Lezioni da Washington

Pubblicato su Internazionale il 13/12021

Fra le immagini provenienti da Washington ne circola una perfino più sintomatica di quelle dei manifestanti che si arrampicano come formiche sui muri di Capitol Hill e devastano indisturbati il tempio della democrazia americana, o di quelle dello sciamano tatuato con le corna che si accomoda trionfante sullo scranno di Mike Pence, o di quelle dei legittimi rappresentanti del popolo evacuati sotto la minaccia dei Proud boys armati. È un filmato fatto con il telefono e diffuso dal figlio dello stesso Trump, che ritrae il presidente tuttora in carica con la moglie a fianco davanti a uno schermo televisivo, mentre si gode la diretta della manifestazione che sta per aizzare contro il parlamento, il tutto con Gloria – un nome un programma – a tutto volume per tenergli su il morale.

Il filmato, mi si perdoni il paragone sacrilego, mi ha fatto venire in mente l’analisi di Las meninas di Velázquez fatta da Foucault nell’indimenticabile incipit di Le parole e le cose: come quel quadro, dice tutto della situazione epistemica di un’epoca, la nostra. C’è un fatto clamoroso, trasmesso in diretta tv, che tutto il mondo sta guardando con sgomento. E c’è il regista di quel fatto che dopo averlo organizzato lo guarda a sua volta su uno schermo e guarda noi che lo guardiamo, ma senza sgomento alcuno, anzi: ne gode.

Che sta facendo Trump? Che farà nei prossimi giorni? Che farà fra quattro anni?, si chiede tutto il mondo, attribuendogli una razionalità politica che non gli appartiene. Risposta semplice: Trump gode; contempla la sua opera distruttiva e gode. E che farà in futuro? Risposta altrettanto semplice: continuerà a fare quello che lo farà godere. Facendosi beffe di quella razionalità politica in base alla quale lo si continua a giudicare.

La categoria psicoanalitica del godimento è entrata da tempo a far parte dell’analisi politica più sensibile alle trasformazioni della contemporaneità, e attenzione, non ha niente a che fare con un sano piacere di vivere. Ha a che fare piuttosto con un eccesso di piacere mortifero che si attiva nell’oltrepassamento del limite, e in particolare del limite della legge. È di questo che godono – se ne parlò in Italia ai tempi di Berlusconi – i leader autoreferenziali e narcisisti di oggi: del collocarsi oltre la legge. Perciò il richiamo alla legalità non ha alcuna efficacia su di loro: la legge non li contiene e non li limita, perché ciò di cui godono, e di cui fanno godere il loro popolo, è precisamente trasgredirla, o prescinderne. E il loro popolo si identifica con loro non malgrado, ma in quanto la trasgrediscono o ne prescindono, dimostrando che se ne può fare a meno.

È uno degli ingredienti basilari della relazione populista tra capo e popolo, che insidia alla radice l’edificio della democrazia costituzionale, tutta basata viceversa sull’autorità impersonale della legge; ma destabilizza anche l’equazione tradizionale fra la destra e lo slogan “law and order”, che infatti i politici alla Trump usano solo contro gli altri ma non applicano mai a se stessi, e che infatti Trump ha tirato fuori, quando infine si è risolto a invitare i suoi supporter a tornare a casa “in pace, perché noi siamo il partito della legge e dell’ordine”, in palese contraddizione con l’incitamento all’illegalità con cui li aveva arringati poche ore prima.

La messa in scena della realtà

Un secondo ingrediente basilare del populismo è quello della politica come performance. La performatività è una dimensione propria dell’azione politica non da oggi, come dimostra la fortuna della metafora teatrale nel lessico politico della modernità. Ma nel teatro (politico) moderno c’erano un proscenio, un retroscena e un fuori-scena; c’era un essere e un apparire, un detto e un non detto, un pensiero e un retropensiero; c’era una rappresentazione che interpretava la realtà senza confondersi con essa, in perfetta simmetria con la rappresentanza che interpreta le istanze dei rappresentati senza identificarsi con loro. Oggi invece il set della performance politica non è più quello teatrale, bensì quello del reality show, da dove non a caso Trump – e prima di lui Berlusconi – proviene. E nel reality show non c’è l’essere e l’apparire ma l’apparire che coincide con l’essere, non c’è retroscena né fuori-scena ma tutto va in scena, non c’è non detto né retropensiero perché tutto si può dire e si dice. E non c’è rappresentazione della realtà, perché la rappresentazione è la realtà; come non c’è rappresentanza in assenza dei rappresentati, bensì presenza ossessiva del leader e identificazione fra il leader e i suoi seguaci.

Per questo è vano domandarsi, di fronte alla diretta da Washington, se si sia trattato “solo” di una sceneggiata o invece di un golpe “vero”, tentato e fallito: perché se anche si trattasse “solo” di una messinscena, sarebbe una messinscena immediatamente produttiva di realtà. La lesione della democrazia americana che ne deriva non è meno effettiva e reale di quella che sarebbe derivata da un tentativo di golpe “vero”: la messa in scena serve precisamente a rendere plausibile, pensabile e realizzabile ciò che prima era inconcepibile, per l’appunto performandolo. Se è andato in onda è accaduto, o comunque può accadere: al cospetto del mondo, e dei molti nemici che non senza ragioni ha nel mondo, la democrazia americana è diventata vulnerabile, e da questo punto di vista il golpe, “reale” o “sceneggiato” che fosse, è perfettamente riuscito.

Siamo arrivati a un terzo, e connesso, ingrediente basilare della politica populista, che è lo sfondamento del confine fra vero e falso: dove tutto è dicibile, vero o falso che sia, tutto diventa verosimile, anche la menzogna più eclatante, e tutto diventa oggetto di incredulità o creduloneria. Pure qui non si tratta di una novità assoluta: della menzogna la politica ha sempre fatto uso, e il totalitarismo – Arendt insegna – ne ha fatto un uso cruciale per i propri fini. Ma pure qui c’è un salto di scala, dovuto alle trasformazioni della sfera pubblica nelle democrazie contemporanee, dalla crisi delle autorità simboliche al dilagare del mercato delle opinioni alla diffusione dei social media, tutti fattori convergenti nell’innescare quella “crisi epistemologica” della democrazia americana che Obama denuncia nel suo ultimo libro e che ha trovato in Trump il suo carburante più potente, grazie anche – ma non solo – al suo uso intensivo dei social come strumento di “disinformazione partecipata”. Fino alla gestione negazionista della pandemia e alla grande menzogna del furto delle elezioni, alla quale nonostante tutto credono tuttora o fingono di credere i parlamentari repubblicani rimasti fedeli a Trump oltre che la stragrande maggioranza del suo elettorato.

L’ombra della democrazia

Se si considerano questi tre ingredienti della politica populista in generale e di quella di Trump in particolare, l’assalto a Capitol Hill risulta tutt’altro che imprevedibile. E infatti era stato ampiamente previsto, già durante la campagna elettorale, il “worst scenario” di un presidente uscente che se sconfitto nelle urne avrebbe applicato al risultato la sua strategia di falsificazione della realtà, trasformando così la crisi epistemologica della democrazia americana in crisi istituzionale. Uno scenario scartato con sufficienza, qui in Italia, da quanti prima hanno cercato di normalizzare la gara elettorale come una questione di ordinaria alternanza, poi hanno cercato di normalizzarne l’esito brindando troppo frettolosamente alla tenuta delle istituzioni americane.

C’è voluta la “sceneggiata” di cui sopra perché l’allarme suonasse davvero; e si spera che non rientri non appena la legalità costituzionale americana avrà trovato un modo, non è ancora chiaro quale, per ricucire la ferita. Non c’è infatti nessuna normalizzazione all’orizzonte, perché se pure Trump dovesse sparire dalla scena politica non spariranno i processi di cui egli è stato sintomo e causa. La partita che si sta giocando non è tra una parentesi anomala e il ritorno alla normalità, perché il populismo non è un’anomalia rispetto al modello democratico “corretto”. È piuttosto, come ha scritto una volta per tutte Margaret Canovan, l’ombra della democrazia, una eventualità sempre latente pronta ad attivarsi impugnando il democraticissimo principio della sovranità popolare ogni qualvolta la democrazia rappresentativa attraversa fasi di crisi radicale. Come tutte le ombre, si allunga al tramonto. E niente oggi ci garantisce che la crisi delle democrazie occidentali non si stia trasformando in un lungo tramonto.

La campana di Capitol Hill suona dunque anche per noi europei. E quanto all’Italia non annuncia solo un pericolo a venire, rappresentato dai Salvini e dalle Meloni di turno. Evoca piuttosto un passato recente e già rimosso, di cui portiamo tuttora i segni. Lo sa bene il famoso tassista di New York che non bisognerebbe mai citare in un pezzo, quello che ogni volta che atterri lì ti chiede da dove arrivi, e che se ai tempi di Berlusconi ti salutava con un beffardo “Italy! bunga bunga!”, dopo l’elezione di Trump si limitava a un più mesto e complice “you know the matter”, voi ci siete già passati. Ci siamo già passati infatti, con uno che l’assalto al parlamento non l’ha mai organizzato ma l’attacco alla costituzione l’ha costantemente predicato e praticato, e quanto a perversione narcisistica, politica- reality e annebbiamento del confine tra vero e falso è stato un indiscutibile precursore. Né possiamo scandalizzarci più di tanto di fronte allo sciamano con le corna, abitante di un’America MAGA (Make America great again) immaginaria e perduta, non tanto diverso dai celebratori dei riti dell’ampolla in quel della Padania. E nemmeno di fronte agli invasori del parlamento, che dalle nostre parti otto anni fa qualcuno voleva aprire come una scatoletta di tonno. Il virus populista circola da molto tempo, e noi che ci siamo già passati, sperimentandone per giunta variegate versioni, alla normalità democratica – ammesso che esista – non siamo mai più tornati.

L’anticorpo della Georgia

Pensiamo piuttosto agli anticorpi che possiamo e dobbiamo attivare. È tornata in auge in questi giorni la tesi, già molto diffusa a sinistra dopo l’elezione di Trump, di un rapporto di causa-effetto tra aumento delle disuguaglianze sociali e avanzata populista. Tesi fondata – anche se largamente contraddetta dalle analisi della composizione dell’elettorato trumpiano – ma parziale. Il populismo non è solo l’effetto di una crisi sociale. È un fenomeno politico, che ha a che fare con la crisi della politica: delle forme, del linguaggio, dell’immaginario e del credito della democrazia. E richiede perciò invenzioni politiche, non solo risposte economiche, all’altezza della complessità di questa crisi.

Nella loro enormità, i fatti di Washington hanno parzialmente oscurato la notizia dell’elezione in Georgia del predicatore nero Raphael Warnock, primo senatore afroamericano nella storia di uno stato marchiato dal segregazionismo, e di Jon Ossoff, documentarista ebreo diventato il più giovane esponente del senato americano. È il segno dell‘“altra America”, quella delle minoranze e delle lotte per i diritti, e del conflitto che oggi la contrappone all’America bianca e suprematista dei Proud boys trumpiani, che a Pennsylvania avenue sventolavano la bandiera dei confederati. Ma è anche il risultato di un esperimento e di un investimento politico: a strappare quei due seggi ai repubblicani è stata l’infrastruttura politica e organizzativa costruita da Stacey Abrams e altre attiviste, che ha saputo riportare alla passione politica chi nella politica non credeva più e ha saputo unire in nuove coalizioni chi nella società si sentiva marginale, perdente o intrappolato in un ghetto identitario. È solo nella ricostruzione di un popolo dal basso che c’è l’antidoto alla mobilitazione populista dall’alto.

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Calabria, chi ha paura di vincere?

