenenze, politiche nonché sociali e culturali, contano, così come contano le differenze e i conflitti interni al femminismo su temi importanti che tanto condivisi non sono, e che alla faccia del trasversalismo portano acqua al mulino di certe forze politiche e non di altre: se della maternità o della gestazione per altri si parla negli stessi termini di Giorgia Meloni se ne avvantaggerà Giorgia Meloni, bisogna saperlo e magari anche avere la schiettezza di dirlo.

Terzo e ultimo esempio. Non è nemmeno di oggi, né di ieri l’altro, la scoperta che nel centrodestra la promozione di alcune donne in ruoli di rilievo è meno infrequente che nel centrosinistra: tema e svolgimento risalgono nientemeno che all’elezione alla presidenza della camera di Irene Pivetti, nell’ormai lontano 1994. Già allora era chiaro – molto se ne discusse, e molto si trarrebbe di utile per l’oggi rileggendo quella discussione – che nel campo berlusconiano si faceva avanti un protagonismo competitivo femminile, aiutato dalla cooptazione maschile, che spiazzava un centrosinistra dove il secondo sesso restava immancabilmente tale. Trent’anni dopo, la resistibile ascesa di Giorgia Meloni a candidata presidente del consiglio ci rimette di fronte alla stessa evidenza, accentuandola.

È un po’ poco però cavarsela contrapponendo al curriculum di Meloni quello di Elly Schlein e continuare a prendersela con l’incapacità dei leader del Partito democratico di cedere il passo al gentil sesso: forse c’è sotto un difetto d’analisi più sostanziale, nonché una granitica incapacità delle donne del centrosinistra di metterlo a fuoco e correggerlo. Né si può all’inverso continuare a invocare la separazione dei destini del femminismo da quelli della sinistra: quel taglio è stato fatto una volta per tutte dal femminismo della differenza negli anni settanta, e non mi pare che qualcuna l’abbia mai revocato per occuparsi della “salvezza della sinistra”.

Temo dunque che rivangare questo tipo di questioni serva a poco per mettere a fuoco “l’elefante nella stanza”, come l’ha definito Giorgia Serughetti, ovvero il fatto che la prima donna candidata a guidare il governo in Italia sia una leader quarantacinquenne della destra radicale che con la politica delle donne non ha niente a che fare. Proporrei piuttosto di capovolgere il cannocchiale, e provare a capire non come noi la guardiamo ma come lei guarda noi, la storia d’Italia e il presente che abitiamo.

Lo spettro degli anni settanta

Come per uno scherzo del destino, Giorgia Meloni nasce nel 1977, l’anno apicale dei famigerati anni settanta, quello in cui si consuma il divorzio mai più ricomposto tra la cultura della sinistra storica e quelle dei movimenti giovanili e del femminismo. Nella sua autobiografia, Io sono Giorgia, a quella data non dà tuttavia particolare rilievo, mentre del decennio restituisce, attraverso la memoria della madre che all’epoca era una simpatizzante dell’estrema destra, un quadro tutto sommato più veritiero del ritornante scongiuro mainstream sugli anni di piombo: erano anni, scrive, “animati da un impeto giovanile presto dirottato da un potere cinico e spietato nella logica degli opposti estremismi”, ma mossi anche “da una insaziabile voglia di cambiare tutto, condividere tutto, discutere tutto, che ti viene quasi da invidiare in quest’epoca di vuoto a perdere”.

Quella memoria indiretta si installerà in lei come un’impronta decisiva: è da lì che nasce la missione di riscattare i suoi fratelli della destra neofascista, la parte perdente del conflitto di quella stagione, dal destino di marginalità cui erano stati consegnati. Del femminismo degli anni settanta, invece, Giorgia non ha memoria politica e non fa menzione; ne reca tuttavia una traccia inconscia e privatizzata, nel rapporto di gratitudine verso la madre (“le devo tutto, a cominciare dalla vita”) e nell’amicizia tenace con alcune collaboratrici irrinunciabili. Se aggiungiamo il tassello come vedremo cruciale dell’assenza del padre che l’abbandona da piccola, in questo quadro di partenza c’è già in nuce tutto il seguito della vicenda.

Ancora due date prima di entrare nelle scelte politiche da adulta. Nel 1989, quando cade il muro di Berlino, Giorgia ha dodici anni; pochi, ma le bastano per annotare, da grande, che “per il nostro mondo fu festa grande. Nei decenni in cui tutti avevano fatto finta di non vedere, o persino esaltato quel modello come il Pci, la destra non aveva dimenticato i fratelli dell’Est Europa schiacciati dall’oppressione comunista”: ecco degli altri fratelli da salvare. Tre anni ancora e Giorgia trova quelli con cui avviare l’impresa. È il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino viene crivellato sotto casa di sua madre, cinquantasei giorni dopo che Giovanni Falcone era saltato in aria a Capaci.

Per la generazione cresciuta dopo gli anni settanta, quelle due stragi hanno lo stesso effetto che per la precedente aveva avuto piazza Fontana: sono la scoperta che nello stato italiano c’è del marcio come nella Danimarca di Amleto, tanto più che si sovrappongono alla scoperta di Tangentopoli che mette sotto processo tutto il sistema politico. Giorgia infila il portone blindato della sezione del Fronte della gioventù della Garbatella e trova lì casa e famiglia, convinta e confortata dalla estraneità del Movimento sociale italiano ai fasti e ai nefasti della cosiddetta prima repubblica: altri fratelli da riscattare dal ruolo dei perdenti della storia.

All’ombra di Papi

A tirarli fuori da quel ruolo ci sta pensando intanto, con mezzi ben più potenti, anche Silvio Berlusconi, che due anni dopo scenderà in campo sdoganando il Movimento sociale italiano e accogliendolo, col rinnovato nome di Alleanza nazionale, nel Polo delle libertà. Curiosamente, però, dell’avventura all’interno della coalizione berlusconiana Meloni nel suo libro tace, limitandosi a raccontare solo la sua strenua militanza e la sua rapida carriera nel retrobottega delle organizzazioni giovanili di An: ne parlerà solo ex post, al momento della rottura con Berlusconi, ricordando come sia stato difficile per lei accettare, nel 2008, la confluenza di An nel Popolo della libertà e “amalgamare i nostri ragazzi con quei giovani rampanti in giacca blu e tacchi alti”. Pure, con quei tacchi alti Giorgia è a lungo convissuta negli anni a cavallo del cambio di secolo, che sono tutt’altro che secondari nel suo romanzo di formazione.

Sono gli anni in cui, sotto la regia televisiva e politica del Cavaliere, si dispiega quella sorta di rivoluzione passiva che ha come obiettivo privilegiato il riaddomesticamento delle donne dopo la sovversione degli anni settanta, e che consiste nella traduzione della libertà politica e collettiva guadagnata nel femminismo in (auto)promozione individuale e competitiva, attraverso una forma perversa di “valorizzazione” del femminile nel mercato del lavoro, del consumo e del sesso, nonché nel mercato politico. Aspetto non marginale della (contro)rivoluzione neoliberale in tutto l’occidente, questa operazione mostra nel laboratorio italiano anche il suo presupposto simbolico, ovvero quel declino della legge del padre che è il risvolto del trionfo dell’etica del mercato: la maschera tragicomica di Papi condensa in sé questi due lati di un cambiamento che investe in pieno l’ordine simbolico e sociale del rapporto tra i sessi.

Ma mentre tutto questo si mostra plasticamente nel teatro politico del centrodestra, e mentre il femminismo radicale, dal canto suo, diagnostica la fine dell’ordine patriarcale avvertendo che non si tratterà di un pranzo di gala, sul fronte del centrosinistra le lancette del tempo vanno a ritroso. Finito nel dimenticatoio lo slogan “dalle donne la forza delle donne” che nei tardi anni ottanta aveva tentato di ibridare la cultura dell’allora Pci con le pratiche femministe, nel Pds-Ds-Pd rispunta, sotto la verniciatura della “questione di genere”, la vecchia “questione femminile” fatta solo di discriminazione, auto-vittimizzazione e rivendicazione di quote rosa e ruoli di potere.

Meloni – che, lo sottolinea, discriminata non si è mai sentita – si accorge di questa asimmetria tra i due campi e la interpreta e la capitalizza a modo suo. Annota che “a sinistra parlano tanto di parità, ma in fondo pensano che la presenza femminile in politica debba essere una concessione maschile”, mentre “è la destra ad aver fatto emergere più donne al vertice”. Ma chiude tutti e due gli occhi di fronte al lato osceno di questa valorizzazione delle donne: in parlamento vota senza battere ciglio sulla nipote di Mubarak, e nel suo libro liquida il sistema berlusconiano di scambio tra sesso e potere come “una condotta privata francamente un po’ spregiudicata”.

Prove di fratriarcato


Eppure del berlusconismo, dalla cui superficie glamour ci tiene a prendere spesso le distanze, Meloni interiorizza i due aspetti profondi che abbiamo già menzionati: l’etica competitiva, che le consente di sfidare gli uomini, e il declino dell’ordine paterno, che fa da sfondo al momento cruciale della sua ascesa politica. Siamo nel 2011, “quando tutto stava per finire”. Giorgia è deputata da cinque anni, grazie a Gianfranco Fini è diventata vicepresidente della camera dal 2006 al 2008 e poi ministra della gioventù nel quarto governo Berlusconi. Quando lo spread, nonché l’onda lunga del sexgate, costringe Berlusconi a dimettersi non c’è solo una crisi di governo ma la fine di un mondo. All’imperativo del godimento subentra la disciplina del debito, al carnevale berlusconiano la quaresima di Mario Monti, alle promesse scintillanti della fase trionfale del neoliberalismo l’austerità e un destino di precarizzazione tanto più amaro per le giovani generazioni: l’imprenditore di se stesso che scommetteva sul futuro e sui futures si trasforma nel proprietario di beni e di diritti in cerca di protezione, sicurezza, valori e credenze sostitutivi di quelli che la “società senza padri” non offre più. Il neoliberalismo perde ovunque la sua faccia gaudente e ovunque cerca e trova sponde nelle ideologie neoconservatrici e sovraniste.

