Realismo politico e politica surreale

(Pubblicato sull’Huffington Post l’11 ottobre 2017)

È francamente imbarazzante lo zelo con cui alcuni opinionisti e conduttori televisivi stanno cercando di derubricare, in nome di un supposto realismo politico, la gravità procedurale e sostanziale dell’imposizione del voto di fiducia sulla legge elettorale. Il mantra realista recita come segue: una legge elettorale ci voleva; meglio questa che niente; sul metodo si può chiudere un occhio anzi tutti e due.

A nulla vale, di fronte a tanta programmatica cecità, ricordare e ribadire che il metodo, in politica, è sostanza; che un cattivo metodo non produce mai buoni fini; che il continuo strappo emergenziale sulle regole e le procedure democratiche basilari non può che sfigurare sempre più la nostra democrazia; che un parlamento costretto a votare continuamente contro le sue stesse prerogative non è un parlamento. Ancor meno vale aggiungere che se è vero che una legge elettorale andava pur fatta, è altrettanto vero che non andava fatta – lo dice anche la famosa Europa che si sta a sentire solo quando conviene – un attimo prima della scadenza della legislatura sulla base di uno sfacciato computo degli interessi di alcuni partiti contro altri. Con l’aria che tira, queste obiezioni vengono liquidate tutte come formaliste a fronte della filosofia pragmatica e “realista” del Pd e dei suoi attuali complici.

Stiamo dunque a questa rivendicazione di realismo, e domandiamoci che cosa implicherebbe una prospettiva effettivamente realista in un paese come l’Italia. Un paese dominato fin dal ’94 da un’ideologia ferocemente antipolitica installata al cuore, non ai margini o all’esterno, del sistema politico; amareggiato da sentimenti di impotenza e delusione verso un ceto politico considerato nel suo insieme corrotto, autoreferenziale e poco rappresentativo; congelato in una distanza ormai siderale fra istituzioni e società. Un paese che in queste condizioni esprime un’opposizione a sua volta rigida e autoreferenziale, ma non priva di ragioni né di radicamento sociale, come quella del Movimento 5 stelle. Un paese, infine, che chiamato a esprimersi meno di un anno fa sul proprio assetto costituzionale e istituzionale ha dato un’indicazione inequivocabile, contro un’ulteriore verticalizzazione del comando e un’ulteriore espropriazione della rappresentanza e del ruolo del Parlamento.

In un paese così, “realismo politico” vorrebbe dire in primo luogo cercare di sanare lo scollamento fra istituzioni e società, e corrispondere alla sensibilità collettiva che il 4 dicembre scorso – e non solo allora: chi si ricorda la stagione referendaria del 2011, annegata nel rigor mortis del governo Monti? – ha chiesto e chiede partecipazione, rappresentanza e qualità della democrazia. Se a questo sentimento collettivo si risponde invece con l’ennesima legge elettorale che allestisce un parlamento di nominati, con l’ennesimo schiaffo alle prerogative del parlamento, con l’ennesimo gesto strafottente di accentramento della decisione, con l’ennesima negazione del significato del 4 dicembre, questa risposta non è realista: è surreale.

Ha perfettamente ragione infatti Alessandro De Angelis quando legge nel “Rosatellum bis” un accordo per l’autoconservazione del sistema contro le “turbolenze” – M5s e sinistra – che potrebbero disturbarlo. Ma anche qui c’è pochissimo realismo. Se non altro la lezione della crisi che non ci siamo ancora lasciati alle spalle dovrebbe avere insegnato alla politica ricalcata sulla finanza che le turbolenze, quando vengono messe sotto il tappeto, rispuntano da un’altra parte. Più forti, e più insidiose.

Informazioni su Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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