Per le regionali in Calabria non si vota più il 14 febbraio ma l’11 aprile, e questa è una buona notizia: la regione, il Cts e il governo si sono resi conto che fare una campagna elettorale e votare con i contagi di nuovo in crescita non era precisamente una buona idea. La nuova data di fatto riapre i giochi finora bloccati sia nel centrodestra, dove Forza Italia rivendica l’esclusiva sul/la candidato/a a presidente ma ancora non ne ha fatto ancora il nome, sia nel centrosinistra, dove il tavolo di confronto per la costruzione di una “coalizione larga” si è impantanato a fine dicembre.Breve riassunto delle puntate precedenti. La Calabria torna alle urne a causa della morte di Jole Santelli, FI, che aveva vinto le elezioni a febbraio scorso a capo della coalizione di centrodestra incassando il 55% del 47% dei voti: più di metà dell’elettorato si era astenuto, grazie all’offerta politica scadente soprattutto nel campo del centrosinistra, dove il Pd, lacerato dai conflitti interni sulla riconferma o meno dell’allora governatore Oliverio (giusto oggi assolto da un’inchiesta a suo carico aperta da Gratteri), si era buttato sulla candidatura “civica” di Pippo Callipo, imprenditore anti-ndrangheta fino a poco prima vicino al centrodestra e privo di appeal politico nell’elettorato di sinistra. L’anno che è passato nel frattempo ha cambiato molte cose. Se il centrodestra punta alla riconferma in attesa del bottino del recovery fund, in una sinistra consistente nella società ma priva di rappresentanza politica lo stato della regione (sanità e non solo) portato allo scoperto dalla pandemia ha accelerato l’esigenza e l’urgenza di una svolta politica radicale. Ovviamente impossibile senza una coalizione unitaria alternativa al centrodestra, senza la rottura con le pratiche consociative del passato, senza l’apporto di nuove energie e nuove generazioni. Ma le cose ovvie in politica, com’è noto, non esistono. Convocato tardivamente – solo a metà dicembre – dal Pd, il tavolo di un ipotetico centrosinistra “largo” si riunisce quando il movimento “Tesoro Calabria” – fondato dal geologo ed ex responsabile della protezione civile regionale Carlo Tansi su una piattaforma sostanzialmente e trasversalmente anti-casta e rottamatoria – sta già preparando le liste per presentarsi in proprio, forte di un 7% ottenuto alle regionali di un anno fa e della conquista, la scorsa estate, del Comune di Crotone. Tansi non partecipa al tavolo, poi partecipa, poi di nuovo esce, sempre facendo scintille con il rappresentante del Pd. Il quale Pd a sua volta si comporta come da manuale: ridotto com’è in forma non precisamente smagliante, in Calabria come e più che altrove, si mette tuttavia in posizione sovrana, pretende di dare le carte, vuole per sé e solo per sé la scelta del candidato presidente (ma senza scoprirsi sul nome: aleggiano quelli del consigliere regionale Nicola Irto e del deputato Antonio Viscomi). La parola d’ordine, ufficialmente condivisa dai 5 Stelle, è “consolidare l’alleanza di governo”. Ma i 5 stelle – 18 deputati calabresi, il 6% alle regionali di un anno fa – oscillano fra il patto di governo e la tentazione di sostenere Tansi. Poi ci sono le sigle minori – IV, socialisti, SI – e quelli che il Pd ama definire “i civici”, disconoscendo come al solito la politicità di quello che nasce dal basso e alla sua sinistra: fra questi, le Sardine e “Calabria aperta”, movimento politico nato di recente su iniziativa di 140 attivisti, intellettuali, amministratori (tra i quali per quello che vale la sottoscritta). M5S, Calabria aperta, SI e Sardine chiedono al Pd discontinuità nelle candidature, un profilo unitario della coalizione, un programma di cambiamento condiviso; il Pd risponde con l’offerta di un ticket, il presidente a me il vicepresidente a voi, con la specifica che stavolta il presidente dev’essere un politico e non un civico. Non se ne fa niente, visto del del candidato presidente “politico” è oscuro non solo il nome ma anche il profilo, e visto che difficilmente un politico uscente del Pd potrebbe soddisfare le esigenze di rottura col passato espresse al tavolo. L’unica rosa di possibili candidati alla presidenza alla fine li fa Calabria aperta: Anna Falcone, avvocata e attivista nei movimenti in difesa della Costituzione; Silvio Greco, biologo e ambientalista noto per le sue battaglie sulla ‘nave dei veleni’; Tonino Perna, economista e attualmente vicesindaco di Reggio Calabria. Il M5S pare apprezzare l’ipotesi Falcone, nome al di sopra di ogni sospetto e di ogni parrocchia, forse perfino Tansi ci starebbe, ma il Pd non dà segnali di ricevuto e non si esprime. Va dritto per la sua strada che è sempre e ovunque la stessa (ed è già stata sperimentata alle ultime comunali di Catanzaro): perdere e far perdere tutto il centrosinistra pur di imporre un candidato “politico” proprio e di non confluire su un/a candidato/a che vincere potrebbe, ma ha il torto di non essere targata Pd e di spuntare fuori dalla sua sinistra.Le cose stanno a questo punto quando comincia a filtrare la notizia che Luigi De Magistris, oggi sindaco di Napoli alla fine del secondo mandato ma ieri procuratore a Catanzaro per molti anni, avrebbe in animo di candidarsi lui a governatore della Calabria. Intervistato da varie testate, De Magistris non smentisce (“sarebbe una bella sfida”, “mi affascina”, “se mi chiamano ci sono”). E il caso non fa in tempo a diventare politico che diventa mediatico. Una testata regionale lancia la fantasiosa ipotesi di un complotto partenopeo ordito da De Magistris in combutta con il commissario del Pd calabrese Stefano Graziano e con il braccio destro di Zingaretti Nicola Oddati, entrambi napoletani e interessati a spedire il sindaco in Calabria per liberare la casella di una futura candidatura in parlamento. Il giorno prima invece un’altra testata regionale di area Pd si era occupata di derubricare in automatico la candidatura di Anna Falcone da presidente a vicepresidente (di De Magistris): con le donne, è noto, si fa così. Seguono a ruota Repubblica nonché il manifesto. Nel frattempo si scopre che l’idea della candidatura di De Magistris proviene da un sindaco calabrese del suo movimento, mentre il Pd tace, il tavolo latita e sui giornali cominciano, al grido di “la Calabria ai calabresi” gli strepiti contro il “colonizzatore” napoletano, al quale in verità si possono fare molte critiche ma non quella di non conoscere una regione dove ha vissuto e lavorato per tanti anni. Nel campo che fu della gloriosa sinistra italiana abbiamo molti problemi. Uno è sempre lo stesso e si chiama Pd. Un altro è sempre più intollerabile e si chiama misoginia. Ci mancava solo l’orgoglio identitario e proprietario regionale, sinistramente prossimo al leghismo.

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L’eccezione Calabria

Pubblicato su Internazionale.it l’1/12/2020

Intervistato su varie testate, il nuovo commissario alla sanità calabrese Guido Longo dice che ha accettato l’incarico per amore di una regione che già conosce “nella sua complessità”, che la materia sanitaria non gli è familiare ma si appresta a studiarla a fondo, che la cosa più importante da fare è garantire assistenza medica a tutti i calabresi e che nel suo nuovo ruolo continuerà a confrontarsi con le esigenze della cittadinanza e del territorio come già ha fatto in passato. Lo prendiamo in parola, confidando – lo dico sinceramente e senza ironia – che riuscirà a ribaltare nella cosa e nel come il messaggio simbolico che il governo ha inviato alla Calabria con la sua nomina e con il suo metodo. Che invece sono entrambi, il messaggio e il metodo, disperanti.

Avevamo capito che in Calabria c’è un problema, molto serio, di riorganizzazione di un servizio sanitario devastato, nell’ordine, da sprechi, bilanci fasulli, tagli dissennati, commissariamenti inefficienti, politiche incompetenti, favori alla sanità privata, turnover bloccati nel pubblico,  desertificazione dei presidi territoriali, turismo sanitario funzionale alle eccellenze private delle regioni del Nord, infiltrazioni ‘ndranghetiste e massoniche. Non era vero, evidentemente. Individuata nella persona di un poliziotto antimafia, dopo la farsesca sequenza di quattro commissari licenziati (Cotticelli), dimissionati dall’alto (Zuccatelli), annunciati a vuoto (Gaudio, Miozzo), la nomina del nuovo commissario manda a dire all’opinione pubblica, calabrese e nazionale, che  in Calabria c’è solo un problema di mafia, sicurezza e ordine pubblico, da risolvere con l’invio di un funzionario di polizia. Briganti e prefetti, come ai tempi dell’unità d’Italia. Guardie e ladri, come al cinema.

Ancora una volta dunque alla legittima esigenza di normalità della Calabria si risponde rigettandola nella condizione di una irredimibile eccezione. Si trattava di rendere esigibile il diritto alla salute, che è un diritto fondamentale scritto in Costituzione. Si risponde criminalizzando,  neanche tanto implicitamente, un’intera regione, all’ombra della pur necessaria lotta alla ‘ndrangheta e alla massoneria deviata. Con il plauso unanime delle forze politiche regionali, di governo e d’opposizione.

E’ troppo comodo, per le istituzioni nazionali e regionali, uscirne in questo modo. Chi conosce la Calabria sapeva fin dall’arrivo del coronavirus che la sua situazione sanitaria era la cartina di tornasole di tutto quello che nel sistema-Italia non funziona, dal titolo V della Costituzione ai diritti diseguali alla demolizione di un sistema sanitario un tempo cardine e vanto dello stato sociale. E sapeva che dunque sarebbe diventata l’hic Rhodus, hic salta della governance della pandemia – se così vogliamo chiamare, nobilitandolo, l’intreccio ingarbugliato di poteri statali, poteri regionali, poteri d’emergenza e competenze tecnico-scientifiche che in questi mesi ha di fatto cambiato la nostra forma di governo. Bisognava dunque seguirla, la Calabria, molto da vicino. E fare dell’emergenza-covid l’occasione per accelerare la ristrutturazione della sanità che aspettava da anni.

Non è stato fatto. Quello che è avvenuto, e quello che non è avvenuto, fra la prima e la seconda ondata dell’epidemia attende ancora di essere ricostruito nei dettagli, ma la sequenza dei Dpcm e Dpgr firmati  da Conte e Santelli a marzo e mai attuati se non in minima parte,  del piano covid firmato a sua insaputa dal commissario Cotticelli e mai implementato, delle 15 Usca istituite contro le 37 programmate, dei 50 nuovi posti di terapia intensiva allestiti contro i 156 dovuti,  dell’incertezza e dei rimpalli  sul “soggetto attuatore” (la Regione, il ministero, il commissario?) di quello che sulla carta andava fatto, tutto questo parla di una confusione e di una conflittualità istituzionale inconcepibili in uno stato di diritto. E qui, sia chiaro,  non c’entrano niente le infiltrazioni criminali né il debito accumulato, e c’entra fino a un certo punto perfino la condizione di fragilità pregressa del sistema sanitario regionale, che pure ha dei punti di forza che avevano retto la prima ondata dell’epidemia. C’entrano solo ed esclusivamente l’approssimazione e l’irresponsabilità delle istituzioni coinvolte – regione, governo e commissario di governo – nella gestione dell’emergenza covid,  unite al dissesto istituzionale cronico dovuto alla sciagurata riforma del titolo V della Costituzione. Quando e come il governo e la regione intendono risponderne?

Poi c’è stata la tragicommedia – politica e mediatica, anzi mediatica e politica – del defenestramento di Cotticelli che scopre in diretta di non sapere cos’è un piano covid,  del dimissionamento di Zuccatelli che ha bruciato un indiscutibile curriculum (compresa la sua attività di commissario a Catanzaro) con il video sulle mascherine, di Gaudio che scarica sulla moglie il gran rifiuto, di altri candidati ventilati e bruciati. Senza che dal governo venisse un’informazione o un chiarimento sui criteri che orientavano la scelta: politici? mediatici? di competenza? Quante tensioni della maggioranza (e quante pretese su quel ruolo, alla vigilia delle elezioni regionali in Calabria) si sono scaricate su questa nomina? Quanto incide la reputazione mediatica sulla reputazione professionale di un candidato, se incide perché non la si controlla prima di nominarlo, e se non incide perché non lo si difende dopo averlo nominato? Se le competenze contano, perché si passa da un commissario-generale Cotticelli) a un commissario-manager sanitario (Zuccatelli) a un commissario-poliziotto (Longo) come fossero tre buste equivalenti? E perché nella scelta non sono state coinvolte le professionalità che operano efficacemente sul territorio –  penso ad esempio alla rete delle “Comunità competenti”, che sui problemi e la riorganizzazione della sanità calabrese elabora da tempo soluzioni realistiche e appropriate, ben note peraltro al ministero della salute?

Torniamo al punto di partenza: perché quando c’è di mezzo la Calabria la logica coloniale del commissario prefettizio e quella securitaria della caccia al criminale si sovrappongono alla logica della cittadinanza attiva e dei diritti, e la comprimono. Il gioco non è riportare una regione del paese a una normalità vivibile, ma riaffermare l’alterità di un territorio per definizione fuori norma. Ed è un gioco in cui politica e media concorrono alla pari. Stavolta i media hanno avuto di sicuro il merito di mettere sotto la lente d’ingrandimento una situazione di cui la politica avrebbe volentieri taciuto. Ma neanche stavolta hanno resistito, fatte salve poche e meritevoli eccezioni, alla tentazione di raccontarla su un fondale etnico che ne oscura distinzioni e differenze: fra la sanità devastata e quella che soprattutto grazie ai medici funziona, fra corruzione e legalità, fra diritti violati e privilegi garantiti, fra chi il crimine lo agisce e chi lo combatte. Su questo fondale etnico è possibile dire e lasciar dire di tutto e infatti abbiamo ascoltato e letto di tutto, dalle nostalgie vintage del procuratore Gratteri di una Calabria contadina da dove si emigrava con la valigia di cartone alle affermazioni neanche tanto velatamente razziste di un autorevole opinionista progressista secondo il quale in Calabria ‘ndrangheta, società e politica coincidono. Mancano solo i cow boys e gli sceriffi e il western è servito.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   Questa rappresentazione non fa bene né alla Calabria, perché la conferma nel suo isolamento,  né all’Italia, perché non aiuta a capire i dispositivi che malgrado regionalismi e localismi esasperati la tengono insieme, nel bene nonché nel male. Mentre nella regione con il sistema sanitario più sofferente si consumava questa tragicommedia, in quella con il sistema sanitario più eccellente, la Lombardia, i numeri del contagio e delle morti da covid si impennavano come e peggio che durante la prima ondata. Un sistema sanitario basato sull’ospedalizzazione e l’eccellenza delle strutture private a spese della medicina di territorio non regge l’impatto di una pandemia, e questo ormai lo hanno capito anche le pietre. Quello che si continua a tacere è che quel sistema è stato nutrito nel corso degli anni anche con il depauperamento della sanità meridionale, calabrese in primis, e l’incentivazione del cosiddetto turismo sanitario, che a quel sistema sono funzionali e sono in primo luogo il frutto di scelte politiche, non di disgrazie casuali o di colpe locali. E’ solo il linguaggio dei diritti, antitetico a quello del profitto,  che può riunificare il sistema sanitario e lo stato sociale italiani: ammesso che lo si voglia.    

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Se l’America torna a respirare

Pubblicato su ItalianiEuropei n.6, 2020

Per uno di quei giochi di prestigio che solo il sistema mediatico riesce a fare,  la notizia della vittoria – difficile, e tutt’altro che scontata – di Biden su Trump è diventata, nei media mainstream italiani, la notizia della non-sconfitta di Trump e della sua incombenza sul prossimo mandato presidenziale, predestinato in partenza all’immobilismo in un’America spaccata a metà come una mela. In sostanza, Biden ha vinto per modo di dire perché – sorpresa!  – il populismo di Trump è vivo, vegeto  e radicato, l’America “profonda” non gli ha affatto voltato le spalle e il nuovo tandem presidenziale altro non potrà fare che posizionarsi al centro, inanellare compromessi con il partito repubblicano e liberarsi risolutamente dell’impiccio dell’ala sinistra della coalizione che lo ha portato alla Casa bianca.