Meloni fiuta il cambio di stagione e decide che non può stare con quelli che ne reggono il timone tecnocratico, e che è venuto il momento di “conservare il futuro” e di imbarcare i suoi fratelli verso la terra promessa della riscossa della destra. Aveva già rotto con Fini, quando quest’ultimo l’aveva mollata nel Popolo della libertà (Pdl) andandosene e rischiando “di condannare la destra all’estinzione”. Adesso rompe con Berlusconi che si arrende a Monti: “non mi sento più a casa”, gli comunica. Alza i tacchi, chiude con l’addio ai padri politici il cerchio di una vita cominciata con l’addio di suo padre, vede davanti a sé “un popolo di destra, smarrito dopo anni di scandali e di crisi economica”, e fonda Fratelli d’Italia.

Commento di Franco Berardi Bifo, in una acuta lettura di qualche mese fa dell’autobiografia di Meloni: “Il retroterra psicoculturale della crisi psicopolitica dilagante è la disgregazione della figura paterna e il senso di sperdimento che questo provoca nei figli e nelle figlie. Ma sono le figlie che sanno reagire a questa condizione, grazie alla forza che ha dato loro la storia del femminismo… Invece di piagnucolare per le quote rosa, Giorgia ha preso il comando della nave che affondava. Dimentica il padre, e rifonda il patriarcato partendo dalla fratellizzazione delle donne”. Non si potrebbe dire meglio, salvo forse sostituire patriarcato con fratriarcato: Giorgia è una donna che sutura la ferita inferta nei fratelli dalla crisi del patriarcato, compattandoli e imbarcandoli da condottiera sulla nave della terra promessa. Per portarla dove?

Madri e muri

Dalla nave intanto sono scomparse le sorelle: c’è solo lei al comando, e lei decide anche del loro destino, che è né più né meno che il destino materno tradizionale, per quanto corretto con il sale e il pepe della competenza e della competizione, all’interno di una famiglia tradizionale, dove i ruoli di genere tornano al posto loro e gli orientamenti sessuali “devianti” sono risospinti in una maltollerata privatezza senza riconoscimento di diritto. Certo, è un destino centrale, perché siamo in piena crisi da denatalità e questa per Meloni è l’ossessione numero uno, in nessun modo riparabile con l’immigrazione che è la sua ossessione numero due, e dunque tutta affidata alla riproduzione – “naturale”, intende – degli autoctoni: sono i fratelli d’Italia, e solo loro, a poter ingravidare le “loro” donne, nel più classico schema sovranista.

Ma non è solo per questo destino femminile, tanto simile a quello allestito per le donne dal ventennio fascista, che sulla sua nave fratriarcale non possiamo salire: bensì perché la stiva è stipata di una paccottiglia vecchia e nuova di cui bisogna solo liberarsi. C’è una fissazione identitaria che procede per sommatoria di etichette (“io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana, sono patriota, sono italiana”) e che è l’inverso, concettuale e politico, della concezione anti-identitaria della differenza nel femminismo. C’è un’apologia esplicita dei muri come dispositivi di protezione invece del loro rifiuto come dispositivi di segregazione. C’è una monumentalizzazione del passato europeo che dimentica la colpa del colonialismo e derubrica quella del razzismo. C’è, come in tutto pensiero reazionario di oggi a cominciare da quello di Alexander Dugin, un astio verso la sinistra che unisce in un’unica parabola l’anticomunismo e l’antiliberalismo, e una fobia del postmodernismo che rivela, non a caso nella scia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, una matrice antimoderna schiettamente reazionaria.

C’è infine, ed è posta in gioco discriminante in questa campagna elettorale, un desiderio allarmante di rivincita rispetto alla storia e alla memoria della repubblica. Se Meloni sponsorizza con tanta convinzione il presidenzialismo, attenzione, non è per le ragioni di funzionalità o di efficienza dell’ordinamento accampate dai solerti liberali che le stanno aprendo le porte, ma per farne dichiaratamente la bandiera ideologica dello “scontro fra patrioti e sinistra” sulla base di una lettura fantasiosa e inaccettabile della storia nazionale di prima e dopo l’89. E se accetta di “ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo” è solo perché non nasconde che tuttavia il vero obiettivo da colpire per lei è l’antifascismo: niente di più e niente di meno che il fondamento della nostra costituzione.

Possiamo guardare con simpatia l’orgoglio con cui Meloni dice “sono una donna”, e rintracciarvi perfino un’impronta inconsapevole dell’eredità femminista, all’interno di una storia che tuttavia è il rovescio della nostra. Ma non possiamo seguirla nemmeno per qualche tratto sulla sua nave distopica, e dobbiamo fare di tutto perché affondi. Se fosse ancora in questo mondo, Angela Putino ci inviterebbe a praticare decisamente con lei (e un po’ meglio anche fra di noi) l’arte di polemizzare fra donne.

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I cocci

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 21 luglio 2022

Aggregatasi attorno alla distribuzione dei fondi del Pnrr e alla smania di “ritorno alla normalità” pre-pandemica, l’unità nazionale non ha retto, e non poteva reggere, al cambio di stagione che vede sovrapporsi e convergere sei diverse emergenze – guerra, inflazione, crisi climatica, crisi energetica, carestia, pandemia – in un concentrato catastrofico inimmaginabile solo sei mesi orsono. Non ha retto e non poteva reggere l’unità nazionale, non ha retto, anzi è definitivamente imploso, un sistema politico già sgretolato e privo di credibilità, e non ha retto nemmeno l’uomo, il tecnocrate, la riserva della Repubblica, che era stato chiamato a supplirne inadeguatezze e inefficienze.

È questa la verità profonda e sostanziale, ma che nessuno osa nominare e ammettere, di una crisi altrimenti inspiegabile. Cominciata con un pettegolezzo poco dignitoso per i suoi stessi protagonisti, il Comico e il Tecnocrate. Proseguita con una scissione calcolata – e probabilmente teleguidata – a tavolino per garantire la tenuta del governo, e rivelatasi una miccia per il suo affossamento. Imputata tutta al gesto di sottrazione dei 5S – un non-voto, non una sfiducia – che alla fine della storia appare il gesto meno opaco di tutti, ancorché dilettantesco. E finita con uno schiaffo del centrodestra, l’unico che dalle elezioni anticipate ha tutto da guadagnare (ma poi chissà), perché alla fine in politica gli interessi e i numeri contano più degli inchini e delle genuflessioni.

Più che quella dei singoli attori, incomprensibile rimane la conduzione della crisi da parte del protagonista del plot, che sembra aver fatto di tutto non per tutelare ma per terminare il suo governo. Prima l’inserimento non necessario, nel voto di fiducia sul “decreto aiuti”, di un provvedimento indigeribile (il famigerato inceneritore) per i 5S. Poi le dimissioni, né dovute né necessarie né opportune, malgrado la fiducia delle due Camere. Poi l’impianto del discorso di ieri al Senato, con tre errori marchiani: un programma più da inizio che da fine legislatura, puntigliosamente volto a inasprire invece che a smussare le tensioni con i 5S e la Lega; l’accento populista della contrapposizione fra “gli Italiani” mobilitatisi per il premier e il parlamento e i partiti meno meritevoli della sua considerazione; la rivendicazione senza se e senza ma, aggressiva e ultimativa, della posizione assunta sulla guerra. Draghi voleva andarsene e dimostrare, a Mattarella in primis, che non poteva fare altro che andarsene? O puntava maldestramente su una ulteriore scomposizione del sistema politico che mettesse fuori gioco “i populisti”, ovvero sullo sgretolamento definitivo dei 5S e sull’emarginazione della Lega nel centrodestra che invece si è compattato?

Ora tutti, salvo Giorgia Meloni, dicono che nessuno voleva le elezioni anticipate. Ma non è vero, perché invece le volevano tutti, perché tutti – e forse lo stesso Draghi – sono terrorizzati dall’autunno che ci aspetta con il concentrato di emergenze di cui sopra, nessuno – e forse lo stesso Draghi – sa come gestire un tasso di inflazione che mette in mora i fondamentali delle (rovinose) politiche economiche degli ultimi decenni, e tanto vale mandare a schiantarsi su questo disastro annunciato Meloni, che guarda caso è l’unica donna della situazione – ammesso, s’intende, che i suoi due virilissimi alleati glielo consentano.

Restano, come sempre, i cocci da raccogliere, e quelli dell’esperimento Draghi, anzi Mattarella-Draghi, sono cocci pesanti. Com’era o avrebbe dovuto essere evidente fin da subito, la soluzione tecnocratica non ha lavorato per una ricomposizione ma per una ulteriore scomposizione del sistema politico. Non ha sgombrato il campo da populismo e sovranismo, perché se il 5S si sono sgretolati – alimentando l’astensione – FdI e Lega continuano a prosperare. Ha invece ulteriormente indebolito il campo del centrosinistra, con un Pd identificato senza resti con Draghi e quindi oggi sconfitto con lui, l’alleanza con i 5S saltata e il “campo largo” ristretto al rapporto con i vari Renzi e Calenda ringalluzziti. Il tutto nella camicia di forza di un bipolarismo imposto dalla legge elettorale ma ormai privo di qualunque sostanza.

Soprattutto, sono la rappresentanza e le istituzioni a uscirne ulteriormente provate: con le performance grottesche come quella di ieri al Senato, senza dimenticare quella di pochi mesi fa per l’elezione del capo dello Stato, ma anche con novità inquietanti come le “manifestazioni spontanee” a sostegno del premier, orchestrate nell’ultima settimana da poteri forti e deboli, e da corporazioni di varia natura (oltre ogni immaginazione la lettera al premier dei neuroscienziati). La stessa Presidenza della Repubblica, cui la soluzione Draghi si deve interamente, ne esce evidentemente diminuita. In compenso le novità non mancano. Dopo la democrazia dell’applauso sperimentata nel ventennio berlusconiano, nel bagno purificatore dell’astensionismo di massa e all’ombra dei poteri internazionali garanti del tecnocrate è nata la democrazia della supplica. Suppliche a Mattarella perché restasse, suppliche a Draghi perché non ci abbandonasse.