E’ l’ennesima puntata della serie “la sinistra può vincere e governare solo al centro” che in Italia va in onda a reti unificate da una trentina d’anni in qua senza mai cambiare di una virgola la sceneggiatura, e lasciando volutamente fuori campo eventi, attori e circostanze che la metterebbero in questione.  E’ così che le tesi politiche precostituite diventano ricette prescrittive: appoggiandosi ad alcuni dati di realtà, quelli ripetitivi e volti alla conservazione,  e cancellandone altri, quelli inediti e volti al cambiamento. Nella fattispecie sono certamente dati di realtà (non nuovi) che l’America sia spaccata in due (lo era già nel 2016), che il trumpismo sia ben radicato (strano che lo si scopra adesso), che Biden, già moderato di suo, dovrà governare con un senato molto probabilmente in mano ai repubblicani e in  grado tenere sotto sequestro l’agenda politica (com’è già accaduto a Obama dopo i primi due anni di mandato). Ma negli ultimi anni, e nell’ultimo in particolare, negli Stati uniti  sono successe altre cose: è scoppiata una pandemia che come e più che in tutto il mondo sta mostrando le crepe del sistema e avrà conseguenze economiche e sociali immani; e si è costituito, dal basso, un popolo contrapposto al popolo mobilitato dall’alto di Trump, che porta a galla la nuova composizione demografica e sociale dell’America progressista e ha dato una spinta decisiva alla vittoria dei democratici. Sono dati di realtà anche questi, e prescinderne non aiuta a capire la piega degli eventi.

Facciamo un passo indietro, anzi due. Fino a pochissimi giorni prima del voto, nei media italiani la tendenza prevalente era a “normalizzare” l’evento delle presidenziali. I sondaggi – smentiti nel 2016 e ri-smentiti quest’anno, ma la fede negli oracoli è dura a morire – davano a Biden  un vantaggio di circa dieci punti su Trump e tanto bastava a considerare la partita risolta in anticipo nella “fisiologica” alternanza dei sistemi bipolari.  Eppure fonti autorevoli, sull’altra sponda dell’oceano, dicevano tutt’altro. Da settimane puntavano il dito sul worst scenario, lo scenario peggiore che si è poi puntualmente verificato: quello di una vittoria rossa di misura nel voto in presenza che sarebbe stata poi ribaltata dallo scrutinio del voto per posta, con conseguente contestazione del risultato da parte del presidente uscente, che contro la validità del voto postale si era già esercitato più volte e aveva anticipato le sue intenzioni eversive  nel primo duello televisivo con Biden. Su giornali come il Guardian e il New York Times, non sui fogli dell’estremismo militante, parole come “colpo di stato” e “guerra civile” erano state sdoganate da tempo; una settimana prima del voto, il Guardian aveva pubblicato un decalogo di pratiche di resistenza contro l’eventualità di un golpe.

Di normale dunque non c’era niente: la posta in gioco, chiarissima e annunciata, era l’intenzione di Trump di delegittimare il gioco democratico alla radice, nel rito basilare del voto e della sua trasparenza e attendibilità; una sorta di apoteosi del populismo e delle sue capacità demolitrici della democrazia costituzionale.  Molti, l’ha scritto Judith Butler, sono andati a votare non tanto per Biden quanto “per la possibilità stessa di esercitare il diritto di voto”, questa volta e la prossima. E come  ben sappiamo, questa posta che riguarda i fondamentali della democrazia è ancora lì sul tavolo. Trump prima o poi uscirà dal suo fortino, la sua strategia giudiziaria di contestazione dei risultati, basata sul nulla, finirà con l’arenarsi e il tandem Biden-Harris enterà nella Casa bianca. Ma l’ex presidente continuerà a minare il credo e il credito democratico alimentando quella che Barack Obama nella sua autobiografia appena uscita, nonché  alcuni analisti acuti come David Roberts su Vox e Luca Celada in Autunno americano, definiscono “la crisi epistemologica” della democrazia americana: l’appannamento del confine fra vero e falso, fra realtà e reality, fra fatti e “fatti alternativi” su cui Trump ha costruito tutta la sua performance politica, fino alla dissennata gestione negazionista della pandemia. Ma portata al livello della negazione del  risultato elettorale, la “crisi epistemologica” rischia di trasformarsi in crisi costituzionale, e comunque nella delegittimazione programmatica della presidenza Biden in metà dell’opinione pubblica americana.

Secondo passo indietro. La conferma del radicamento sociale del populismo trumpiano – e anzi la sua capacità di accrescere la propria base, come dimostra l’afflusso eccezionale di repubblicani al voto e l’incremento dei consensi in alcune fasce  dell’elettorato – è inquietante, ma non è una sorpresa; e aumenta, non diminuisce, il valore della vittoria di Biden-Harris. A gennaio scorso, quando il coronavirus non aveva ancora varcato i confini dell’occidente, Trump era saldamente in sella, forte di un’economia che girava al massimo e di un tasso di disoccupazione prossimo allo zero, e il suo consenso era solido e compatto, a fronte di un partito democratico che si dibatteva fra candidati alle primarie inconciliabili fra loro, Sanders (all’epoca dato per favorito)  contro Biden (all’epoca dato per spacciato) o Warren contro Buttigieg. Ma era evidente che il sistema si reggeva su contraddizioni alla lunga insostenibili: ricchezze accumulate da una parte e poveri vecchi e nuovi dall’altra, un mercato del lavoro saturo sì ma di precari ed essentials senza diritti, un melting pot compromesso dalle politiche di confinamento dei migranti e dall’eterno ritorno di un razzismo endemico. E quello slogan, make America great again, come copertura del declino, demografico e di egemonia,  dei “nativi” bianchi, e come sigla di un populismo che evocava l’unità del popolo mentre ne attizzava tutte le divisioni e i conflitti.  

Imprevedibilmente, nei mesi successivi, questo cumulo di contraddizioni ha cominciato a sgretolarsi sotto l’effetto di due  detonatori, la pandemia e l’assassinio di George Floyd, convergenti nel mettere a nudo la struttura classista e razzista del sistema: non a caso I can’t breath, il grido di Floyd soffocato dal poliziotto, diventa nel giro di una notte lo slogan dell’America soffocata dal neoliberismo e dal razzismo. Per quanto possa infastidire chi, dalle nostre parti,  ha rappresentato Black Lives Matter come uno dei due “opposti estremismi” (l’altro essendo, in base a una improponibile simmetria, quello delle milizie suprematiste di Trump) che disturbavano l’ordinaria routine del bipartitismo  americano, va riconosciuto a questo e agli altri movimenti nati e cresciuti negli ultimi anni di avere dato voce e spessore a una critica anti-sistema di segno opposto a quella populista, e di aver contribuito in modo decisivo ad alimentare il processo di ripoliticizzazione della società americana che si è riversato infine nella partecipazione straordinaria al voto del 3 novembre. Come va dato atto a Biden  di avere intercettato questo processo di ripoliticizzazione riunificando sotto la sua “eleggibilità” un partito diviso, e siglando con Sanders e Octasio Cortez un programma riformista ben più deciso di quanto sarebbe stato nelle sue intenzioni originarie, che puntavano solo sul ritorno a una “normalità” impossibile dopo il terremoto trumpiano.

Malgrado i numeri della contabilità istituzionale spingano verso il moderatismo centrista, con quei seggi persi dai democratici alla camera e il pareggio al senato appeso ai due ballottaggi della Georgia,  la logica politica spingerebbe invece per un consolidamento della coalizione che ha portato il tandem Biden-Harris alla Casa bianca. Non è questione di contabilità infatti ma di rappresentatività e di forme della politica. Come ha detto la stessa Kamala Harris sul palco della festa di Wilmington, quei 75 milioni di voti, il massimo mai incassato da un candidato alla presidenza,  non sarebbero stati possibili senza la mobilitazione sociale che ha preceduto il 3 novembre e che ha contrassegnato le vittorie più significative a livello statale: la riconquista del voto operaio bianco della rust belt; la conquista di uno stato storicamente segregazionista come la Georgia, dove il modello organizzativo costruito da Stacey Adams e altre attiviste ha ottenuto il record della partecipazione al voto soprattutto fra gli afroamericani; la conquista dell’Arizona, con l’apporto determinante del voto giovanile ispanico; lo sfondamento fra i lavoratori sindacalizzati ispanici e afroamericani di Las Vegas. E va da sé che Kamala Harris non sarebbe salita su quel palco, né i dem avrebbero sfondato nell’elettorato femminile soprattutto nero e ispanico, senza la lunga scia di movimenti femministi che dalle women’s march del 2016 al metoo alle campagne di sostegno delle candidate del mid term ha punteggiato come una spina nel fianco il mandato di Trump.  Le analisi del voto mostrano peraltro che se avessero votato solo le donne la cartina degli Stati uniti sarebbe molto più blu, e se avessero votato solo gli uomini sarebbe molto più rossa: una conferma che il populismo pesca nell’identificazione maschile (bianca e nera) con il machismo al potere. Ma anche un segnale di come le linee di aggregazione delle soggettività politiche non coincidano più con le definizioni identitarie delle minoranze etniche su cui tradizionalmente si sono basate le coalizioni democratiche, e vadano rintracciate piuttosto in quella intersezione fra classe, etnia e genere su cui ruota giustamente la galassia dei nuovi movimenti.

Giusto mentre sto chiudendo questo pezzo arriva la notizia che la commissione elettorale della contea di Detroit, in forza dei suoi componenti repubblicani,  non certifica il risultato elettorale favorevole a Biden. Nella transizione che Trump non concede al nuovo presidente ci sarà ancora da ballare.  La pandemia intanto continua a mietere vittime negli Usa come e più che in Europa e la crisi economica incalza. Niente lascia prevedere un tranquillo ritorno a una moderata normalità. Dopo il populismo, questo in Italia dovremmo averlo imparato, non c’è un ritorno a prima: o c’è un salto di qualità del discorso politico alternativo o c’è una deriva verso il peggio di prima. E ci sono crisi di una tale radicalità da richiedere svolte radicali al di là delle intenzioni dei giocatori politici in campo. Come ha scritto prima del voto George Parker su The Atlantic, la crisi del sistema americano è tale da poter spingere perfino un moderato come Biden a farsi portatore, o traghettatore, di qualcosa che assomigli a un nuovo New Deal. Né più né meno di quanto servirebbe per far rimbalzare anche nell’estenuata sinistra europea l’avvio di un nuovo ciclo riformista. Di là e di qua dall’oceano si tratta solo di tornare a respirare.

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La festa è qui

Pubblicato l’8/11/2020 su Internazionale.it

Non passa neanche un quarto d’ora dall’annuncio alla Cnn della vittoria di Joe Biden che su WhatsApp cominciano ad arrivare da San Francisco, Los Angeles, New York i video delle manifestazioni spontanee di esultanza. Dopo quattro giorni appesi all’ansia per la conta salta il tappo di quattro anni plumbei, aggressivi e depressivi, che avevano immerso nella malinconia il sogno americano. Non che adesso si apra un futuro radioso: asserragliato nella Casa Bianca con i suoi avvocati, il presidente sconfitto si rifiuta di telefonare al vincitore come prassi vorrebbe e promette ancora tempesta. Domani chissà che succede, ma adesso è il momento della festa. L’inviato politico afroamericano della Cnn piange in diretta: “Da oggi è più facile dire ai nostri figli in che paese vivono. We couldn’t breathe”.Non si respirava più. George Floyd è vendicato.

Passano ancora una decina di minuti e le tv cominciano a snocciolare i messaggi ufficiali di felicitazioni dei capi di stato e dei vertici europei: Merkel e Macron, Mattarella, Sassoli e Von der Leyen brindano al riavvicinamento delle due sponde dell’Atlantico. Il presidente sconfitto non riconosce il vincitore, ma il mondo sì: di fronte al fatto compiuto, diventa sempre più difficile per Trump inventarsi i suoi scoppiettanti “fatti alternativi”. Poche ore dopo, dal fortino dello Studio ovale arriverà una briciola di senno: il presidente uscente riconoscerà l’esito legale del voto, non si sa quando e a quali condizioni ma prima o poi, gli stanno spiegando i figli e gli avvocati, sarà costretto a farlo, la vittoria di Biden essendo tale che nessun riconteggio in questo o quello stato può metterla in discussione.

La direzione della storia

Kamala Harris sale sul palco del parcheggio tirato a festa e popolato di mascherine anticovid di Wilmington, la città di Joe Biden nel Delaware, quando in Italia sono passate le due di notte. È magnifica nel suo tailleur bianco, raggiante nei suoi tratti meticci, e d’improvviso con la sua comparsa si palesa la direzione vera che la storia sta prendendo. Il duello tra i due maschi bianchi ultrasettantenni che ha occupato fin qui il centro della scena sfuma come d’incanto sullo sfondo mentre in primo piano si materializza la metà rimossa della storia americana: “La genealogia delle donne nere, ispaniche, immigrate che come mia madre hanno aperto la strada a questo momento, che sono da sempre la spina dorsale della nostra democrazia, che hanno lottato in passato per il diritto di voto e che oggi continuano a lottare per farsi ascoltare”. Figlia di immigrati, nera, asiatica, Kamala Harris è la prima donna a varcare da vicepresidente la soglia della Casa Bianca e a varcarla senza essere la moglie di nessuno, “ma di certo non sarò l’ultima”: un nuovo primato apre una nuova possibilità. Interrotta da Trump, la narrativa del sogno americano può ricominciare.

Biden si incarica di completarne il canovaccio, presentandosi come da copione come il presidente di tutti: “Non ci sono stati blu e stati rossi, ci sono solo gli Stati Uniti d’America”. Ringrazia l’immensa moltitudine dei suoi che si è mobilitata per eleggerlo – mai nella storia tanti voti, quasi 75 milioni, un altro primato – ma ha di fronte un paese spaccato in due e deve riunificarlo in qualche modo; nomina uno per uno i segmenti della coalizione sociale che sono confluiti sul suo nome, “i neri, i bianchi, i latini, i gay e gli etero” ma fa appello agli sconfitti, “vi capisco, anche a me è capitato di perdere, non è piacevole, ma adesso siamo tutti americani”, e lui è lì “per guarire l’America” e ritrovarne l’anima “col potere dell’esempio e l’esempio del potere”.

We did it!

Come sempre nei momenti topici, l’istantanea del palco di Wilmington restituisce lo stato delle cose più di mille analisi politologiche. Con la sua sola fisicità, ma anche con la sua retorica scarna e diretta – “Hi Joe, we did it!”, così la sua telefonata di congratulazioni a Biden  Harris archivia d’un botto l’estetica mortifera, plastificata e berlusconiana, della corte di Trump, e d’un botto riporta alla memoria quella piena di vita e di futuro della famiglia nera che nel 2008 era salita sull’indimenticabile palco del parco di Chicago. Il backlash trumpiano, suprematista e razzista, che nel 2016 aveva cercato di mettere una pietra tombale sull’era obamiana sconfiggendo al contempo la prima candidata bianca alla presidenza viene fermato non per caso dall’ex vice, bianco, di Obama e da un’altra donna, meticcia come Obama. Nei momenti topici, la storia presenta sempre il conto e i conti, alla fine, tornano.

La narrativa progressista dell’esperimento americano può ripartire, ma non siamo nel 2008, se non per il fatto che oggi come e più di allora, incombe sul governo democratico una crisi economica di proporzioni incalcolabili. Quattro anni di populismo suprematista lasciano un segno anch’esso incalcolabile e non si sa quanto cicatrizzabile, e dalle urne esce un paese spaccato in due come una mela, polarizzato politicamente e soprattutto, in una delle due metà, psichicamente bipolare, oscillante fra fissazioni identitarie e incubi complottistici, cognitivamente disorientato sul confine perduto tra vero e falso. L’anima dell’America, quella che Biden evoca come discendente dai Lumi e alleata della scienza al tempo del covid, faticherà non poco a riportare alla razionalità politica l’emotività postpolitica del popolo trumpiano. E non si tratta soltanto, come pensano in coro molti commentatori di casa nostra, di mettere all’opera l’abilità da politico di lungo corso di Biden, la sua sperimentata capacità di mediare con un senato che probabilmente resterà repubblicano e di comporre una squadra di governo incorporando i moderati della sua coalizione e magari qualche repubblicano in fuga dal trumpismo. Le cose saranno più complicate, e lo schema di gioco, per fortuna, meno scontato.

Guardando all’esito del voto infatti, e in attesa che le consuete analisi sociologiche forniscano dati più precisi sulla sua composizione demografica, sociale e culturale, il quadro che emerge è più articolato di quello che impazza nei nostri talk. Per quanto polarizzata, la situazione non è affatto simmetrica, e soprattutto non sospinge affatto verso un’ennesima riedizione del già perdente centrismo democratico. In primo luogo, la partecipazione oceanica al voto è il segnale di una politicizzazione vitale della società americana, di cui un vettore è stato indiscutibilmente lo stesso populismo trumpiano, ma l’altro, altrettanto indiscutibilmente, è stata la mobilitazione incessante dei movimenti di contestazione del trumpismo. Lo dice benissimo Harris nel suo discorso: “La democrazia non è uno stato, è un atto. Non è garantita, è forte solo se non la diamo mai per scontata e la difendiamo praticandola. Per quattro anni avete lottato per le nostre vite e per il nostro pianeta, e poi avete votato”: senza di voi, sottinteso, non ce l’avremmo fatta.

In secondo luogo, la vittoria di Biden, per quattro lunghi giorni sul filo del rasoio, alla fine non è affatto una vittoria di misura. Non solo numericamente, per via dei quasi cinque milioni di voti di scarto rispetto a Trump (dei quali più della metà californiani, tanto per capire da che parte batte il vento del cambiamento), ma soprattutto politicamente. Biden ha riportato a casa il voto operaio bianco del “muro blu”, ha strappato a Trump alcuni stati decisivi, gli ha conteso l’elettorato frammentato ma cruciale della suburbia metropolitana, ha prevalso tra i neri e, salvo che in Florida, fra gli ispanici del sud e del sudovest, già determinanti per la sua vittoria alle primarie, ha raccolto il sostegno, preparato da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, della nuova classe operaia, se così possiamo chiamarla, fatta di precari ed essentials. È vero ovviamente che Biden non avrebbe vinto senza il sostegno di larghi settori dell’establishment centrista; ma è altrettanto vero che non avrebbe vinto neanche senza il sostegno della sinistra dentro e fuori il suo partito. È la differenza cruciale che passa fra la vittoria di “zio Joe” oggi e la sconfitta di Hillary Clinton ieri.

La partita di Bernie Sanders


Niente è stato frutto del caso, e anche per questo – in terzo luogo – il risultato è carico di valore politico. Non è vero, e non è mai stato vero, che Sanders sarebbe stato un candidato migliore: Biden ha fatto bene a perseverare quando, all’inizio delle primarie, era dato da tutti per spacciato e Sanders pareva volare; la parola d’ordine della maggiore “eleggibilità” del candidato moderato ha funzionato. Ma ha funzionato solo perché l’hanno sostenuto l’ala radicale dei dem e un movimento sociale plurale e intelligente che si è snodato in tante forme, dalle women’s march al #MeToo, da Black lives matter al sabotaggio del muslim ban, dalle lotte dei precari alla magnifica campagna elettorale vincente delle candidate di nuova generazione nel mid term.

Perciò, se il sentiero della pacificazione con i repubblicani e con il popolo trumpiano è stretto, la strada di un’alleanza stabile fra moderati e radicali è obbligata. Niente destina Biden a una deriva centrista: l’anima americana che lui invoca, di un’America devastata non solo dal trumpismo ma anche dalla pandemia e dal tracollo economico, ha bisogno con ogni evidenza di una svolta riformista. Se l’immaginario dei movimenti ha pescato nella storia lunga delle lotte contro la segregazione razziale, l’immaginario democratico deve pescare, oggi, nella memoria rooseveltiana del New Deal.

Si vedrà nel frattempo che ne sarà del lascito di Trump, che non ha solo mantenuto, com’era nelle previsioni, il suo consenso ma l’ha accresciuto, non solo nelle zone rurali ma perfino in settori insospettabili come l’elettorato femminile bianco e in quello gay, a dimostrazione che il populismo scompagina tutte le caselle e le linee di conflitto novecentesche con cui siamo abituati a ragionare. Il presidente sconfitto non ha molti appigli per le sue fantasie golpiste: il rito del voto ha tenuto, e il sistema giudiziario non è nelle sue mani per quanto lui abbia fatto di tutto per appropriarsene, dai tribunali statali alla corte suprema. La forma democratica ha retto al suo assalto e reggerà a quello eventuale dei Proud boys. Anche per lui, la strada è solo politica: deve decidere che fare del capitale di consenso accumulato, e lo stesso dovrà fare il suo partito, per ora incerto fra la tentazione di mollarlo e quella di incassare il suo malloppo di settanta milioni di voti.

Nel mondo intanto l’internazionale sovranista, dal Sudamerica all’Europa dell’Est, d’improvviso piange. Quanto a noi qui sull’altra sponda dell’Atlantico, abbiamo capito che il sovranismo populista può portare le pericolanti democrazie occidentali sull’orlo del baratro, ma può essere sconfitto, quando il popolo plurale che si mobilita dal basso intorno a valori di uguaglianza, giustizia sociale e solidarietà prevale sul popolo mobilitato dall’alto e compattato da leader superomisti sulla base di valori gerarchici e identità escludenti. Forse la politica può rimettersi in moto anche da questa parte dell’oceano.

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La tempesta perfetta

Pubblicato su Internazionale.it il 2/11/2010

Il nuovo romanzo di Don DeLillo appena uscito negli Stati Uniti, The silence, è la storia di un blackout tecnologico che sospende la vita di un gruppo di amici in una New York appena uscita dalla pandemia, dove il digitale è diventato ormai la seconda natura degli esseri umani. Gli schermi dei telefoni e dei computer all’improvviso si spengono, le connessioni si interrompono, nessuno può più comunicare né fare alcunché, i complottisti impazzano: sarà (di nuovo) colpa della Cina? DeLillo l’ha ambientato nel 2022 e ha finito di scriverlo un attimo prima che il lockdown della scorsa primavera costringesse lui e i newyorchesi, come tutti noi del resto, a frequentarsi solo da remoto; ma i fatti sono stati più veloci della sua profezia. La fantasia di una socialità interamente digitalizzata è già diventata realtà nel mondo stravolto dal coronavirus, e questo non è l’ultimo dei fattori a dare una tonalità apocalittica al teatro in cui si recita il dramma delle presidenziali americane. Come se una contesa politica epocale si svolgesse in primo piano mentre sullo sfondo procede un’ancor più epocale trasformazione del capitalismo che, complice il virus, fa i suoi giochi a prescindere dal potere politico, arricchendo ulteriormente i colossi delle piattaforme, precarizzando ulteriormente il lavoro della gig economy e dissolvendo nel digitale quello che nel lontano novecento chiamavamo “il sociale”.

Dalla scena in primo piano, intanto, piovono altri segnali non meno apocalittici. Da un amico di Los Angeles mi arriva via Facebook la convocazione di una mobilitazione programmata per il 4 novembre alle 4 del pomeriggio, per “proteggere i risultati” delle urne qualora Trump li rifiutasse; e già qualche giorno fa un lungo articolo pubblicato dal Guardian offriva il decalogo dettagliato di una mobilitazione preventiva per dissuadere il presidente dal tentare il colpo di stato (sic). Trump intanto è in Michigan, uno swing state decisivo dove Biden è dato in vantaggio di 8 punti, e dal palco di un comizio soffia sul fuoco negazionista e complottista attaccando i medici e il personale sanitario, rei di conteggiare più morti di covid del dovuto per lucrare, non specifica come, duemila dollari a decesso. Passano poche ore e ad Austin, in Texas, i democratici annullano un comizio dopo che un pullman di seguaci di Biden viene assalito da miliziani trumpisti. E al 3 novembre, mentre scrivo, mancano ancora due giorni.

Lo scenario peggiore

Le televisioni italiane annunciano le maratone per la notte dello spoglio, servizi e commenti sulla campagna elettorale e le sue follie non mancano, eppure è come se l’eco della drammaticità del momento che tutti i miei amici americani mi rimandano stentasse ad arrivare fin qui, o se l’entità della posta in gioco sull’altra sponda dell’oceano non riuscisse a forare l’infodemia da covid in cui siamo immersi su questa. Può darsi che alla fine il rito elettorale riesca a “normalizzare” questa tutt’altro che normale sfida per la Casa Bianca: i sondaggi danno Biden in vantaggio anche nella maggior parte degli swing state (ma in alcuni in un vantaggio inferiore al margine di errore, e poi dei sondaggi dopo il 2016 nessuno si fida più); il ricorso massiccio al voto postale e anticipato sembra giocare a favore dei democratici (ma stanno aumentando le registrazioni repubblicane per il voto ai seggi); i millennial, già decisivi nel mid term, possono esserlo anche stavolta e votano per Biden; le donne bianche della suburbia che nel 2016 votarono in maggioranza per Trump stavolta sembrano decise a tradirlo (ma tra gli uomini, bianchi e neri, è ancora forte l’identificazione nel machismo del presidente); le cosiddette minoranze etniche, se solo riusciranno a superare i mille ostacoli di cui Trump ha seminato il loro diritto di voto, sono schierate per lo più con Biden.

Eppure nessun analista, negli Stati Uniti, esclude possa verificarsi il worst scenario(lo scenario peggiore) del presidente uscente che ricorre a ogni mezzo per delegittimare il risultato, a cominciare dalla sua già annunciata contestazione del voto postale e con la complicità delle norme statali eterogenee che regolano il conteggio, dei giudici federali da lui insediati in vari stati e della corte suprema definitivamente sbilanciata a suo favore dopo la nomina di Amy Coney Barrett. In questo caso (e con buona pace del tanto decantato modello in cui “la sera del voto si sa chi ha vinto e chi governa”), si aprirebbero settimane incandescenti di riconteggi, ricorsi, sentenze, durante le quali è facile prevedere che la società americana, polarizzata com’è grazie a Trump, non starebbe a guardare. E il mondo nemmeno.

In ballo nel worst scenario, attenzione, non sarebbe infatti solo il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca, né solo il funzionamento della macchina istituzionale e costituzionale degli Stati Uniti, bensì lo scivolamento della “crisi epistemica” dilagante nella società americana in crisi di credibilità dei fondamentali della democrazia. L’appannamento del confine tra vero e falso, fattuale e opinabile, realtà e reality, caso e complotto su cui Trump ha costruito tutta la sua retorica manipolativa e tutta la sua gestione negazionista del covid-19 travolgerebbe l’ultimo baluardo della democrazia liberale, cioè l’evidenza certificabile e inappellabile del voto. E non è difficile immaginare gli effetti di una tale lesione della già compromessa reputazione della democrazia occidentale a fronte delle dimostrazioni di efficienza di forme di governo autoritarie come quella cinese e non solo cinese.

La normalità impossibile


Hanno ragione dunque Biden e i suoi sostenitori a dire che la posta in gioco delle presidenziali, stavolta, è la democrazia. Ma sbagliano quando alludono alla democrazia americana come al “faro dell’occidente” manomesso da Trump (il Financial Times di qualche giorno fa), o quando si illudono che per lasciarsi alle spalle Trump basti ritrovare la normalità di prima di Trump. Dagli assalti populisti, lo sappiamo bene in Italia dall’esperienza di Berlusconi, la democrazia non si salva tornando a com’era prima: o fa un salto di qualità o si impantana in una deriva inarrestabile verso il peggio di prima. Come e più di Berlusconi, Trump non è (stato) un’anomalia rispetto alla retta via della normalità democratica, bensì un detonatore dei suoi limiti, un rivelatore delle sue contraddizioni accumulate, un imbuto delle sue correnti corrosive sotterranee. Il che rende quello del 3 novembre un passaggio più complesso di una liberazione istantanea da un presidente eccentrico, narcisista, sociopatico e bugiardo da dimenticare prima possibile. Si tratta piuttosto – lo spiega bene Luca Celada nel suo recentissimo Autunno americano (manifesto libri) – di una triplice resa dei conti: con i quattro anni del mandato di Trump, con quarant’anni di neoliberalismo, con quattro secoli di razzismo, nonché con non si sa quanti di patriarcato. Un reckoning a scatole cinesi, dove la congiuntura politica si innesta sulle carenze strutturali del sistema: “La miscela ideale di una tempesta perfetta”, che precipita con il trumpismo ma viene da più lontano.