Sono tutti argomenti, purtroppo, a favore della propaganda antioccidentale di Putin, e a sfavore delle democrazie armate di valori tanto predicati quanto traditi. Ci aspettano tempi pesanti.

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Amministrative, la festa e il segnale

Pubblicato il 1 luglio 2022 su centrostudiriformastato.it

Fra le croniche oscillazioni della politica italiana c’è una sola certezza, ed è che sempre meno cittadini/e considerano il voto un diritto-dovere utile e significativo per la propria condizione e la propria esistenza. Se ne dovrebbe ragionare molto – disaffezione o protesta? Rassegnazione passiva o esodo attivo? Spoliticizzazione o bisogno di una politica diversa da quella che c’è? – e invece ogni volta il non-voto scivola via dalle analisi del giorno dopo come fosse una grandinata che poi passa, e i conti si fanno solo con i voti espressi, corrispondenti ormai a meno della metà del corpo elettorale. Applicando peraltro alla dimensione locale giudizi e pregiudizi presi dalla dimensione nazionale, il che non aiuta a fare l’operazione inversa, cioè a cogliere dalla dimensione locale i segnali utili per leggere meglio quella nazionale.

È stato così anche con la mini-tornata di amministrative conclusa domenica scorsa, che è stata complessivamente assegnata al cosiddetto “campo largo” di centrosinistra in supposta rimonta su un centrodestra litigioso e diviso. Il che sommariamente è vero, ma solo sommariamente, e rischia di far passare per conferme dello schema bipolare processi che sono al contrario effetti del suo sfarinamento.

Prendiamo il caso di Catanzaro, che per una volta fa notizia non per il suo rassegnato consenso al campo moderato ma per la brillante vittoria della coalizione di centrosinistra guidata da Nicola Fiorita, il quale ha sbaragliato al ballottaggio (58,24 a 41,76) quella di centrodestra guidata da Valerio Donato, ribaltando il risultato del primo turno (44 a 31 per Donato). Una vittoria della strategia del “campo largo” di Enrico Letta, com’è stato detto nelle dirette televisive notturne e sui quotidiani del giorno dopo? Sì e no. Lo stesso Letta, in una intervista su La Stampa di martedì scorso, ha ammesso con onestà che il risultato si deve soprattutto alla “solidità dei candidati”, e che il successo di due candidati civici come Fiorita a Catanzaro e Tommasi a Verona dimostra che tanto i voti conquistati tanto la semina di una nuova classe dirigente provengono da bacini più larghi di quelli di partito. Quello che Letta non aggiunge è che invece è tutta da ricondurre alle contorsioni del suo partito la bizzarra situazione che a Catanzaro ha visto scontrarsi due personalità entrambe di sinistra, Fiorita e Donato, l’uno, esterno al Pd, a capo di una coalizione di centrosinistra, l’altro, fino a poco prima internissimo al Pd, a capo di una prevalentemente di centrodestra. Com’è potuto accadere?

Passo indietro di cinque anni. In vista delle comunali del 2017, Nicola Fiorita, docente di diritto all’Unical di Cosenza all’epoca quarantottenne, si candida a sindaco mettendo in piedi il movimento civico Cambiavento, che eredita e rilancia fra l’altro quello che aveva sostenuto la giovane e brillante candidatura di Salvatore Scalzo nel 2011. Fiorita si propone già allora come frontman di tutto il centrosinistra, ma il Pd non ci sta e candida un esponente di partito, che va al ballottaggio contro Sergio Abramo (FI poi trasmigrato nella Lega) e perde. Forte di un ottimo risultato al primo turno, Fiorita non molla. Fa opposizione in consiglio comunale (ma si dimette quando viene infondatamente sfiorato da un’inchiesta giudiziaria presto archiviata), mantiene in vita Cambiavento, lavora sul radicamento territoriale senza sacrificare al professionismo politico altre passioni: il collettivo di scrittura Lou Palanca, l’impegno con Libera, la rete di Slow Food. Diventa insomma una sorta di testimonial di quello che i giovani catanzaresi non rassegnati al destino dell’emigrazione vogliono sentirsi dire: che nella loro città si può vivere senza rinunciare a essere sé stessi.

Nel frattempo, durante la quarta sindacatura di Abramo – e mentre Catanzaro assume il volto bizzarro di una sorta di megalopoli in sedicesima, con i quartieri che si snodano lungo una verticale lunghissima scollegati l’uno dall’altro, il centro storico che si spopola di abitanti e attività, il commercio che langue, l’edilizia che fa quello che vuole, il traffico che impazzisce – il centrodestra si scompone e si decompone per ragioni politiche e giudiziarie, e il solido blocco di potentati economici che da sempre lo vota rischia di ritrovarsi senza sbocco amministrativo. Tradizionalmente molto moderata, la città adesso è contendibile da sinistra, e Fiorita è pronto a riprovarci.

Stavolta il Pd non ripete l’errore del 2017 e lo sostiene, e così pure il M5S oltre a SI e al movimento di De Magistris. Ed è a questo punto che interviene a sorpresa l’autocandidatura di Valerio Donato, “aperta a tutti”. Donato non è uno qualunque. Anche lui docente di diritto all’Università Magna Graecia di Catanzaro, nonché presidente dell’omonima Fondazione e in precedenza aspirante rettore, è un intellettuale stimato, un avvocato affermato e soprattutto un uomo di solide radici nel Pci-Pds-Ds-Pd, fino a un attimo prima tutt’altro che ostile al progetto Fiorita. Ma il Pd calabrese è in fase congressuale, e le sue movenze interne sono incomprensibili ai più. Fatto sta che Donato straccia la tessera e si lancia in un’avventura trasversale in cui conta di gestire gli apporti di Fi e della Lega, mentre sarà lui a esserne usato e giocato. Tutte le consorterie del voto di scambio saltano sul carro, camuffate da liste civiche senza simboli di partito che oscurano i segmenti minoritari di centrosinistra pur presenti nella coalizione. Solo Giorgia Meloni annusa l’impresentabilità dell’operazione e impedisce alla sua esponente di spicco locale di farne parte, costringendola a correre da sola.

Gli annunci dell’esito finale stanno già nei risultati del primo turno, dove sotto l’ampio vantaggio di Donato su Fiorita si intravedono i due dati salienti che consentiranno il ribaltamento del ballottaggio. Il primo: Donato è sotto di parecchi punti rispetto alle sue liste, segno che i capibastone della destra, una volta eletti, sono pronti a mollarlo, come infatti accadrà al ballottaggio quando gli verranno meno circa 8000 voti malgrado l’appoggio, stavolta, di Fdi. Il secondo: nella coalizione di Fiorita le due liste civiche di Cambiavento doppiano con un totale del 14,50% il risultato assai modesto del Pd (5,8) e del M5S (2,7), grazie a una campagna elettorale capillare, quartiere per quartiere e caseggiato per caseggiato, che si intensificherà nelle due settimane del rush finale.

Finisce con un ribaltone superiore a qualunque aspettativa, cui solo in parte contribuisce la convergenza su Fiorita di parte della coalizione centrista di Talerico arrivata terza al primo turno, e che con ogni evidenza premia la tenacia del candidato, il radicamento di Cambiavento sul territorio, la costruzione di una squadra giovane, piena di energia e di per sé dimostrazione che il cambiamento, generazionale e politico, è possibile e anzi è già in atto. È il lavoro politico che un tempo facevano i partiti di massa, che oggi i loro eredi residuali non sanno fare, e che rispunta, a Catanzaro come a Verona come in altri esperimenti degli ultimi anni, in una generazione allevata al comandamento neoliberale del fai-da-te che alla fine ha imparato a fare da sé anche in politica. Nessun “campo largo” può più fare a meno di questi laboratori cresciuti dentro e contro la desertificazione della politica ufficiale. Sarebbe una lezione da tenere presente in vista delle prossime politiche, ben più dell’aritmetica delle sigle di partito ufficiali e dei capricci dei loro leader. E sarà una lezione da tenere ben presente nella stessa Catanzaro, dove solo tenendo in vita questo laboratorio sarà possibile amministrare vincendo le resistenze degli sconfitti, che al momento possono contare in consiglio comunale su una maggioranza di seggi in stridente contrasto con la festa allegra e liberatoria esplosa in città.

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Aborto, chi arretra e chi no

Pubblicato su internazionale.it il 25 giugno 2022

Ci vollero tre anni e una maggioranza di sette giudici a favore e due contrari per approdare, il 22 gennaio 1973, alla sentenza Roe vs Wade, che rese l’aborto praticabile in tutti gli Stati Uniti ancorando al principio della privacy sancito dal 14° emendamento della costituzione l’autodeterminazione della donna sul proprio corpo e conseguentemente la sua libertà di scegliere se portare o non portare a termine una gravidanza. Ci sono voluti cinquant’anni e una maggioranza di sei giudici a tre per cancellare quella sentenza e con essa la copertura costituzionale della possibilità di abortire, rendendola disponibile alla decisione – e dunque alla maggioranza di governo – dei singoli stati americani e sottraendola all’autodeterminazione femminile. Significa che la possibilità di abortire dipenderà dallo stato in cui si vive, o dalla possibilità, innanzitutto economica, di recarsi in un altro stato. Da un diritto costituzionalmente protetto a livello federale si passa alla normativa dei singoli stati, e all’arbitrio delle maggioranze politiche di ciascuna legislatura. 