Donald Trump a Green Bay, Wisconsin, 30 ottobre 2020. - Carlos Barria, Reuters/Contrasto
Donald Trump a Green Bay, Wisconsin, 30 ottobre 2020. (Carlos Barria, Reuters/Contrasto)

Gettata rapidamente la maschera del condottiero antisistema che aveva a cuore i forgotten della rust belt, Trump ha governato, da buon populista, evocando “il popolo” come entità omogenea per attizzarne di tweet in tweet ogni focolaio di divisione e di conflitto, etnico, sociale e culturale, titillando l’immaginario della guerra civile con il suo spalleggiamento dei “proud boys” contro Antifa (impressionante l’impennata della vendita di armi negli ultimi mesi). Non ha reindustrializzato il Midwest ma ha fatto gli interessi di Wall street e della upper class, sventolando fino allo scoppio della pandemia una piena occupazione fatta per lo più di precari ed essentials. Ha attaccato la radice del mito inclusivo del melting pot impiegando milizie speciali contro gli immigrati nelle “città santuario”, a supporto di una più articolata strategia amministrativa di riduzione della cittadinanza per le minoranze indesiderate. Ha vinto con lo slogan Make America great again ma dell’America ha accelerato il declino, usando il sovranismo in politica estera per isolarla dai suoi alleati tradizionali e affossare qualunque ipotesi multilateralista, in politica interna come una clava suprematista innestata sul razzismo strutturale della società americana. Infine e non ultimo, si è guadagnato l’oscar per la peggiore gestione occidentale della pandemia, trattandola non come una questione di salute pubblica ma come la posta in gioco di una guerra culturale fra libertarian no mask e criptosocialisti questuanti dell’assistenza statale.

Questo, in buona sostanza, il bilancio del mandato del presidente uscente. Ma il suo populismo non avrebbe sfondato senza il disfacimento del sociale, dello stato e della democrazia costituzionale già realizzato dal neoliberalismo, la sua gestione cinica della pandemia non sarebbe stata possibile senza il sostrato darwinista dell’etica neoliberale, il suo suprematismo non avrebbe offerto una soluzione al desiderio di revanche dei maschi bianchi desecurizzati dal declino demografico e dalla perdita di potere sull’altro sesso, senza il sostrato del razzismo di sistema che da sempre accompagna la storia americana come il rovescio oscuro del mito della frontiera, nonché come polizza assicurativa della produzione e della riproduzione capitalistica di gerarchie sociali inossidabili.

Non per caso del resto il discorso costruito in questi anni dai movimenti che sono stati la spina nel fianco del presidente – Black lives matter, il movimento a supporto di Sanders, le mobilitazioni femministe dalle Women’s march al #MeToo – non contesta solo il trumpismo degli ultimi quattro anni ma la storia ormai lunga dell’epoca neoliberale e quella ancor più lunga della conquista, della segregazione razziale e del patriarcato, pescando nello stesso immaginario politico che negli anni sessanta rese possibile la stagione più espansiva della democrazia americana. La nuova coalizione sociale che questi movimenti esprimono, all’insegna dell’intersezionalità tra classe, genere e razza, è la risposta più felice alla strategia sistematicamente divisiva con cui Trump ha polarizzato la società americana.

Il bivio postpandemico


Di questa nuova coalizione sociale non potrà fare a meno d’ora in poi nessuna politica che voglia rilanciare l’esperimento democratico americano e la valenza inclusiva che esso ha avuto nelle stagioni migliori della sua storia. Da qui passa perciò il futuro del Partito democratico, provvisoriamente tenuto insieme dalla soluzione-Biden ma impantanato non da oggi in un impossibile bilanciamento tra prospettive incomponibili, un bilanciamento divenuto impraticabile di fronte all’entità della crisi economica, sociale e politica in cui gli Stati Uniti sono stati precipitati dal combinato disposto del trumpismo e della pandemia. Come ha scritto poche settimane fa George Packer su Internazionale, ci sono crisi di una tale radicalità da richiedere svolte radicali al di là delle intenzioni dei giocatori politici in campo, e il rischio di tracollo del sistema americano oggi è tale da poter spingere perfino un centrista moderato come Biden a farsi portatore, o quantomeno traghettatore, di un nuovo New Deal. Che è quello che servirebbe per far rimbalzare anche sull’altra sponda dell’oceano, nell’estenuata sinistra europea, l’avvio di un nuovo ciclo riformista.

D’altra parte l’uscita dal trumpismo, se Trump uscirà di scena, dipende anche da quello che ne sarà del campo repubblicano dopo di lui. Esiti neofondamentalisti basati sul tradizionalismo dei valori, o neopopulisti basati sulla rappresentanza dei forgotten e dei loser bianchi, non sono da escludere (ne ha scritto sul New YorkerNicholas Lemann), ma da quelle parti c’è anche chi non da oggi pensa a un governo delle società postdemocratiche sulla base di una miscela moderatamente autoritaria di sorveglianza tecnologica e di meritocrazia delle competenze, mutuata dai modelli orientali.

Quello che abbiamo imparato noi dal trumpismo, intanto, è che non c’è un’uscita populista – tantomeno “populista di sinistra”, come parte della sinistra radicale ha voluto credere negli Stati Uniti e in Europa – dall’epoca neoliberale: populismo e sovranismo ne sono un effetto e una continuazione, con l’aggiunta di una curvatura disciplinare che il primo neoliberalismo non aveva, o nascondeva in forme più sottili. Questa curvatura disciplinare non è classicamente autoritaria né paradigmaticamente fascista, proprio perché incorpora il lascito neoliberale di un individualismo libertario – quello dei no mask, per intenderci – incompatibile con i precedenti autoritari novecenteschi. Ma comporta dosi massicce di classismo, razzismo, xenofobia e misoginia a loro volta incompatibili con una società democratica. Il bivio perciò è netto: da una parte una radicalizzazione del progetto socialdemocratico, dall’altra una tecnocrazia allineata con il capitalismo digitale. È il bivio di fronte al quale si trova la società postpandemica, negli Stati Uniti e in tutto l’occidente.

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L’ultima maschera del neoliberalismo

Pubblicato su Jacobin Italia n. 8, Autunno 2020

Sono riuscita ad andare negli Stati uniti lo scorso gennaio, un attimo prima che il coronavirus serrasse le frontiere del mondo globale e ci obbligasse a riscoprire le gioie – si fa per dire – della stanzialità locale. C’era già l’allarme in Cina, ma non in Europa né negli Usa: un solo caso di covid in California, dove ero diretta e dove nessuno, salvo gli asiatici, portava la mascherina, peraltro sold out dappertutto esattamente come in Italia, dove sono rientrata a metà febbraio. Da quel breve viaggio sono passati sei mesi che sembrano un secolo: non c’è una sola cosa che non si sia ribaltata nel suo contrario. Provo a mettere in fila i ricordi: gli aerei di andata e ritorno pieni zeppi, la macchina economica americana che girava al massimo col tre per cento di disoccupati, Trump saldamente in sella, il suo elettorato più convinto e fanatico di quattro anni prima, Sanders in ascesa alle primarie che ci faceva sognare anche in Europa una rinascita della sinistra, l’Oscar assegnato a Parasite, prima volta di un film non americano, che faceva sognare il quartiere coreano di Los Angeles. Sei mesi dopo, mentre scrivo, gli aerei si sono svuotati, gli Stati uniti sono sull’orlo di una catastrofe economica che è l’altra faccia della catastrofe sanitaria innescata dalla gestione demenziale della pandemia,  i disoccupati sono trenta milioni, Trump scende in picchiata nei sondaggi, la sua base sociale è incattivita, il conflitto razziale è esploso con l’assassinio di George Floyd, Sanders ha dovuto rinunciare alla sua corsa alla Casa bianca, rimpiazzato dal più rassicurante Biden,  proprio nel momento in cui la sua battaglia per la sanità pubblica avrebbe dovuto trionfare, Hollywood è paralizzata dai protocolli anti-Covid e solo Black Lives Matter salva il corpo e l’anima, l’eredità e il progetto del secolo americano che fu. Sul piano interno, quella che fu la più grande e gloriosa democrazia novecentesca è devastata da una crisi di identità che ne mette a rischio i valori portanti, e rischia una crisi costituzionale senza ritorno innescata dall’alto della Casa bianca. E sullo scacchiere geopolitico la promessa di make America great again si infrange su un andamento della storia che inesorabilmente pende a favore dell’egemonia cinese su ciò che del mondo globale sopravviverà al Covid.

Non è stato solo né prevalentemente il lavoro del virus: negli Stati uniti come in altre parti del mondo la pandemia ha consentito al capitalismo neoliberale di “naturalizzare” una crisi economica, sociale e culturale che ne stava erodendo dall’interno ogni premessa e ogni promessa. Ancora qualche appunto dall’ultimo viaggio, e dai penultimi: un tasso di contraddizione mai visto in una democrazia occidentale fra accumulo di ricchezza e vecchi e nuovi poveri marginali senza tetto né legge. Un mercato del lavoro saturo ma massimamente precarizzato, con gli essential massimamente sfruttati. La pluralità multietnica e multiculturale compromessa dalle politiche di respingimento, confinamento, discriminazione dei migranti e dall’eterno ritorno di un razzismo di sistema, più forte dopo “l’onta” della prima presidenza nera subita dai bianchi. Metropoli cariche di energia come New York ridotte, nel giro di pochissimi anni, a città-vetrina buone per la rendita immobiliare dei miliardari russi e cinesi.  L’isolamento come forma di vita antisociale nei suburb della middle class agiata, spontaneamente autoconfinatasi per evitare il contagio con le masse urbane. La performance competitiva come norma esistenziale nei college, ottemperata al caro prezzo del consumo compulsivo di alcool e psicofarmaci. Eccetera.

Ferite e paranoie

Non una di queste contraddizioni è stata alleviata, e tutte sono state scientemente e programmaticamente esasperate, dalla presidenza Trump, la più divisiva che la società americana ricordi.  A onta della sua retorica populista rivolta ai forgotten della globalizzazione, il tycoon ha fatto regolarmente gli interessi dei plutocrati, di Wall Street e  della upper class. Ha praticato il suo sovranismo dichiarando una guerriglia a base di dazi alla Cina e all’Europa che non ha provocato effetti positivi sull’economia americana né effetti di correzione dell’economia globale, e una guerriglia a base di accuse non provate contro la stessa Cina e l’Oms, rei di avere “infettato” il popolo americano, che non ha risparmiato alla sua amministrazione il primato per la peggiore prestazione occidentale nella gestione della pandemia: mentre scrivo siamo a più di 5 milioni di casi e di 200.000 morti, effetto e contrappasso dell’impasto, quintessenzialmente neoliberale, di darwinismo sociale e individualismo libertarian (e no-mask). Ha presieduto un’Unione federale accentuando i contrasti fra il governo centrale e gli stati democratici, fra città e campagna, fra coste cosmopolite e multietniche e hinterland bianchi e integralisti. Ha attaccato per il proprio tornaconto gli equilibri dello stato di diritto – i famosi pesi e contrappesi di cui la democrazia americana è andata fiera per un paio di secoli, ma che non hanno retto all’offensiva di un outsider autocratico: e come meravigliarsene in Italia, col precedente di Berlusconi? – violando le regole e nominando giudici di parte, e si appresta a tentare di far saltare il banco delle prossime presidenziali demolendo quello che resta della fiducia nella trasparenza del rito elettorale. Da buon populista ha evocato l’unità del popolo americano attizzando in realtà sistematicamente, di tweet in tweet,  ogni focolaio di divisione e di conflitto, etnico, sociale, culturale, per eleggere a “popolo” la propria parte,  radicalizzandone le pulsioni più aggressive – e consentendo talvolta finanche che si armassero, come nelle milizie “spontanee”  di fan del presidente, o militarizzandole istituzionalmente, come nei reparti speciali sguinzagliati contro i migranti e gli “irregolari”. E da buon sovranista  ha evocato la nostalgia di una sovranità perduta – dell’America sul mondo, del popolo americano sui propri destini, di ciascuno su se stesso, sull’altra  e sul diverso – innestandola sul recupero di una paccottiglia d’altri tempi, l’originaria pulsione suprematista bianca che da sempre, nella storia americana, accompagna il mito della conquista e dell’espansione a Ovest come il rovescio della trama della narrativa progressista dell’accoglienza e del melting pot.  

I risultati sono sotto gli occhi del mondo.  Lungi dall’arrestare il declino americano, il programma America First l’ha accelerato, minando al contempo qualunque prospettiva di governance  multilaterale del pianeta globale, e lungi dal proteggere il popolo americano dagli effetti della globalizzazione ne ha fomentato le paranoie e riaperto le ferite, prime di tutte la ferita del razzismo sempre ritornante, fino ad attivare l’immaginario politico della guerra civile, ipotesi periodicamente evocata in questi anni anche sui giornali mainstream. Niente meglio di “I can’t breath”, il grido terminale di George Floyd gemello della sindrome da Covid e diventato non per caso lo slogan dilagante di Black Lives Matter, rende meglio il senso di soffocamento che si è sostituito all’ariosità dell’American dream.