Nel corso di questi cinquant’anni l’aborto non ha mai smesso di essere, negli Stati Uniti come in Italia e ovunque nel mondo, oggetto di una incessante guerra culturale fra sostenitori e avversari della libertà di scelta delle donne. La destra tradizionalista ha fatto per decenni dell’abbattimento del diritto di abortire la sua principale bandiera, ma è solo grazie all’arroganza con cui Trump ha ridisegnato a propria immagine e somiglianza il profilo della corte suprema, nominando tre giudici ultraconservatori, che infine è riuscita a sfondare. E già promette di estendere alla contraccezione, alle convivenze e al matrimonio omosessuale il principio “originalista” della sentenza antiabortista, ovvero un’interpretazione restrittiva della costituzione, secondo la quale quest’ultima va applicata in base all’intento e al contesto originari in cui nacque e che non prevedevano né l’aborto né altri diritti successivi. Il fatto dunque è massimamente sintomatico dello stato di anomia in cui la democrazia americana di ritrova dopo il terremoto trumpiano, come notano oggi tutti i quotidiani americani e italiani, connettendolo giustamente al più generale attacco alle istituzioni e alla più generale guerriglia civile innescati da Trump, nonché alle storture (quella del dispositivo elettorale in primis) di un sistema che sempre più palesemente favorisce la minoranza suprematista bianca, repubblicana e tradizionalista. Ma non si tratta solo di questo. 

Il fatto è che in tutto il mondo la conflittualità geopolitica e sociale sta cercando una valvola di sfogo in una stretta del controllo sul corpo, la sessualità e la libertà femminili. Più l’ordine patriarcale traballa e degenera, più si vendica tentando di ripristinare il dominio maschile sulle donne: è un elemento centrale e cruciale, non accessorio o marginale, della crisi di civiltà che stiamo attraversando. Ed è un dispositivo che si attiva, sia pure a diverse gradazioni, a tutte le latitudini e sotto tutti i regimi politici, autocratici e democratici, laici e fondamentalisti. Che la libertà delle scelte riproduttive venga messa in discussione con argomenti non dissimili da quelli del patriarca russo Kirill proprio nella democrazia che in nome dei valori democratici sta combattendo una guerra per procura contro il regime autocratico russo suona dunque come una sonora smentita dell’ultima versione dello “scontro di civiltà” che anima e legittima la propaganda occidentale sulla guerra in Ucraina tentando di innalzare un nuovo muro fra “il mondo libero” occidentale e il dispotismo orientale. Avremmo preferito che questa sonora smentita non passasse sul corpo delle donne. Ma per gli autocrati e i tradizionalisti – esterni, come Kirill e Putin, e interni alle democrazie, come Trump e i suoi alti togati – si rivelerà un boomerang. C’è una legge storica fin qui mai smentita, ed è che dopo il femminismo novecentesco, sul piano della libertà riproduttiva le donne non arretrano. Non arretreremo neanche stavolta, come già dimostrano le manifestazioni che popolano le piazze americane, e presto potrebbero dilagare altrove attraversando le vecchie e le nuove cortine di ferro innalzate dagli uomini in guerra. 

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Ucraina, la terra di confine

Pubblicato su Jacobin Italia n.15, estate 2022

Da sempre territorio di conquista conteso fra Est e Ovest, la terra dilaniata di Ucraina – dalla radice slava kraj, “confine”: un nome, un destino – si trova a essere oggi teatro di una sanguinolenta riscrittura della coppia Occidente – Oriente, sotto le insegne di una guerra guerreggiata fra due forme di regime politico cui noi occidentali diamo il nome di “democrazia” e “autocrazia”. Così, almeno, la crosta; sotto la quale il conflitto più sostanziale che si gioca è quello fra (crisi della) globalizzazione e volontà di potenza nazionaliste e imperiali, con molte carte coperte che riguardano la produzione e la circolazione delle risorse primarie e delle merci. Ma stiamo alla crosta, cioè alla rappresentazione, che non è mai pura propaganda né pura ideologia bensì messa in scena performativa, carica di effetti politici e culturali realissimi.
Su quel teatro dunque si confrontano da novanta giorni tre narrative della guerra, quella russa, quella occidentale, quella ucraina, specchio e copertura di problemi preesistenti e preludio e incubazione di nuovi. In tutte e tre agisce un intreccio fra presenza fantasmatica del passato remoto e rimozione del passato recente, che facilita il differimento all’infinito della posta in gioco principale di questa guerra, che non è il Donbass bensì la ridefinizione dell’ordine mondiale nato dalla fine della Guerra fredda.

Soprattutto nella narrativa russa la mobilitazione dell’immaginario del passato è decisiva per la mobilitazione bellica del presente. Fin dal discorso con cui il 23 febbraio scorso annunciò la sua “operazione militare speciale”, Putin ha usato esplicitamente la storia per sollecitare l’orgoglio nazionale, inscrivendo la “denazificazione” dell’Ucraina nella scia della “guerra patriottica” russa contro il nazifascismo e inserendo il proprio disegno politico e geopolitico nella long durée dell’impero russo, di una Unione sovietica “depurata” dal leninismo e di una ritrovata alleanza con la chiesa ortodossa e i suoi valori tradizionalisti. In questa prospettiva, “l’Occidente” – termine che nella lingua di Putin è sinonimo di Stati uniti, o dell’egemonia statunitense sull’intero campo transatlantico – è imputato non soltanto dell’allargamento a est della Nato perseguito dagli anni novanta in poi, ma più radicalmente di aver imposto dopo l’89 un ordine mondiale unipolare, basato su valori individualistici e decadenti. Si tratta di una prospettiva del tutto coerente con la diagnosi putiniana – peraltro non priva di ragioni – del crollo dell’Urss come “catastrofe geopolitica epocale”, ma del tutto priva di autocritica sulle dinamiche interne alla Russia che le hanno fatto perdere la scommessa di una modernizzazione sostenibile e di un’evoluzione positiva del sistema politico. Né la plutocrazia oligarchica, né la resa a un capitalismo globale predatorio, né il rigurgito dei nazionalismi, né l’impianto illiberale e dispotico della cosiddetta “democrazia sovrana” putiniana entrano mai nel conto della perdita di potenza e attrattività del modello russo subentrato alla “catastrofe geopolitica” del ’91; le responsabilità vengono proiettate solo sul nemico occidentale, con le note conseguenze vittimiste e revanchiste. Si dirà che un sistema autocratico come quello di Putin non può legittimarsi in altro modo che glorificandosi ed espungendo da sé ogni autocritica; ma come vedremo subito questo non è un vizio esclusivo degli autocrati.

Ne soffre parimenti infatti la narrativa con cui l’Occidente a guida americana sta legittimando la sua proxy war contro la Russia per interposta Ucraina. Qui il riflesso della storia lunga entra solo di soppiatto, con la voglia, per usare un’espressione di Limes, di “farla finita con l’Orso una volta per tutte”. A essere mobilitato è piuttosto l’immaginario del nemico così come è stato riformulato negli anni Novanta dai neocon, mediante la costruzione di fronti che di volta in volta configurano lo “scontro di civiltà” in cui l’Occidente deve ingaggiarsi sotto la bandiera della difesa – armata – della democrazia. Conclusosi ingloriosamente la scorsa estate, con il ritiro da Kabul, il ventennio dominato dal paradigma dello scontro fra l’Occidente e l’Islam che dopo l’11 settembre aveva legittimato le war on terror, l’establishment non più neocon bensì liberal americano l’ha sostituito con quello dello scontro fra l’Occidente democratico e l’Oriente autocratico: uno schema che ben si adatta a rinverdire il conflitto con il vecchio e mai dimenticato nemico della guerra fredda, ma anche a preparare quello con il nuovo e più decisivo nemico cinese, nonché a regolare i conti con l’autocrate interno ancora in agguato che risponde al nome di Donald Trump.
Per capire come questa narrativa sia stata tenacemente allestita basta ripercorrere la sequenza puntuale degli articoli con cui Anne Applebaum – firma di The Atlantic, studiosa accreditata dell’area post-sovietica e oggi front-woman della proxy war sui media americani e italiani – ha anticipato ogni mossa dell’intervento “da remoto” degli Usa in Ucraina, compreso il salto dal sostegno alla resistenza difensiva del paese aggredito all’obiettivo della sua vittoria sull’aggressore. L’analisi di Applebaum poggia senz’altro su dati di realtà incontrovertibili, come l’impianto autoritario del regime putiniano, nonché su ipotesi plausibili, come quella di un disegno economico e politico che unirebbe gli “autocrati” di tutto il mondo in un fronte competitivo contro la globalizzazione a guida occidentale, e infine sulla presa d’atto che l’ordine mondiale basato sul diritto internazionale del secondo dopoguerra non funziona più. Ma soffre di quattro sorprendenti omissioni, che anche qui riguardano il trentennio post-‘89. La prima: se il diritto internazionale non funziona più è anche perché gli Stati uniti e la Nato sono stati i primi a demolirlo, ad esempio con la guerra “umanitaria” nella ex Jugoslavia e con l’invasione dell’Iraq, due precedenti che oggi forniscono un formidabile alibi all’avventura scellerata di Putin in Ucraina. La seconda: la sostituzione della base giuridica dell’ordine mondiale con una base morale che divide il mondo in buoni e cattivi non fa ordine geopolitico: al contrario, ha fin qui aumentato il disordine ovunque sia stata applicata. La terza: la democrazia è certamente il migliore, o il meno cattivo, dei regimi politici fin qui sperimentati dall’umanità, il che non basta tuttavia a trasformarla né in una religione armata né in una teleologia: come dimostrano i precedenti afghano, iracheno, libico, siriano non c’è alcuna garanzia che la sconfitta ieri dei dittatori e dei fondamentalisti, oggi degli autocrati evolva naturaliter nella fioritura di democrazie sane e vigorose. La quarta infine: le derive autocratiche non sono purtroppo appannaggio esclusivo di società orientali storicamente conformate al dispotismo (così come vent’anni fa le derive fondamentaliste non erano appannaggio esclusivo del mondo islamico): purtroppo per noi si affacciano dall’interno della crisi delle democrazie, o per meglio dire dai processi di de-democratizzazione innescati ovunque dal trionfo del paradigma neoliberale, come gli Stati uniti dovrebbero sapere dall’avventura perturbante di Trump e come l’Unione europea dovrebbe sapere dalle spinte nazionaliste e autoritarie cresciute al suo interno negli ultimi decenni.