Tutto questo, sia chiaro, non è solo opera di Trump e del trumpismo. Come in altri paesi, la stretta sovran-populista ha avuto l’effetto di portare al pettine, ingarbugliandoli ulteriormente, tutti i nodi irrisolti di quarant’anni di egemonia neoliberale: nient’affatto  scalzandola, ma imprimendole una torsione disciplinare, se non autoritaria, e neoconservatrice, in una sorta di resa dei conti ultima e ultimativa che potrebbe essere, per la democrazia americana, senza ritorno.  Il che però, l’America essendo pur sempre  il luogo di riferimento dell’immaginario politico occidentale, ci porta a fare qualche considerazione di carattere più generale: de nobis fabula narratur.

Equivoci di una vittoria

Quando Trump fu eletto nello sconcerto del mondo e dei sondaggisti, non mancarono, nella sinistra radicale americana come in quella italiana, analisi tutto sommato rassicuranti della sua vittoria, vista come segnale inequivocabile di una crisi del e di una rivolta contro il neoliberalismo, che la sinistra non era stata in grado di intercettare e rappresentare e che trovava invece interpreti e leader a destra. A suffragare questa ipotesi, le prime analisi del voto che sottolineavano il contributo decisivo portato alla vittoria di Trump dal voto della Rust belt,  la cintura delle zone deindustrializzate  del Midwest, a sua volta segnale inequivocabile di un comprensibile e prevedibile  “tradimento” di classe: due volte forgotten, dalla globalizzazione e dalla sinistra neoliberale che si ostinava a magnificarne le sorti, ciò che restava della classe operaia si era girata dall’altra parte, dando fiducia al populista che le prometteva confini, protezione e  nuovi primati nazionali. Confortata da mappe analoghe del voto britannico che pochi mesi prima  aveva deciso la Brexit con l’apporto determinante dei ceti e delle aree marginali, ma corretta dalle più accurate analisi successive che evidenziavano il sostegno decisivo venuto a Trump dai suburb della middle classa agiata, questa lettura del voto americano non era priva di ancoraggi reali ma presentava alcuni limiti non poco fuorvianti.  In primo luogo, e sulla scorta di un vizio di economicismo sempre ritornante in ambito marxista, si basava sul primato della dimensione economico-sociale nei processi di soggettivazione politica,  tralasciando come meramente “culturali” altri fattori – razzismo, suprematismo bianco, machismo e sessismo, revanchismo – che si erano rivelati decisivi nella “seduzione” trumpiana dell’elettorato. In secondo luogo, e di conseguenza, presupponeva un “popolo” basato su questa sorta di evidenza “strutturale” dell’economico-sociale,  tralasciando di interrogarsi su quanto e come esso fosse costitutivamente attraversato e forgiato dai fattori “sovrastrutturali” di cui sopra, e dunque da linee di divisione e conflitto di razza e di genere oltreché di classe, e su che cosa questo comportasse per un discorso politico di sinistra che volesse riconquistarlo. In terzo luogo, e implicitamente, finiva col fidarsi dello stile populista di Trump (la stessa cosa è accaduta del resto in Italia con Salvini), assumendo che malgrado i suoi “eccessi” suprematisti, razzisti e veteropatriarcali fosse tutto sommato in grado di cogliere “la verità” del popolo e di esprimerne la volontà di cambiamento  protesta più e meglio di una sinistra mainstream definitivamente consegnata alla  religione neoliberale, e che avesse persino qualcosa da insegnare a una sinistra radicale imperniata sulla critica del neoliberalismo e della globalizzazione.

Illusioni populiste

Quell’analisi della vittoria di Trump ha avuto infatti la sua importanza nell’alimentare e corroborare la tesi teorico-politica del “momento populista”  che negli ultimi anni ha goduto di una certa fortuna nella sinistra radicale americana ed europea, come dimostra del resto egregiamente un recente numero di Jacobin Italia. Nella sostanza, questa tesi si basa su due assunti. Il primo è un assunto temporale: la crisi economico-finanziaria del 2008 è vista come un evento periodizzante che provoca contemporaneamente la crisi interna del e la protesta dal basso contro il neoliberalismo. Si apre di conseguenza – secondo assunto – una nuova configurazione e dislocazione del campo politico, attorno alla contraddizione fra politiche neoliberali (di destra e di sinistra) da una parte e sollevazione popolar-populista anti-neoliberale dall’altra: quest’ultima, prevalentemente capitalizzata da formazioni e leader di destra, potrebbe e dovrebbe tuttavia diversamente interpretata e rappresentata da sinistra. Il “momento populista” sarebbe dunque una congiuntura caratterizzata dalla costruzione – anzi dalla ricostruzione, dopo la sua distruzione neoliberale – di un popolo antagonista rispetto al neoliberalismo, differenziato nelle sue domande e nella sua composizione sociale ma unificato dalla condivisione del  conflitto basso vs alto e mobilitato dal discorso populista: il quale si colorerebbe di destra se accompagnato da una strategia nazionalista e xenofoba e da valori tradizionalisti, di sinistra se volto alla rivitalizzazione della democrazia, della rappresentanza, delle politiche di redistribuzione egualitaria e di welfare.

Le obiezioni che si possono – a e mio avviso si devono – portare a questa tesi  (sistematizzata da Chantal Mouffe e ispirata a un Laclau semplificato) sono più d’una. La più facile è che essa mette insieme e confonde,  sotto la fattispecie del populismo,  movimenti di rivolta dal basso e mobilitazioni del popolo dall’alto, dimenticando che la mobilitazione dall’alto di un popolo (costruito o presupposto) a opera di un leader è una condicio sine qua non del populismo, non riscontrabile nei movimenti di contestazione auto organizzati e acefali. Una seconda obiezione è che essa, anche qualora parta da una nozione desostanzializzata e differenziata di popolo, finisce col riproporre il dispositivo classico di reductio ad unum  che è costitutivo del popolo nel paradigma politico moderno, e col riattivare la classica sequenza popolo-rappresentanza-stato, che è precisamente la sequenza non da oggi in discussione in tutte le democrazie occidentali. Ma l’obiezione principale è a mio avviso un’altra, e riguarda l’analisi del neoliberalismo e del rapporto fra neoliberalismo e populismo che sottosta all’ipotesi del “momento populista” e della sua genesi temporale.

Come la migliore letteratura sulla crisi del debito ha argomentato, la tempesta economico-finanziaria del 2008 e seguenti non segna la crisi finale, ma una crisi evolutiva del neoliberalismo, che passa dalla sua prima stagione espansiva, dissipativa e libertaria basata sul dispositivo del credito e sull’etica del godimento a una seconda stagione restrittiva, austera, securitaria, basata sul dispositivo del debito e sull’etica della colpa. D’altra parte, non è solo a quella tempesta che si deve far risalire l’epidemia populista in occidente: come il laboratorio italiano dimostra inequivocabilmente, nelle democrazie occidentali la torsione populista della politica comincia assai prima (in Italia la Lega nasce alla fine degli anni 80, Berlusconi scende in campo nel ’94) e accompagna il lungo processo neoliberale di smantellamento della democrazia costituzionale, della rappresentanza e dei soggetti politici novecenteschi. Crucialmente, dunque, l’espansione del populismo è coestensiva al neoliberalismo, non alla sua fine; è il rovescio e non lo strappo della trama neoliberale, il suo prodotto e non la sua alternativa antagonista.   

E’ vero infatti che la crisi del 2008 e seguenti intensifica ed espande l’onda populista in Europa e la porta al governo negli Usa e altrove. Ma è falso che questa onda esprima di per sé una protesta anti-neoliberale. Il soggetto che nella seconda fase del neoliberalismo si consegna al populismo chiedendo protezione, confini, sicurezza, conferme identitarie,  primati di razza e di sesso,  sovranità è lo stesso soggetto individualista, proprietario, accumulativo e consumista che nella prima stagione cavalcava i vantaggi della globalizzazione armato dell’etica autoimprenditoriale e del principio di prestazione: solo che sotto i colpi della crisi è diventato impaurito e insicuro, rancoroso e revanchista. Non è un soggetto che combatte contro il capitalismo neoliberale; piuttosto si ribella al rischio di diventarne, appunto, un forgotten marginale.  E quel che più conta, non è un soggetto la cui condizione economico-sociale possa essere considerata a prescindere dai frames razzisti, xenofobi, suprematisti, veteropatriarcali che la incapsulano. Per la semplice ragione che questo suo, chiamiamolo così, spartito sentimentale è parte integrante del suo romanzo di formazione neoliberale, ed è il prodotto di dispositivi di soggettivazione strutturali, non accessori. Ragion per cui è del tutto illusorio pensare che questo soggetto possa essere disponibile alternativamente a un discorso politico di destra o di sinistra, a seconda dell’offerta disponibile sul mercato politico.  Il punto, casomai, è modificare radicalmente questa offerta, costruendo un discorso politico in grado di decostruire quei frames, di smontare quei dispositivi e di capovolgerli in altrettante leve di presa di coscienza e ribellione.  

Salto di paradigma

Questo spiega del resto, per tornare al caso americano, la centralità che nell’opposizione  a  Trump hanno avuto in questi anni i movimenti femministi e Black Lives Matter: l’uno contro il dispositivo strutturale che gerarchizza i ruoli di genere e mercifica la libertà femminile nel mercato sessuale e nel mercato del lavoro, l’altro contro il dispositivo strutturale che storicamente in America razzializza i rapporti sociali riproducendo le disuguaglianze necessarie al funzionamento della macchina capitalistica. Non più dunque movimenti single issue o orientati dalla politica dell’identità, bensì coalizioni composite che sotto l’insegna dell’intersezionalità puntano precisamente al cuore dei meccanismi incrociati di dominio, sfruttamento e gerarchizzazione che reggono il funzionamento del sistema e ne riproducono la base sociale divisa e frantumata. Movimenti portatori dunque di una carica controegemonica, non a caso paragonata da più parti a quella delle lotte che negli anni Sessanta ridisegnarono la società e il sogno americani, la sola forza in campo cui sembrano essere affidati oggi l’eredità e il rilancio del nocciolo inclusivo ed espansivo della democrazia più potente del mondo.

Ma se molto è nelle loro mani, ovviamente non tutto è in loro potere.  Quello che è mancato, manca e rischia di mancare nel prossimo futuro è una risposta del sistema istituzionale e politico all’altezza della sfida distruttiva lanciata da Trump. Se è vero che la sua presidenza ha portato alle estreme conseguenze tutte le contraddizioni accumulate dell’eccezionalismo  americano, occorre allora chiedersi quale è il dopo-Trump che si prospetta, ammesso che le elezioni lo destituiscano e che lui si faccia destituire.  I can’t breath: il mito americano non respira più. A intasarne i polmoni sono stati quattro decenni di religione neoliberale, la rivoluzione conservatrice di Reagan, le subalternità al sistema clintoniane, la saturazione a base di guerre e strette securitarie della ferita dell’11 settembre, gli ostacoli e l’eccesso di cautela che hanno depotenziato la forza simbolica del doppio mandato di Obama,  il backlash suprematista trumpiano; sotto e sopra tutto questo la smodata onnipotenza di Wall Street e le smodate ingiustizie della gig economy; e infine, a presentare il conto di tutto questo, il prevedibile imprevisto di un virus.

Ritrovare la fairness perduta, come recita il programma del tandem Biden-Harris, è necessario ma insufficiente, e potrebbe perfino rivelarsi impossibile dopo i guasti del trumpismo: che non è affatto riducibile a una “anomalia” – in questo i Dem americani sbagliano come sbagliarono i Dem italiani con il berlusconismo – essendo piuttosto un rivelatore dello stato del sistema. Tanto più dopo la prova della pandemia, ci vorrebbe precisamente quello che manca negli Usa – malgrado la cura ricostituente di Sanders, di AOC, del femminismo e di BLM  – tanto quanto in Europa: un’intelligenza riformatrice, come dopo il 1929 di là e dopo la seconda guerra mondiale di qua dall’Atlantico, capace almeno di delineare, se non di effettuare, un salto di paradigma. Un tempo si chiamava sinistra, un nome a cui oggi non corrisponde alcuna idea di un futuro plausibile. A destra invece la strada è già tracciata. Fatti fuori gli “eccessi” di Trump, la post-democrazia potrà finalmente cedere il passo a un disciplinamento tecnologico della società governato da un qualche leader moderatamente autoritario.  Il secolo americano a quel punto sarebbe davvero sepolto, e anche la lunga odissea dell’Atlantico, black e white.

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I doni di Rossana

Pubblicato il 21/9/2020 su Internazionale.it

Nella primavera del 1980 all’improvviso mi arrivò, non ricordo più bene tramite chi, una convocazione di Rossana Rossanda nella redazione del manifesto: vorrebbe fare due chiacchiere, mi dissero. Ero una perfetta sconosciuta, avevo scritto per il giornale quattro o cinque articoli in tutto, escluso che mi convocasse in base a quelli. Varcai il portone di via Tomacelli, dal centralino mi indicarono la sua stanza. Mi accolse col suo sorriso dolce e severo, mi disse che s’era incuriosita ascoltandomi in un seminario su donne e lavoro, parlammo un poco di questo e d’altro, poi mi guardò negli occhi e mi chiese perentoriamente: “Che cosa pensi di fare della tua vita”? Balbettai qualcosa senza dirle l’essenziale, cioè che mi sarebbe piaciuto lavorare con lei e che questo desiderio mi era venuto leggendo i suoi pezzi sul movimento del ‘77, i soli a coglierne sia pure in ritardo la natura e le ambivalenze, e quelli sul 7 aprile, i soli a denunciare la piega emergenzialista che la democrazia italiana stava prendendo (altro che lo stato d’eccezione da covid-19). Ma lei quel desiderio lo afferrò da sola. Di lì a poco mi ritrovai nella redazione dell’Orsaminore, un mensile femminista che Rossana stava progettando con altre amiche comuni, e due anni dopo in quella del Manifesto. Molto di quello che sono diventata lo devo a quell’incontro.