Forse infatti lo sanno, ed è per questo che attribuiscono alla terza narrativa della guerra, quella ucraina, il valore di una sorta di cura ricostituente dell’immagine appannata della democrazia occidentale. Veniamo dunque alla prestazione politica e ideale di Zelensky, adeguatamente coreografata, dicono i bene informati, dagli story-liner hollywoodiani oltre che da quelli ucraini già sperimentati nella trasformazione del leader da attore a presidente. Qui torna l’intreccio fra uso del passato remoto e rimozione del passato recente: la memoria della Seconda guerra mondiale viene scagliata contro Putin, novello Hitler da fermare con qualunque mezzo prima che proceda a invadere il resto dell’Europa, mentre si tace delle complicità con il nazismo di cui pure la storia ucraina degli anni Trenta reca traccia. E si sorvola su tutte le tappe, dalla deriva di destra di Euromaidan alla guerra civile nel Donbass all’integrazione nelle strutture statali di ingombranti retaggi nazistoidi, che hanno reso a dir poco accidentata e controversa la strada della democratizzazione intrapresa dall’Ucraina. Ma in verità ciò che in questa narrativa conta davvero non è il passato bensì il futuro. Giovane come il suo leader, la democrazia ucraina sta lì a dimostrare che qualunque ferita può essere lenita dal desiderio di Europa e di occidente, che le offese si riscattano con l’eroismo sacrificale patriottico, che uno scacco può essere trasformato in un’opportunità, il coraggio della disperazione in un brand, l’assedio di un invasore brutale in capacità di comunicare con il mondo. La teleologia democratica è salva?
Andrebbe notato non parenteticamente che la narrativa ucraina rappresenta anche una soluzione neo-patriarcale alquanto sintomatica per chi, come la sottoscritta, vede oggi nel declino della legge del padre un tratto decisivo del disordine mondiale e di una conflittualità sociale trasversale a regimi politici diversi fra loro. Fra il recupero improbabile di un patriarcato arcaico promosso da Putin in combutta con Kirill e il post-patriarcato occidentale punteggiato di regressioni quali le manovre antiaborto che avvicinano gli Stati uniti alla Polonia, la comunicazione di guerra di Zelensky e del suo governo opta per un neo-patriarcato nazionalista basato sul recupero di valori virilisti e patriottici ottocenteschi, che divide le donne cooptando quelle disposte a indossare la tuta mimetica dell’eroismo maschile (tipica la vicepremier Irina Vereščuk) e lasciando le altre a incarnare il ruolo delle vittime designate, madri di figli perduti in combattimento, profughe destinate al mercato del lavoro precario europeo, anziane abbandonate fra le rovine delle loro case. Con i danni materiali e simbolici di questa operazione, in uno scenario in cui gli uomini si riprendono lo scettro della volontà di potenza dopo una pandemia che l’aveva messo a dura prova, bisognerà fare i conti adeguatamente, anche in relazione ai destini della democrazia.

Ma per chiudere il ragionamento abbozzato finora, qui mi preme infine sottolineare come la narrativa di Zelensky abbia sapientemente fatto leva, più che sulla solidarietà, sull’identificazione dell’Europa con la causa ucraina, sollecitandola con lo spettro dell’avanzata russa su tutto il continente, con l’assimilazione della resistenza ucraina a quella antifascista italiana, con l’aderenza dei discorsi di Zelensky ai diversi contesti nazionali a cui erano rivolti. E l’Europa ha accolto questa sollecitazione, identificando a sua volta la causa ucraina con la causa della democrazia europea tout court. E abbracciando a sua volta quella teleologia che idealizzando la democrazia perde di vista le deformazioni e i guasti che connotano oggi le democrazie reali, Ucraina in primis, e ne sfumano le distinzioni dai regimi autoritari che vorrebbero combattere frontalmente.
Anche l’Europa, e perfino più degli Stati uniti, si e ci racconta questa guerra rimuovendo le proprie responsabilità che nell’ultimo trentennio hanno contribuito a prepararla. Prima fra tutte un allargamento a Est dell’Unione volto più ad annettere al mercato i paesi dell’ex blocco sovietico che a seguirne e sorvegliarne i percorsi di democratizzazione. E dunque colpevolmente distratto rispetto alle derive identitarie, nazionaliste, sovraniste, misogine, suprematiste cresciute in quei paesi nonché, come la stessa Italia dimostra, in quelli dell’Europa occidentale. In Europa come negli Stati uniti, i processi di de-democratizzazione sono andati di pari passo con la difesa armata della democrazia e diventano galoppanti nelle fasi di guerra guerreggiata, come dimostra l’indecente militarizzazione del dibattito pubblico italiano in queste settimane. Sono questi i dati di realtà che dovrebbero fare da bussola di un agire politico sensato. Contrastare un’autocrazia aggressiva come quella russa in nome della democrazia è giusto, a patto di capire che lo scontro fra regimi politici idealmente contrapposti è in realtà meno frontale di quanto sembri, e che farne una crociata morale armata non porta ordine ma disordine mondiale. Solidarizzare con l’Ucraina aggredita è doveroso, ma identificare nell’Ucraina la nuova frontiera della democrazia europea può comportare costi altissimi per gli equilibri politici e la qualità democratica dell’Unione tutta.

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L’escalation delle parole

Pubblicato il 5 maggio 2022 su centrostudiriformastato.it

Ho vissuto e commentato tutte le guerre che hanno punteggiato il disordine mondiale post-89 da una posizione di minoranza, e spesso di minoranza nella minoranza. Nel 1990 ero contro la Guerra del Golfo, voluta dagli Usa e autorizzata dall’Onu contro Saddam Hussein che si era annesso il Kuwait: l’annessione di Saddam era illegittima, ma la rilegittimazione della guerra come strumento di risoluzione di una controversia internazionale avrebbe aperto una nuova epoca belligerante dopo la pace armata della Guerra fredda, come infatti è puntualmente avvenuto. Nel 1998 ero contro “l’intervento umanitario” in Kosovo (così venne chiamata allora la guerra della Nato nella ex Jugoslavia, con una mistificazione linguistico-politica analoga a quella della “operazione speciale” di Putin in Ucraina): le ragioni dei kosovari andavano certamente sostenute, ma le bombe sopra Belgrado mi parevano il modo peggiore di farlo e le conseguenze le stiamo pagando ancora adesso, Putin essendosela, come si dice, legata al dito. Nel 2001 il mio cuore e la mia testa stavano interamente dalla parte dei newyorkesi colpiti dall’attentato alle Torri gemelle (ragion per cui, lo dico a chi oggi mi dà della putinista, all’epoca nella sinistra radicale ero bollata come filoamericana), ma la revanche bellicista decisa da George W.Bush e dai neocon mi pareva la meno adatta a contrastare una minaccia virale come il terrorismo suicida; lo scorso agosto, dopo 20 lunghi anni, abbiamo visto com’è andata a finire. A maggior ragione nel 2003 ero contro la guerra in Iraq, giustificata dagli Usa sulla base della madre di tutte le fake news, il supposto possesso di armi chimiche da parte di Saddam; anche in quel caso, era facile profezia che da quella guerra sarebbe derivato solo un incremento del disordine mondiale, segnatamente nel Medio Oriente, con costi altissimi segnatamente per l’Europa.

Mi fermo qui, tralasciando la Siria, la Libia e altre avventure militari. Aggiungo però due cose. La prima: in ciascuna di queste circostanze la mia postura spontanea è stata più quella della critica interna al fronte occidentale a cui appartengo che quella della condanna reiterata del nemico di turno. Condannare i dittatori o i fondamentalisti o gli autocrati per chi vive in democrazia è ovvio. Meno ovvio è vigilare ogni volta perché nelle guerre fatte in nome dei valori occidentali e della democrazia non siano proprio i valori occidentali, la democrazia e lo Stato di diritto a rimetterci le penne, come spesso invece accade e sta accadendo anche oggi: il problema delle guerre non è solo vincerle, è vincerle senza perdersi. Seconda cosa: in ciascuna di queste circostanze la prospettiva femminista mi ha messo spesso in attrito con lo stesso fronte pacifista, cui non ho risparmiato critiche per il suo linguaggio talvolta altrettanto fallico di quello interventista, per le assonanze patriarcali e misogine riscontrabili nell’uno come nell’altro, per la condivisione da parte di entrambi di una ferrea logica amico-nemico che non è la mia.

L’arruolamento delle opinioni

In ciascuna di queste circostanze, l’entrata in guerra, più o meno diretta, ha comportato l’immediata militarizzazione e polarizzazione del dibattito pubblico: o con me o contro di me, o con la democrazia o con il dittatore di turno, o con l’Occidente laico e pluralista o con i fondamentalisti. Ma mai come in questi due mesi di guerra in Ucraina l’arruolamento delle opinioni conformi e la scomunica di quelle difformi ha travalicato il limite della decenza, con una regressione galoppante rispetto a venti anni fa. Venti anni fa – lo testimonia il mio 2001. Un archivio, il libro in cui ho raccolto il mio lavoro sull’11 settembre e le war on terror – era legittimo, anzi dovuto, interrogarsi sugli errori della politica americana in Medio Oriente durante e dopo la Guerra fredda che spiegavano, senza giustificarla, l’insorgenza del terrorismo internazionale. Era legittimo, anzi dovuto, distinguere fra la Jihad e l’insieme del mondo islamico, così come fra la politica della Casa Bianca e del Pentagono e gli umori compositi della società americana, o fra i governi e le opinioni pubbliche europee. Era consentito indagare le segrete simmetrie fra i toni messianici della crociata contro l’Occidente in nome di Allah dei fondamentalisti islamici e quella in nome della democrazia dell’Occidente contro l’Islam. Era possibile contrastare la propaganda di guerra occidentale sulla guerra in Afghanistan come “guerra di liberazione delle donne dal burqa” spiegando che le donne non si liberano con la guerra fra maschi e che il patriarcato, a differenti gradi di oppressione femminile, è una struttura socio-simbolica planetaria dalla quale l’Occidente non è affatto immune. E da pacifisti si poteva, anzi si doveva, professarsi contro il terrorismo islamico e contro la risposta revanchista americana senza per questo essere tacciati di equidistanza.

Niente di paragonabile è possibile dire oggi in Italia. Da quando Putin ha invaso l’Ucraina la prospettiva pacifista è messa al bando, ogni giorno c’è una lista di proscrizione con i nomi e i cognomi dei non allineati. Appena cerchi di ragionare sulle origini vicine e lontane della guerra stai giustificando Putin, se non premetti a ogni riga che scrivi che c’è un aggressore e un aggredito sei una collaborazionista, se osi criticare Zelensky sei indifferente alle sofferenze degli ucraini, se dici che la resistenza ucraina è diversa da quella italiana il giorno dopo qualcuno chiede lo scioglimento dell’Anpi, se azzardi che le guerre difficilmente scoppiano fra buoni e cattivi ma più spesso fra cattivi e cattivissimi sei equidistante, se contesti l’escalation del conflitto perseguita allegramente da Putin, da Zelensky e dall’Occidente sei antiamericana e via così, e se fai notare che questo andazzo è segno evidente di un pessimo stato della nostra democrazia sei o una nostalgica dell’Urss o un’amante clandestina degli autocrati. Confesso che per settimane mi sono volutamente sottratta a questo tintinnare di sciabole testosteronico e isterico che lascio volentieri a chi ne gode. Più utile mi pare domandarsi a quali derive psicologiche, politiche e cognitive sia dovuto un tale incarognimento del dibattito pubblico e un tale imbarbarimento dell’arena mediatica.

La scia della pandemia

Tanto per cominciare dai fattori psicologici, la sequenza pandemia-guerra, solitamente evocata per ipotizzare una demenziale sovrapposizione fra no-vax e pacifisti, va considerata piuttosto per la scia di aggressività che la pandemia ha lasciato dietro di sé. Ferita a morte nella sua smania di onnipotenza da un microrganismo sconosciuto capace di hackerare il capitalismo globale, la politica dei grandi della terra si arma e satura con nuove morti la mancata elaborazione del lutto per le vittime della pandemia. Una guerra reale prende il posto della guerra metaforica al virus e il primato della distruttività torna saldamente nelle mani della specie umana; e forse sta qui la radice inconfessabile di tanto godimento per una retorica dell’escalation inconcepibile solo pochi anni fa. Su questa base di godimento inconscio c’è ampio spazio tanto per l’evocazione continua di un futuro apocalittico quanto per la convocazione ossessiva dei fantasmi del passato: col risultato che non si sa più se siamo nella prima, nella seconda o nella terza guerra mondiale, ed è più facile liquidare un interlocutore scomodo dandogli del nostalgico dello stalinismo che confrontarsi sui problemi effettivi del presente.

Nazionalismo e indignazione

Fra i quali spicca, a dispetto dei muri innalzati fra “noi” e gli “autocrati”, l’ideologia nazionalista che dal campo sovranista tracima in varie gradazioni fin dentro il campo democratico. È allo scontro fra due nazionalismi che stiamo assistendo nel teatro ucraino: da una parte il nazionalismo etnico di Putin, basato sulla comunità di destino della stirpe russa e sul tradizionalismo neoconservatore dei Dugin e dei Kirill, dall’altro il nazionalismo dei confini, patriottico ed eroico, di Zelensky. Ma nascono dalla stessa matrice nazionalista il richiamo perentorio alla compattezza e il tracciamento del nemico interno che impazzano sulla stampa italiana mainstream, dove fin dal primo giorno di guerra la preoccupazione principale è stata quella di individuare e stigmatizzare “il fronte interno” dei non allineati, e dove ogni giorno sventola la bandiera di una democrazia senza pluralismo e senza opposizione. A riprova che come in tutte le guerre gli indicatori più precisi delle poste in gioco vengono più da quello che segretamente accomuna che da quello che esplicitamente divide i campi contrapposti.

Si aggiunge a questo, l’ha notato un Habermas non casualmente passato sotto silenzio nel dibattito italiano, il dilagare dopo l’89 di una concezione etica della politica che sostituisce con l’indignazione la capacità di mediazione, sì che quello che importa è ribadire la condanna del nemico più che cercare una soluzione pacifica che renda possibile conviverci. Che è precisamente il dispositivo retorico con cui qualunque tentativo di ragionare sulle cause, le conseguenze e le soluzioni di questa guerra viene azzittito con la perentoria richiesta di ribadire fino all’estenuazione che c’è un aggressore e un aggredito, che l’aggressore è un criminale, che il problema è come annientarlo o dargli l’ergastolo e che chi ragiona altrimenti se ne fa complice.

La realtà fatta immagine

Infine ma non ultimo, ogni guerra è figlia del regime di verità e dell’ambiente cognitivo della sua epoca. Trent’anni fa, Jean Baudrillard commentava la Guerra del Golfo sostenendo che paradossalmente era come se non fosse mai avvenuta: entravamo nell’era digitale, e le immagini algide e smaterializzate dell’operazione Desert Storm, con le sue bombe “intelligenti” che illuminavano le notti del deserto iracheno inquadrate dalle telecamere fisse, suggerivano che la guerra potesse emanciparsi dalla materialità cruda dei corpi feriti, amputati, massacrati. La guerra c’era e non c’era, come i fantasmi: la sua spettralizzazione serviva a renderla accettabile in un Occidente che la stava rilegittimando come continuazione della politica con altri mezzi, e pazienza se le bombe intelligenti distruggevano persone e cose come quelle stupide: l’Iraq era lontano, le responsabilità dell’aggressore occidentale sfumavano in quella lontananza, i civili che ci rimettevano la pelle erano, in quella come nelle guerre d’inizio secolo, casualties, errori, effetti collaterali indesiderati. Oggi tutto funziona al contrario. L’Ucraina è vicina, il teatro della guerra è dentro l’Occidente, l’aggressore è dietro l’angolo e fino all’altro ieri ci facevamo affari ma viene orientalizzato assecondando l’immaginario russofobico della Guerra fredda, i civili ammazzati non sono più casualties, ma effetto di una volontà crudele, le telecamere digitali sono in mano a chiunque e tutto, ma proprio tutto, dev’essere visibile, dalle unghie laccate delle donne ammazzate a Bucha agli avanzi di cibo nelle cucine delle case bombardate di Mariupol: la pornografia dell’orrore, che nelle guerre del dopo 11 settembre attribuivamo ai video degli jihadisti sugli ostaggi sgozzati, adesso la maneggiamo noi. E la verità è affidata tutto e solo all’evidenza e all’immediatezza dell’immagine: quello che si vede è vero, quello che non si vede non esiste.

Questo regime della visibilità totale è indubitabilmente democratico, tanto più se confrontato al regime totalitario della menzogna sistematica e della negazione dell’evidenza in cui si barcamenano le tv di stato russe e la propaganda del Cremlino. Ma ha anch’esso i suoi effetti collaterali tutt’altro che trascurabili. Nel flusso ininterrotto del fermo-immagine sparisce il peso di quello che non si vede, il deposito della storia, l’analisi dei precedenti e degli effetti: chi va a ricercarli diventa non solo un dietrologo e un giustificazionista dell’aggressore, ma anche un negazionista della realtà, perché la realtà è solo quella certificata dalle immagini. L’informazione si adegua e si scinde: sul campo diventa racconto e testimonianza soggettiva affidata alla presa diretta emozionale, l’interpretazione è affidata solo in minima parte a competenze credibili, per il resto essendo appannaggio di una rosa di opinionisti convocati su qualsivoglia questione, dal Covid alla geopolitica, che saltellano dai giornali ai talk show senza soluzione di continuità, legittimati da un potere della firma che andrebbe usato con discrezione e viene invece brandito come una clava al servizio di un establishment ideologico e politico presidiato dalla concentrazione della proprietà delle testate. La “verità” di questa guerra è anche il precipitato di decenni di precarizzazione e gerarchizzazione della professione giornalistica. In cui i non garantiti vanno al fronte e i garantiti compilano pagelle di lealtà patriottica e liste di proscrizione.

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I tasti di Zelensky e quelli di Draghi

Pubblicato il 22 marzo 2022 su centrostudiriformastato.it

Molto più prudente di quanto si potesse immaginare, molto più tirato in volto di quanto si mostrasse all’inizio dell’invasione, probabilmente avvertito dal colloquio telefonico con papa Francesco da lui stesso citato non per caso all’inizio del suo discorso, Volodymyr Zelensky si è presentato al Parlamento italiano con un profilo diverso da quello esibito nei giorni scorsi davanti a quelli di Londra, Washington, Berlino, Gerusalemme. Se lì aveva chiesto a gran voce la no fly zone, qui non l’ha fatto, forse finalmente persuaso dell’irricevibilità di una richiesta che per quanto comprensibile sarebbe foriera di conseguenze catastrofiche per la specie umana. Se lì aveva sollecitato il paragone fra la guerra di oggi e il crollo del Muro di Berlino e l’identificazione della causa ucraina con quella delle vittime dell’11 settembre e della Shoah, qui non ha approfittato, come tutti ci saremmo aspettati, dell’identificazione opinabile fra la resistenza ucraina e la resistenza partigiana italiana avallata dal mainstream politico e mediatico nostrano.