Quella fu la prima volta che la vidi. L’ultima è stata poco più di due mesi fa, prima di partire per l’estate, a casa sua, con Maria Luisa Boccia. Il lockdown ci aveva tenute separate, Rossana a Roma io no, e durante il lockdown lei aveva avuto un malore, poi risoltosi. “Come stai, Rossana?”. “Abbastanza bene, tutto sommato”. Non era vero. Non stava bene, il corpo affaticato, la voce flebile. Ma Rossana aveva mantenuto nella malattia, da quando un ictus le aveva limitato i movimenti ma non la lucidità, la stessa misura che aveva sempre avuto nel parlare di sé, mai un aggettivo sopra le righe. Del resto, si accendeva ancora non appena si parlava di politica. A settembre dobbiamo fare qualcosa, disse, questo paese non può andare avanti così. Progettammo fra il serio e il faceto questo qualcosa che ora che è settembre non faremo più. Ero preoccupata di non poterla vedere di nuovo per tante settimane, ma a fine agosto ho saputo che Doriana era riuscita a portarla al mare per un paio di settimane, e dal mare Rossana tornava sempre rigenerata; presto ci saremmo incontrate di nuovo. Invece no.

Il momento della fine è quello in cui più forte scatta la tentazione di appropriarsi di chi se ne va, e più forte si manifesta la sua inappropriabilità. Rossana lo sapeva benissimo, tanto da sottrarsi esplicitamente (lo scrisse in La perdita, con Manuela Fraire e Lea Melandri, 2008) al rito dell’esposizione funeraria, quando un corpo non ha più possibilità di replica allo sguardo altrui. Ognuno, ognuna ha la “sua” Rossana, ma Rossana non è di nessuno e la sua biografia resta di una singolarità assoluta, come assoluto, indomabile, è stato il senso della libertà che l’ha ispirata e che ha trasmesso a chi sapeva coglierlo. Suonerà strano, di questi tempi, questo connubio fra una libertà irriducibile e un’altrettanto irriducibile appartenenza comunista, eppure Rossana era questo connubio e questa eresia: non la postura intellettuale del pungolo critico che tutti sono disposti a riconoscerle, ma il vissuto in prima persona, passione e croce, di una contraddizione che se la forma-partito aveva reso impraticabile la forma-giornale rendeva invece feconda. Non si capisce niente dell’esperimento-manifesto – del manifesto secondo Rossanda almeno – se non si parte da questa passione della libertà, che ha consentito a chi l’ha condivisa di leggere il presente violando le certezze del partito preso e i criteri dell’informazione mainstream. Il contrario dell’ideologia, l’opposto del conformismo, l’inverso del minoritarismo: questa era Rossana e questo ci ha sfidate e sfidati a essere.


Non era una sfida facile, soprattutto per noi donne. Perché quello stesso senso forte della singolarità e della libertà la rendeva allergica a qualunque identificazione che potesse vagamente evocarle il fantasma del gregarismo, sì che più ti avvicinavi più lei si allontanava. E perché Rossana era una madre fragile ma potente come tutte le madri, ed esigente come poche soprattutto verso le sue simili, a maggior ragione da quando aveva visto nel femminismo un’irruzione di libertà che a sua volta la sfidava e la metteva in discussione (Le altre, 1989). Ma è stata una sfida generativa di posizioni culturali e politiche che altrimenti non sarebbero esistite nel panorama italiano, e che nello stesso manifesto non sono state prive di ostacoli e conflitti.

Due fra tutte: la difesa dello stato di diritto e del garantismo ai tempi dell’emergenza antiterrorismo negli anni ottanta, un precedente che nei novanta avrebbe impedito a “noi rossandiani” di cedere agli usi politici della giustizia che hanno accompagnato il crollo della cosiddetta prima repubblica e la parabola infelice della cosiddetta seconda. E l’interpretazione dell’89 e del ‘91, perché Rossana, che anche grazie al rapporto con K.S. Karol teneva sempre sotto osservazione i paesi dell’est europeo e aveva creduto nell’esperimento di Gorbačëv, come tutto il gruppo fondatore del giornale vide nel crollo del muro di Berlino e nel tracollo dell’Urss più il segno di un nuovo disordine geopolitico che quello della liberazione dal partito-stato che ci vedevano molti di noi. Fu il momento di massima divisione, nel giornale, fra la generazione dei fondatori e quella del ‘68: un altro conflitto sul senso della libertà. E a giudicare le cose col senno di poi, dopo trent’anni di trionfo neoliberale, avevano la vista lunga più loro di noi (Appuntamenti di fine secolo, scritto nel 1995 con Pietro Ingrao, è un libro da rileggere).

L’allontanamento di Rossana dal giornale comincerà pochi anni dopo e per altre ragioni – ma “allora sbagliai a non resistere”, mi aveva detto di recente – anche se diventerà definitivo solo nel 2012, lasciando in lei e non solo in lei il segno di una ferita non rimarginata. Bisognerà leggere la sua versione della vicenda del manifesto nel libro che aveva da poco licenziato – “ma non mi è venuto bene”, continuava a dirmi – e che comincia dove La ragazza del secolo scorso finiva. Mentre il “suo” secolo si chiudeva ingloriosamente in Italia e nel mondo, le cose della vita l’hanno strappata alla nostra quotidianità, perché Rossana aveva molto chiare le priorità dell’esistenza e non esitò un minuto a trasferirsi a Parigi quando le condizioni di Karol lo richiesero.

A lungo ci sono mancate le incursioni nella sua stanza di via Tomacelli dove le confidenze su amori e separazioni non erano meno frequenti delle discussioni politiche, le cene fra amiche (era un’ottima cuoca) dove si parlava di cinema e si litigava sul femminismo, lo stile inconfondibilmente novecentesco delle sue case (in affitto, non ne ha mai posseduta una) con i divani neri modernisti e le librerie bianche in perfetto ordine (“buttare le carte inutili fa parte del lavoro intellettuale”), le sue poche ma salde civetterie femminili (“non penserai che i capelli bianchi non abbiano bisogno di cura”), la sua inimitabile eleganza minimalista ante litteram, le piccole bugie depistanti che elargiva quando si ostinava a difendere l’indifendibile, gli snobismi che solo lei si poteva consentire (“ma questo Osama chi è, il più giovane dei Laden?” chiese per telefono da Parigi mentre noi ci affannavamo a chiudere l’edizione speciale sulle torri gemelle). Una volta, sarà stato a fine anni ottanta o poco dopo, l’accompagnai a Francoforte dove era stata invitata a tenere una lezione magistrale sul femminismo. Era sola sul palco, tailleur nero impeccabile e sciarpa bianca, al centro di un cono di luce che rompeva il buio tutt’intorno. In un’altra vita, pensai, sarebbe stata Greta Garbo.

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A chi giova il taglio della casta

Pubblicato il 15/9/2020 su Internazionale.it

L’ossessione della riforma della costituzione agita da quarant’anni il teatro politico italiano come l’ombra di Banco, un fantasma che non si materializza ma che come tutti i fantasmi non cessa di tornare e di essere evocato e invocato. Nel corso del tempo – dal sogno craxiano della “grande riforma” negli anni ottanta alla bicamerale di D’Alema nei novanta, dalla riforma di Berlusconi a quella di Renzi nei due decenni successivi – il fantasma ha assunto sagome diverse ma accomunate dalla stessa tendenza. Non si è trattato mai di proposte che rilanciassero o attualizzassero i princìpi e i diritti fondamentali della carta del 1948: per fare un esempio, a nessuno è mai venuto in mente di ridefinire che cosa significhi oggi, dopo mezzo secolo di neoliberismo, che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Si è trattato sempre, invece, di tentativi di riscrivere la seconda parte della costituzione puntando a una riduzione della rappresentanza, e dunque del ruolo del parlamento, a favore della decisione, e dunque del ruolo del governo (e del suo capo).

Questi tentativi sono stati sempre giustificati sulla base di una presunta necessità funzionale dell’ordinamento istituzionale, che copriva in realtà l’incapacità politica della classe dirigente di rappresentare e governare adeguatamente un paese attraversato da una lunga e complicata transizione, iniziata con la crisi della cosiddetta prima repubblica e tuttora senza approdo. La storia dei tentativi di revisione costituzionale è dunque la storia di una sorta di depistaggio: dalle responsabilità di una politica agonizzante e incapace di rigenerarsi a un supposto difetto originario della costituzione, progressivamente derubricata nel senso comune da legge fondamentale a norma disponibile alle convenienze della maggioranza di turno. È la storia dunque di un trucco, che il corpo elettorale è riuscito fin qui a sventare bocciando due volte per via referendaria, nel 2006 e nel 2016, le riforme che non si erano già arenate nell’iter parlamentare (solo una, quella “federalista” del titolo V, è stata confermata dal referendum del 2001: con i risultati che si sono visti in modo eclatante quest’anno, nella gestione della pandemia mal condivisa fra stato e regioni).

Senza correttivi all’orizzonte


Il 20 e il 21 settembre siamo di nuovo chiamate e chiamati a esprimerci su un quesito referendario che riguarda una riforma – bisogna darne atto ai proponenti – ben più limitata, che non nasce come le precedenti da una volontà prometeica di riscrivere tutta la seconda parte della costituzione ma si limita – correttamente, secondo la procedura legale di revisione prevista dall’articolo 138 – a modificarne un singolo punto, ovvero il numero dei componenti della camera e del senato stabilito nel 1963, riducendolo di un terzo. Solo apparentemente minimalista, questo “taglio” dei parlamentari non sarebbe scandaloso né pericoloso se fosse accompagnato da alcuni correttivi che invece non si vedono all’orizzonte: una legge elettorale proporzionale pura (che peraltro, essendo una legge ordinaria, potrebbe in futuro essere facilmente archiviata da parte di una nuova maggioranza), una ridefinizione dei regolamenti parlamentari, nuove modalità di selezione delle candidature nei partiti. In assenza di questi correttivi, il taglio quantitativo dei parlamentari diventa un taglio qualitativo della rappresentanza, che premia i partiti maggiori a scapito delle formazioni minori e alcune zone del territorio nazionale a scapito di altre (perlopiù meridionali, tanto per cambiare), diventando così lesivo del principio di uguaglianza. E d’altra parte non promette di avere alcuna ricaduta sui vizi di incompetenza, assenteismo, corruttibilità del ceto politico, mentre è prevedibile che ne incrementi senz’altro il gregarismo e la manovrabilità da parte dei vertici di partito e di corrente.

Il taglio dei parlamentari corona un trentennio di ideologia anticasta, antiparlamentare e antipolitica che ha già fatto sufficienti danni

Ci sono dunque ottime ragioni di merito per dire no a questo taglio. Ma c’è una ragione simbolica ancor più importante, che riguarda il segno e il senso complessivi della riforma, un segno e un senso nient’affatto funzionali bensì fortemente ideologici. Per il modo in cui è stato concepito e presentato – con annesso l’indigeribile corredo iconografico delle forbici che si abbattono sulle poltrone, quasi che il parlamento fosse un vecchio salotto da portare dal tappezziere invece che un’istituzione da salvaguardare – il taglio dei parlamentari sintetizza e corona un trentennio di ideologia anticasta, antiparlamentare e antipolitica che ha già fatto sufficienti danni a questo paese (e non solo a questo: prima di andare a votare sarebbe una buona idea dedicare qualche minuto di riflessione agli Stati Uniti di Trump).

È l’ideologia populista del Movimento 5 stelle e della Casaleggio associati, che notoriamente considerano la democrazia rappresentativa un vecchio arnese novecentesco rimpiazzabile con la conta dei like e con i sondaggi della piattaforma Rousseau; ma non è solo dei cinquestelle, che a essere precisi ne sono più figli che padri, più effetto che causa. La favola risale piuttosto alla retorica che ha accompagnato all’inizio degli anni novanta la stagione di tangentopoli e Mani pulite, scaricando sul solo ceto politico la responsabilità della corruzione del sistema ed esentandone il parimenti coinvolto ceto imprenditoriale; è stata subito dopo la colonna sonora della discesa in campo e del successo di Silvio Berlusconi in quanto “imprenditore prestato alla politica” ma estraneo al ceto politico; e ha avuto nel corso del tempo molte fonti e molti sponsor, economici e mediatici, incluso il bestseller La casta scritto nel 2007 da due firme di punta del principale quotidiano italiano, che quella favola ha contribuito non poco a metterla in forma, legittimarla e divulgarla.

Come tutte le ideologie di successo, anche questa ha fatto ovviamente leva su alcuni dati di realtà, nella fattispecie l’evidente e progressivo deterioramento della qualità politica, intellettuale e morale dei nostri rappresentanti; ma come tutte le ideologie di successo ha avuto anche l’effetto performativo di accentuare questa decadenza piuttosto che frenarla. Di più: ha funzionato, e rischia ancora di funzionare, come una potente arma di distrazione di massa sia dalle ragioni strutturali della crisi della rappresentanza nelle democrazie contemporanee, sia dall’analisi delle vere caste che ovunque la alimentano e ne traggono vantaggio: le oligarchie economiche, finanziarie, manageriali che fanno girare profitti e dividendi, le burocrazie delle istituzioni sovranazionali, i grandi gruppi editoriali che controllano l’informazione e la comunicazione, le agenzie che sovrintendono alla ricerca scientifica e tecnologica e alla distribuzione diseguale dei suoi risultati. L’articolata galassia dei poteri forti e fortissimi nati, cresciuti e solidificatisi sotto il cielo del neoliberalismo, che hanno tutto l’interesse a depotenziare la democrazia liberale e le sue istituzioni e a sostituirsi alla sua delicata struttura rappresentativa.

Struttura tutt’altro che perfetta, come ben sanno i movimenti, femminismo in primis, che dagli anni settanta in poi ne denunciano i limiti dando vita a pratiche politiche più corrispondenti a esigenze di democrazia diffusa e partecipata. Oggi però la critica, anzi l’affossamento, della rappresentanza non ha questo segno espansivo di allargamento e radicalizzazione della democrazia, bensì il segno inequivocabilmente oligarchico del suo restringimento. Dire di no alla favola populista del taglio della casta è un primo passo per rimettere la questione della crisi della politica, della rappresentanza e della democrazia sui suoi binari giusti, e magari cominciare a prospettare soluzioni e vie d’uscita più credibili.

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Gli effetti collaterali della legge Zan

Pubblicato su Internazionale.it il 3 agosto 2020

Pochi giorni fa Alexandria Ocasio-Cortez, deputata democratica al congresso americano e star della sinistra radicale, è stata ingiuriata da un collega repubblicano, Ted Yoho, con epiteti del tipo “disgustosa, pazza, fuori di testa, fottuta puttana”. Storia di ordinaria misoginia, non fosse per il luogo istituzionale dove si è consumata, la scala del Campidoglio, e per la sfacciataggine con cui il nostro si è poi “scusato” in aula, sostenendo che in quanto buon marito e buon padre di famiglia non aveva certo inteso offenderla, e spingendo Ocasio-Cortez a fare un memorabile intervento sui discorsi d’odio (hate speech) maschile come fenomeni non incidentali ma strutturali della società americana, sostenuto da un intero e collaudato sistema di potere e di complicità.

Ripreso da tutti i mezzi di informazione anche in Italia, l’episodio ci dice due cose. La prima: a tutte le latitudini la violenza – verbale e non solo verbale – contro le donne, nonché contro gay, lesbiche, transessuali e altri “irregolari”, è un problema culturale di sistema e richiede strategie di contrasto sistematiche. La seconda: a tutte le latitudini l’efficacia della risposta dipende da molti fattori, per primi la forza, la visibilità e l’autorevolezza della vittima di turno o di chi per essa, ovvero della rete di sostegno su cui può contare. Una legge non basta, né a scoraggiare chi la violenza la agisce né a tutelare chi la subisce: ci vuole altro e questo altro, dice da sempre il femminismo che infatti una legge contro la misoginia non l’ha mai chiesta, si chiama pratica politica. Naturalmente, una legge può aiutare: a stigmatizzare la violenza, a punirne l’attore e risarcirne la vittima. Ma non è tutto, e può essere perfino un alibi per non fare l’essenziale, che viene prima e va oltre la legge.

Stupisce che di questa eccedenza dalla legge delle questioni che hanno a che fare con il sesso, o come si dice adesso con il sesso e con il genere, non ci sia traccia nella pur accesa discussione che sta accompagnando l’iter del disegno di legge Zancontro la omotransfobia, estesa in corso d’opera alla misoginia. Eppure proprio la consapevolezza di questa eccedenza ha consentito in passato al movimento femminista di ottenere dei buoni compromessi sul piano legislativo, per esempio nel caso della legge sull’aborto e di quella sullo stupro. Compromessi in grado di creare un minimo comun denominatore fra posizioni inizialmente distanti, senza saturare lo spazio dell’iniziativa politica extragiuridica.

Pare a me invece che oggi, e non da oggi, l’urgenza della soluzione giuridica dei conflitti attinenti al sesso-genere esaurisca l’operato di tutti gli attori in campo: di un parlamento ignaro della complessità della materia, che al meglio ragiona solo in termini di vittimizzazione e di risarcimento penale dei soggetti da tutelare e al peggio sventola valori tradizionalisti e reazionari; e di movimenti caratterizzati da una segmentazione identitaria assetata di riconoscimento giuridico-istituzionale. Una situazione che certamente è figlia di lunghi processi di trasformazione politica e sociale, ma che non necessariamente porta a un buon uso del diritto, anzi.

Tutele e uguaglianza


Veniamo infatti al disegno di legge Zan, che dovrebbe approdare nell’aula della camera dopo aver esaurito l’esame in commissione. Questa legge, si dice, colma un vuoto: nomina e riconosce gay, lesbiche, transessuali come soggetti particolarmente vulnerabili, dunque meritevoli di una tutela specifica, e codifica come specifiche fattispecie di reato la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (casistica poi allargata anche al sesso e al genere), aggiungendole alle analoghe fattispecie su base razziale, etnica e religiosa previste dalla legge Mancino. L’intenzione, ovviamente del tutto condivisibile, è antidiscriminatoria ed egualitaria, e punta a realizzare “quella pari dignità che la costituzione riconosce a ciascuna persona”, oltre che ad allineare la legislazione italiana ad una risoluzione contro l’omotransfobia del parlamento europeo.

C’è da chiedersi tuttavia, ed è il punto generale di politica del diritto che questa legge solleva, se per raggiungere questo scopo egualitario sia più efficace introdurre di volta in volta nell’ordinamento norme antidiscriminatorie specifiche riferite a specifiche categorie di soggetti, o rafforzare principi e norme di carattere generale generalizzando, appunto, le esigenze e le pressioni di questi soggetti specifici. Sono due strade diverse: l’una, potremmo dire, di particolarizzazione dell’universale, l’altra di universalizzazione del particolare. Il disegno di legge Zan sceglie la prima strada; ma sarebbe (stata) percorribile anche la seconda, ad esempio, com’è stato suggerito, limitandosi a introdurre nel codice penale un’aggravante per gli atti lesivi della dignità della persona (tutte le persone, senza ulteriori specificazioni). La strada prescelta però non è priva di effetti collaterali, come il dibattito in corso sta dimostrando, in parlamento e fuori.

Se si procede in direzione dell’uguaglianza identificando e categorizzando delle differenze – nel nostro caso, quelle delle persone gay, lesbiche, transessuali – l’esito inevitabile è quello di un’ulteriore moltiplicazione differenziale e identitaria delle domande di riconoscimento, inevitabilmente accompagnata da altrettante denunce di esclusione e misconoscimento. L’iter della legge Zan lo dimostra già di suo: all’omotransfobia, e ai comportamenti discriminatori basati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, sono stati aggiunti in corso d’opera la misoginia e i comportamenti discriminatori basati sul sesso e sul genere, includendo così le donne fra i soggetti da tutelare, ma aprendo al contempo divisioni nel campo femminista, fra chi è favorevole a questa inclusione perché ritiene che le discriminazioni in questione abbiano tutte la stessa radice eteronormativa e chi invece ritiene che essa riduca le donne al rango di una minoranza fra le altre.

D’altra parte il meccanismo della moltiplicazione delle tutele presta il fianco alle critiche strumentali della destra. La quale è dominata da un’unica ossessione e da un unico fantasma: l’ossessione, effettivamente fobica, dell’“invasione” gay e trans, mina vagante per le sorti della famiglia “normale” e della norma eterosessuale, e il fantasma della “ideologia del gender”, sinonimo di relativismo, individualismo, edonismo e quant’altro. Ma ha buon gioco a diluire questa ossessione e questo fantasma in una valanga di emendamenti che aggiungono altri comportamenti da sanzionare e altre categorie da tutelare a quelli previsti dal testo: atti discriminatori basati sulla disabilità, sull’età, sull’aspetto fisico, sulle caratteristiche estetiche (c’è perfino un emendamento che nomina la calvizie e la canizie), sulle condizioni economiche e sociali; e la categoria delle coppie eterosessuali, perché, come ha sostenuto in commissione un esponente della Lega senza che nessuno gli ridesse in faccia, “io mi sento sotto attacco in quanto etero e nella legge bisogna introdurre tutele contro l’eterofobia e la famigliofobia”. La norma eterosessuale e la normalità familiare diventano così, con uno di quegli abili rovesciamenti in cui la destra è maestra, minoranze da difendere dall’attacco di altre minoranze, vittime di altre vittime trasformate in oppressori, araldi della libertà di espressione conculcata dalla nuova norma del “politicamente corretto”.

Lessico politico e lessico giuridico


Una sorta di gara fra “opposti vittimismi”, come l’ha definita Letizia Paolozzi, che penetra purtroppo anche il dibattito femminista, anche se lungo discriminanti diverse da quella destra-sinistra. Come abbiamo visto, il testo del ddl Zan elenca e allinea come atti discriminatori e violenti da sanzionare quelli basati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Vengono così per la prima volta trasferiti e cristallizzati in un documento giuridico termini prelevati dal lessico teorico-politico femminista e lgbtq+. Ma mentre nel dibattito teorico-politico si tratta di termini mobili e porosi, spesso controversi e comunque sempre aperti all’interpretazione, alla contestazione e alla negoziazione, trasposti nel linguaggio giuridico gli stessi termini si irrigidiscono e diventano normativi e divisivi.

La distinzione fra sesso (come dato biologico) e genere (come costruzione culturale) ad esempio, netta e basilare nel femminismo anglofono, non è tale in quella vasta area del femminismo radicale italiano che lavora piuttosto sulla risignificazione politica della differenza sessuale, a sua volta intesa come interfaccia fra natura e cultura. E l’espressione “identità di genere”, che si riferisce al genere a cui le persone trans sentono di appartenere a prescindere dal sesso di nascita, per quanto sia entrata a far parte del linguaggio giuridico internazionale non può non suscitare qualche perplessità quantomeno sul piano concettuale: a me pare che contraddica nell’uso stesso del termine “identità” la fluidità che vorrebbe esprimere. Sono questioni aperte, in Italia e altrove, che rinviano alla composizione e all’articolazione dei movimenti femministi e lgbtq+, e dovrebbero restare affidate al libero gioco politico della soggettività, delle alleanze, dei conflitti, del rapporto necessario fra le pratiche e i posizionamenti teorici.

La loro codificazione, viceversa, da un lato costringe la scena istituzionale a confrontarsi con un lessico ancora instabile e per molti oscuro (quanti parlamentari sono in grado di esprimere un voto in scienza e coscienza sulla sequenza “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere”?), dall’altro lato rischia di avere un effetto regressivo sulla galassia sociale a cui si rivolge. Malgrado la suddetta sequenza voglia essere la più larga e inclusiva possibile, e malgrado si riferisca alla definizione degli atti da sanzionare e non dei soggetti da tutelare, quello che ha prodotto finora è un effetto di segmentazione identitaria della galassia femminista e lgbtq+. Dove le questioni aperte di cui parlavo prima si trasformano in definizioni chiuse, quando non in reciproche scomuniche.

Si sono infatti fin qui fronteggiati da una parte un femminismo preoccupato che l’identità basata sul genere dichiarato si sostituisca all’identità basata sul sesso biologico, con la conseguenza di una “dissoluzione della realtà dei corpi femminili”, nonché di una nuova e paradossale forma di discriminazione e tacitamento delle donne e del femminismo che rivendicano l’importanza dell’impronta biologica sulla costruzione del soggetto (si vedano i casi delle accuse di omotransfobia rivolte alla scrittrice J. K. Rowling e alla filosofa Sylviane Agacinski). Dall’altra parte un femminismo che nella legge Zan, e nella sequenza sesso-genere-orientamento sessuale-identità di genere, non vede nulla di problematico e registra anzi un passo avanti, il più inclusivo possibile, “verso la garanzia di uguali libertà per tutte e tutti”. Infine, e su questa stessa stessa onda, un “femminismo e transfemminismo”, che accusa il femminismo critico verso la legge di voler affermare “il falso biologismo” di un’identità femminile anatomica contro le identità di genere (che invece, mi chiedo, sarebbero “vere”?), di escludere le persone transessuali e di essere alla fine “l’altra faccia della medaglia” dei movimenti no-gender di destra.

Derive antipolitiche


Qui non intendo entrare nel merito di queste posizioni, né fare lo slalom fra quello che di ciascuna mi parrebbe da accogliere o da respingere. Eviterò dunque di argomentare perché a mio modesto avviso la prima posizione vede bene il rischio degli effetti collaterali della legge Zan, pur scivolando effettivamente in un certo biologismo; o perché la seconda si fidi troppo del linguaggio giuridico progressista tralasciandone gli effetti performativi sui movimenti; o perché la terza sia viziata da un pregiudizio contro il femminismo della differenza, radicato più nell’accettazione passiva delle tassonomie del femminismo anglofono che nella conoscenza effettiva di quello italiano.

Eviterò anche di esplicitare che effetto mi fa apprendere (scusate il ritardo) che noi femministe radicali siamo ormai classificate ed etichettate come “transfem” o “terf” a seconda della presunta inclinazione inclusiva o escludente verso le transessuali. Eviterò tutto questo per non cadere nella trappola in cui invece tutte queste posizioni cadono, e che a me sembra la vera trappola della legge Zan: quella di incoraggiare – essendone peraltro e al contempo un prodotto – la deriva verso la frammentazione identitaria già presente nella galassia femminista e lgbtq+, deriva a mio avviso pericolosamente antipolitica, che ripercorre una strada già rivelatasi senza uscita nel femminismo americano e dalla quale l’originalità del femminismo italiano ci aveva a lungo preservate (si veda in proposito il fondamentale libro della filosofa americana Linda Zerilli Feminism and the abyss of freedom, a cui la rivista Soft Power ha dedicato tempo fa un ampio approfondimento).

Questa deriva consiste nel concepire il soggetto femminista come una somma algebrica – più o meno inclusiva o più o meno escludente – di identità sociali differenti, certificate non si sa come se non sulla base di astrazioni teoriche o giuridiche, piuttosto che come una costruzione politica basata su pratiche condivise. Prima fra tutte la pratica del partire da sé, pratica che di suo è aperta a chiunque perché volta a dare voce a chiunque sulla base di un desiderio di condivisione dell’esperienza e non di un’identità rivendicata o certificata; e che di suo è generatrice di relazioni, alleanze, coalizioni nonché conflitti, ma motivati da ciò che si fa, non da ciò che si è o si afferma di essere; da ciò che di inedito e imprevisto si mette al mondo, non dal bisogno di riconoscimento da parte del mondo com’è e delle sue leggi, buone o cattive che siano. Questa modalità politica di costruzione del “noi” femminista è ciò che oggi a me pare messo a rischio dalle diatribe identitarie, ed è ciò a cui invece non possiamo rinunciare, né che possiamo sacrificare a pur sacrosante sanzioni legali di comportamenti inaccettabili e a pur comprensibili istanze di riconoscimento giuridico e istituzionale.

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