Si direbbe che qualcuno l’abbia avvertito del tasto particolarmente sensibile e controverso che avrebbe toccato se l’avesse fatto; o forse che il presidente ucraino abbia preferito spingere piuttosto su quello, assai meno rischioso e più produttivo a fini diplomatici, della prossimità fra Roma e il Vaticano. Come che sia andata, Zelensky ha mantenuto il suo discorso sul piano che nessuno può negargli della condanna dell’invasione e del sostegno umanitario, limitandosi a un paragone fra Mariupol di oggi e Genova della Seconda guerra mondiale per rendere l’entità del disastro ed evitando i toni spericolati di chiamata alle armi della Ue e della Nato che aveva avuto in precedenza. Di questo suo passaggio al Parlamento italiano c’è dunque da essere ben lieti, tanto più se dovesse significare, come probabilmente significa, una maggiore disponibilità al negoziato in vista del prossimo round.

Meno prudente, e come sempre meno empatico, il Presidente del consiglio italiano, che ha ribadito l’impegno a sostenere con l’invio di “aiuti anche militari”, cioè di armi, la resistenza ucraina, attribuendole l’onore e l’onere di presidiare “la nostra pace, la nostra libertà, la nostra sicurezza”, nonché “quell’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti faticosamente costruito dal dopoguerra in poi”. Un onore e un onere sul quale ci sarebbe molto da discutere, a partire dal fatto che lo sfregio del suddetto ordine data da ben prima della sua violazione sciagurata da parte di Putin in Ucraina. Ma si sa che di questo Draghi invece non vuol discutere, allineato com’è alla narrativa occidentalista del dissesto del mondo globale.

Restano tuttavia da rimarcare due punti sensibili, uno conscio l’altro inconscio, del discorso di Zelensky. Il primo sta nel suo passaggio iniziale, “il nostro popolo è diventato il nostro esercito”, che contiene in sé tutte le ragioni della controversia sulla resistenza ucraina: perché al di là della solidarietà e dell’ammirazione sentite e dovute, un popolo che si trasforma in un esercito non è una buona premessa per le sorti di una giovane democrazia. E checché ne pensi il mainstream nostrano, resta tutto da pensare il confine che distingue la resistenza contro l’invasore esterno di un popolo in sintonia con il proprio esercito e il proprio governo, quale sembra essere quella ucraina, e la resistenza di un popolo diviso fra lealtà e rivolta verso un regime dittatoriale interno prima che verso l’invasore esterno, quale fu quella italiana; ed è il confine che distingue una mobilitazione nazionalista da una mobilitazione partigiana, con le conseguenze che ne derivano per la costruzione del pluralismo democratico.

L’altro punto, inconscio, sta nel paragone fra Mariupol e Genova, ispirato dalla memoria dei bombardamenti da terra e dal mare subiti dal capoluogo ligure durante la Seconda guerra mondiale. Nella nostra memoria però Genova non è solo questo. È anche la città del G8 del 2001, teatro della prova generale di quella gestione bellica e securitaria dell’ordine globale che sarebbe prevalsa di lì a poco, dopo l’11 settembre. Da allora, per “l’ordine multilaterale basato sulle regole e sui diritti” invocato da Draghi è cominciata una lunga sequenza di strappi e lacerazioni, tutt’altro che priva di conseguenze per la catastrofe cui assistiamo oggi.

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Il nuovo scontro di civiltà

Pubblicato il 4 marzo 2022 su centrostudiriformastato.it

All’alba del nono giorno di guerra l’attacco delle truppe russe alla centrale nucleare Zaporizhzhia rende meglio di qualunque altro dettaglio quale sia la posta della partita globale, biopolitica prima che geopolitica, che si sta giocando in Ucraina. E il peggio deve ancora venire, ha comunicato Macron cui Putin ha fatto presente che non intende fermarsi finché non avrà conquistato l’intero paese. Le regioni russe dell’est e del sud con gli accessi al mare sono ormai in mano ai russi, a Mariupol mezzo milione di abitanti sono intrappolati senza acqua e senza cibo, a nord-ovest Leopoli è piena di profughi in fuga, più donne e bambini che uomini perché gli uomini restano a combattere una battaglia di resistenza già persa. L’esile negoziato in corso a Brest ha deciso l’apertura di corridoi umanitari per favorire l’esodo dei civili, mentre la colonna di 60 kilometri di carri russi continua la sua lenta ma inesorabile avanzata su Kiev lungo il corso del Dnepr che in futuro potrebbe dividere l’Ucraina fra un est russo e un ovest occidentale, com’era un tempo la Germania: le stesse cose ritornano sempre, nella storia, come il rimosso nell’inconscio. Dev’essere per questo che tutti definiscono questa in Ucraina “la prima guerra nel cuore dell’Europa dopo più di settant’anni”, dimenticando clamorosamente che in Europa la guerra era già tornata negli anni Novanta, in quella ex Jugoslavia che ha anticipato e prefigurato tutte le guerre successive a base etnico-nazionalista sparse per il mondo. Forse che la Jugoslavia non era il cuore ma la periferia dell’Europa? O non sarà piuttosto che nell’immaginario europeo, il cuore dell’Europa resta sempre lì, al confine fra l’ex impero sovietico e l’Occidente democratico? Lì, dove secondo gli stessi che nell’89 decretavano “la fine della storia” oggi la storia riprenderebbe in grande, quasi che in mezzo non ci fosse stato niente. Lì, dove si sono convocati tutti i fantasmi che fino a ieri l’altro vagavano per l’est e per l’ovest, e che ora muovono questa terribile resa dei conti di un trentennio cominciato male e finito peggio. Che è la vera posta in gioco, reale e simbolica, della tragedia che si sta consumando.

Hanno suscitato indignazione e scandalo i due discorsi del 21 e del 24 febbraio con cui Putin ha annunciato prima il riconoscimento ufficiale delle repubbliche separatiste del Donbass e poi la sua “operazione militare speciale”, come l’ha chiamata lui, in Ucraina. Ne consiglierei tuttavia la lettura integrale (il testo è facilmente reperibile in rete), ammesso che sia ancora lecito cercare di capire perché accade quello che accade senza essere tacciati di connivenza con il nemico. Liquidati dai più come una litania del risentimento, o come il delirio paranoico da sindrome di accerchiamento di un uomo solo al comando provato dalla fobia del Covid, i due discorsi inanellano alcuni dati di fatto incontrovertibili sull’estensione a est della Nato, sulle guerre di aggressione perpetrate dall’Occidente dagli anni novanta in poi (Kosovo, Iraq, Siria, Libia), e, più in generale, sullo “stato di euforia da superiorità assoluta, una sorta di assolutismo di tipo moderno, per di più sullo sfondo di un basso livello di cultura generale” che si è impossessato del campo dei vincitori della Guerra fredda. Ma al di là di questo merito, nonché della ricostruzione delle cause di lungo periodo della rinascita dei nazionalismi, a Est dopo la fine dell’Urss, ciò che colpisce nelle parole di Putin è la rivendicazione della dimensione storica come sfondo ineludibile del discorso politico. Precisamente lo sfondo che manca al discorso politico occidentale, che di spessore storico sarebbe supposto essere il più dotato. E che invece risponde all’aggressione di Putin usando – mirabile sintesi di un cinquantennio di ideologia neoliberale – solo il linguaggio dell’economia e della sicurezza: sanzioni e riarmo, nell’oblio – perfino teorizzato, come nel discorso alle camere di Mario Draghi – del passato che ha costruito, mattone dopo mattone, il presente.

Sia chiaro: lo sfondo e l’uso della storia non giustificano in alcun modo la mossa di Putin. L’invasione di uno Stato sovrano e confinante viola le basi del diritto internazionale, resuscita, a proposito di storia lunga, tutti i mostri del passato europeo, e si configura per di più, nelle stesse motivazioni che Putin ne dà, come una sorta di preemptive war, una guerra preventiva contro il pericolo eventuale di un’aggressione alla Russia da parte della Nato (i nemici assoluti sono spesso segretamente gemelli, e Putin evidentemente ha imparato qualcosa da George W. Bush). Nessuna ragione di lungo periodo esenta di un grammo di responsabilità la decisione con cui il presidente russo ha portato il mondo sull’orlo del precipizio. Ma pare assai improbabile che dal precipizio le democrazie occidentali possano uscire senza aprire al proprio interno tre linee di ripensamento autocritico di un passato prossimo che invece tendono solo a rimuovere o a riconfermare.

La prima linea riguarda l’atroce sequenza di guerre con cui l’Occidente ha insanguinato l’epoca di pace che aveva annunciato alla fine della Guerra fredda, e che rischiano di costituire i precedenti formali, non solo le concause politiche, dello scenario che si va prefigurando in Europa. Dovrebbe balzare agli occhi l’analogia agghiacciante fra le motivazioni addotte da Putin a sostegno della minoranza russa in Ucraina e quelle che mossero il cosiddetto intervento umanitario della Nato a sostegno della minoranza kosovara in Serbia, con relativo bombardamento di Belgrado: e invece non un cenno se ne sente in specie nel Pd, erede del partito che fu il principale regista italiano di quella guerra, oggi abitato da una classe dirigente che sembra del tutto ignara della drammaticità di quella stagione e del tutto conforme alla narrativa trionfale del dopo-’89. Dovrebbe risuonare come un monito sullo stato delle democrazie occidentali la madre di tutte le fake news e di tutte le post-truth politics, ovvero la gigantesca menzogna sulle presunte armi di distruzione di massa possedute da Saddam Hussein che giustificò la “guerra preventiva” in Iraq. Soprattutto, dovrebbe portare un grammo di senno, questo sì preventivo, sullo scenario europeo prossimo venturo la scia di guerre civili, regimi instabili ed esodi migratori biblici lasciata dietro di sé dall’intera sequenza delle guerre post-89, tutte caratterizzate dall’intreccio micidiale di rivendicazioni nazional-sovraniste e rivendicazioni etnico-regionali che si ripropone oggi in Ucraina e rischia di riproporsi in un teatro europeo più vasto di quello ucraino. E invece è proprio nella ripetizione nevrotica di quella dinamica che ci stiamo infilando, con il corredo sinistro di un soccorso armato alla resistenza ucraina fatto di contractors, appalti, privatizzazione dell’uso della forza – un film, anche questo, già visto in Iraq e in Siria, con le conseguenze che sappiamo.

La seconda linea di riflessione autocritica riguarda lo stato delle democrazie occidentali e quello connesso della costruzione europea. Oggi siamo tutti dalla parte dell’Ucraina, vittima di un’aggressione inammissibile, e da questa parte bisogna restare finché i carri armati russi resteranno in campo. Ma nella retorica monotonale occidentale l’Ucraina è diventata in pochi attimi la trincea della difesa della democrazia tout court, anzi, per dirla con le parole di Joe Biden nel suo discorso sullo stato dell’Unione, la trincea del conflitto fondamentale del nostro tempo, che sarebbe quello fra democrazia e autocrazia. Le élite democratiche americane sono impegnate da tempo a costruire questo frame narrativo, opposto e speculare all’attacco alla liberaldemocrazia occidentale portato avanti dalla concezione putiniana della cosiddetta “democrazia sovrana”. E se nella politica interna americana questo frame è servito a sconfiggere Trump, in politica estera è destinato a prendere il posto di quello sullo “scontro di civiltà” fra Occidente e Islam che ha tenuto banco per tutto il ventennio della war on terror successivo all’11 settembre. Ma dopo Trump, gli americani non possono non sapere che la linea di confine fra democrazie e autocrazie è diventata molto esile, e può essere scavalcata dagli autocrati che crescono all’interno delle democrazie occidentali, non soltanto al di fuori di esse. E noi europei non possiamo non sapere che le tentazioni autocratiche e sovran-populiste sono cresciute, soprattutto ma non solo nei paesi ex-sovietici dell’est, parallelamente ai processi di crisi e de-democratizzazione dei paesi dell’ovest, e sovente per reazione alla delusione di un allargamento a est dell’Unione rivelatosi più un’annessione alla religione del mercato che un’integrazione del mosaico di culture e tradizioni del vecchio continente. Anche da questa parte dell’oceano, il pericolo autocratico non viene solo dall’esterno, e la democrazia non può essere impugnata come una bandiera senza macchia e senza peccato.

Questo nodo lega il trentennio che abbiamo alle spalle al presente e al futuro dell’Unione europea e della sua collocazione nello scacchiere globale. Il rilancio dell’atlantismo da parte di Joe Biden appariva molto ambivalente già all’indomani della sua elezione: mentre riavvicinava le due sponde dell’Atlantico che Trump aveva allontanato, innalzava un nuovo muro fra l’Europa e le autocrazie orientali, chiamando la Ue a posizionarsi nettamente contro di esse. Già allora le voci più consapevoli spinsero infatti per un’Unione atlantista ma aperta verso Est e capace di porsi come ponte fra gli Stati uniti, la Russia e la Cina. Complice la fine del cancellierato di Angela Merkel, nonché verosimilmente l’insediamento del governo Draghi in Italia, le cose hanno preso purtroppo un’altra piega. E oggi è più che inquietante il coro mainstream di soddisfazione che si leva per un compattamento europeo che fa propria la parola d’ordine americana del nuovo scontro di civiltà fra Occidente e Oriente, e avviene tutto sotto l’insegna della Nato, di sanzioni durissime che colpiranno Putin ma affosseranno la transizione energetica europea, di una politica di pura potenza, di un riarmo di cui la Germania si fa protagonista e che travolge persino la neutralità storica di paesi come la Finlandia.

Se si rafforza in questo modo, dopo aver clamorosamente mancato tutte le possibilità preventive di disinnescare politicamente la miccia che Putin stava accendendo, l’Unione europea finirà col fare le spese del ridisegno dell’ordine globale che si sta giocando nella guerra fra l’imperialismo russo e il nazionalismo ucraino. Se in Ucraina non cessa il fuoco e l’Europa non inverte la rotta imboccando la strada della smilitarizzazione, il conflitto si estenderà in modo imprevedibile e i tempi si faranno durissimi per la specie umana. Se le democrazie si compatteranno al loro interno sulla base dell’ennesima proclamazione dello stato d’emergenza, come già sta avvenendo in Italia, la credibilità della democrazia subirà un ennesimo e fatale colpo. Come sempre e mai come oggi, per incidere sullo scacchiere geopolitico il pacifismo deve alimentarsi di un conflitto politico aspro dentro casa, in primo luogo contro la militarizzazione del dibattito pubblico.

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La coppia

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 4 febbraio 2022

La luce del sole d’inverno che veste a festa la capitale copre la crisi climatica, così come il rito dell’investitura del Presidente della Repubblica copre la crisi democratica. Per un’ora, rassicurati dalle geometrie dei corazzieri, dai suoni delle campane e del cannone del Gianicolo, dai colori delle frecce e dall’alternanza studiata delle auto d’ordinanza, si può pensare di vivere in una democrazia normale che celebra il suo momento più solenne. Non fosse per le maschere sul volto dei protagonisti, che oltre a rammentare l’incombenza della pandemia evocano all’immaginario il set kubrickiano di quel capolavoro di fine Novecento che era Eyes Wide Shut. E se si tengono gli occhi bene aperti normale non è niente, la crisi democratica è lampante e la solennità è lesionata come la sovranità.

Nel succedere a sé stesso, il tredicesimo Presidente della storia repubblicana non può non sapere che la sua rielezione è anomala anche se non illegittima, che l’iconografia del rito stride con le foto degli scatoloni da trasloco diffuse solo pochi giorni fa, che 14 anni si addicono più a un regno che a una repubblica anche se altrettanti ne durò in Francia François Mitterrand. Lo sa infatti e in qualche modo lo dice: quelli che hanno portato alla sua rielezione “sono stati giorni travagliati, per tutti e anche per me”, ma l’urgenza sanitaria, economica e sociale permane e “ci interpella”, il paese non poteva reggere ulteriori incertezze, i grandi elettori hanno deciso e per lui c’è “una nuova chiamata inattesa alla responsabilità” alla quale “non può e non intende sottrarsi”.

Proprio perché sa che di normale non c’è niente, il Presidente gioca l’unica carta retorica che può giocare per fare la differenza rispetto al precedente altrettanto anomalo della rielezione di Giorgio Napolitano: se nel 2013 Napolitano aveva rimproverato, maltrattato, strigliato la classe politica incapace di sostituirlo, Mattarella prova invece a richiamarla alla dignità perduta, al ruolo dismesso, ai compiti inevasi, come se vivessimo nella normalità democratica e non nell’eccezione permanente, come se la divisione dei poteri funzionasse salvo qualche aggiustamento, come se i valori costituzionali fossero davvero praticati, come se l’Italia fosse effettivamente sul punto di spiccare il salto verso il rinascimento post-pandemico e fosse effettivamente in grado di assumere un ruolo di punta nella costruzione europea e nello scenario geopolitico. E dati gli scarsissimi effetti del linguaggio ruvido di Napolitano, chissà che invece quello mite di Mattarella non possa produrne, performativamente, di migliori.

Sotto la mitezza tuttavia non mancano le punte di durezza. Ci sono intanto dei nemici da fronteggiare sul piano globale: la guerra che bussa di nuovo alle porte dell’Europa, i poteri economici transnazionali che prescindono dalle istituzioni democratiche, i regimi neo-autoritari che le minacciano esibendo efficienza e decisione. Sul piano interno, invece, bisogna rimettere al loro posto i paletti dell’ordinamento: il Parlamento deve ritrovare la centralità perduta nel processo legislativo, l’esecutivo deve smettere di rubargliela a colpi di decreti-legge, il sistema giudiziario dev’essere riformato sulla base delle esigenze dei cittadini e non delle correnti della magistratura, i partiti devono ritrovare il loro ruolo di cerniera fra istituzioni e società civile. Il sistema-paese deve fare “un salto d’efficienza” per essere all’altezza della costruzione europea e questo è il compito del governo Draghi, ma ha bisogno soprattutto di un sussulto di dignità, e dignità vuol dire diritto allo studio senza manganellate sugli studenti, diritto al lavoro senza morti bianche, diritto all’informazione indipendente, lotta alle disuguaglianze, alla violenza e alla discriminazione di genere, carceri meno affollate, disabilità vivibili, liberazione dalle mafie, e questo è compito di tutti: “la speranza siamo noi”.

In questo decalogo della dignità c’è la parte più forte del discorso del Presidente, nonché il richiamo più severo, ancorché implicito, a una classe politica che non ne è particolarmente dotata, né da quel decalogo si può dire che sia neppur vagamente orientata. E che però applaude quel discorso non una ma 55 volte, come e più di quanto aveva applaudito nel 2013 i rimproveri di Napolitano, quasi che oggi come e più di allora godesse nel consegnare la propria inadeguatezza e impotenza a un potere superiore.

C’è in questa consegna il segno palpabile di una già avvenuta torsione presidenzialista del sistema. E non è l’unico segno. L’altro sta nell’immagine della coppia Mattarella-Draghi che occupa la scena per tutto il resto della cerimonia d’insediamento. Per quanto l’accompagnamento del Presidente che si insedia da parte del Presidente del Consiglio in carica sia previsto e prescritto dal protocollo, esso assume stavolta un significato diverso dalla tradizione. Continuamente evocata e invocata, a proposito e a sproposito, “la coppia” infine ha vinto sull’instabilità politica, e insieme governerà e garantirà la stabilità del paese: è il “semipresidenzialismo di fatto” disgraziatamente auspicato più volte e da più parti, politiche e mediatiche, nelle settimane scorse. Come e quanto reggerà, se per sette anni o per sette mesi, è impossibile prevederlo dato che l’instabilità politica resta lì intatta sotto il fragore degli applausi e dato che in democrazia prima o poi ancora si vota; così come è difficile prevedere se il Mattarella-bis sia la fine o solo il rinvio delle ambizioni quirinalizie di Mario Draghi. L’inno nazionale intanto – per giunta tristemente usurpato da una sigla di partito – continua a rivolgersi ai soli fratelli d’Italia: quanto alle sorelle, sarà per un’altra volta.

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