Femminicidio, la strada sbagliata

L’omicidio efferato di Fabiana Luzzi, 15 anni, da parte del suo fidanzato coetaneo a Corigliano Calabro, così come la sospetta istigazione al suicidio di Carolina Picchio, 14 anni, da parte di un gruppo di suoi compagni coetanei a Novara, dicono chiaro chiaro che sul cosiddetto femminicidio stiamo prendendo la strada sbagliata. Inutile mettersi a fare leggi, firmare convenzioni internazionali e allestire task force governative senza interrogarsi sulle radici profonde di questa guerra all’esistenza femminile, di questa deriva rovinosa della crisi d’identità maschile, della rottura del patto di civiltà che c’è sotto. Tutto il resto è pubblicità.
 

Informazioni su Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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8 risposte a Femminicidio, la strada sbagliata

  1. Si e’ alzata la soglia di tolleranza della violenza fra i giovani e nella nostra societa’.La battaglia deve essere culturale, per l’educazione affettiva, basata sul consenso e sulla gestione del conflitto,nelle relazioni sentimentali. E’ necessario fare prevenzione a partire dalla scuola e dalla famiglia; formare le FO a cogliere i primi segnali di escalation conflittuale; aprire servizi di intervento e trattamento per stalker, per giovani e uomini violenti.

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  2. “Tutto il resto è pubblicità”
    Cara Ida, chiudi con una frase apparentemente provocatoria una breve riflessione che mi trova pienamente e vivamente in accordo.
    Per riuscire nella nostra battaglia, che è una battaglia non tanto “culturale” quanto di civiltà, non basta la repressione. Occorre anche quella, e occorrono leggi inequivoche finalmente e concretamente coniate attorno al punto di vista femminile. Ma la repressione da sola non estirpa il male, tenta solo di arginarlo e di confinarlo. Rischia perfino di alimentarlo, per la vecchia legge sociale della violenza che genera violenza.
    Occorre come dici tu, con il sostegno sostanziale di Laura, “tagliare le radici”, occorre agire sulla RIPRODUZIONE del modello, e sulla educazione, aree in cui noi donne abbiamo molte responsabilità e di conseguenza anche possibilità di agire.
    Lo so che di fronte a certi fatti questo discorso di “prevenzione” appare come un “pensiero debole”, e presso molte di noi la paura inizia a ribollire generando bisogno di protezione, e anche di reazione violenta contro gli autori materiali di quesi fatti.
    Ma cerchiamo di rimanere salde, nei nostri principi, e non lasciamoci attrarre in questo gioco perverso: rammentiamo sempre che quei criminali, o imbecilli, o poveri di spirito non sono che gli strumenti di cui la nostra società affluente e un profondissima crisi si serve per esprimere una malattia che alligna profondamente nei suoi tessuti. È in questi tessuti che occorre affondare il bisturi, e non limitarci a estirpare le pustole purulente superficiali, se il nostro obbiettivo finale (utopistico?) è la salute. E ricordiamo che il femminicidio è solo il punto d’arrivo di un lungo penoso percorso, che parte dal colpo di clacson importuno indirizzato per strada alla ragazza in short e tacco 12, all’apprezzamento pesante sibilato dietro le spalle…
    È difficile, è faticoso, è lungo, è fastidioso anche. Ma inevitabile. Usciamo dalla inciviltà del potere e cerchiamo di aviarci verso una civiltà del rispetto.

    Grazie per lo spunto, importantissimo!

    Marianna Piani

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    • idomini ha detto:

      grazie MArianna. tornerò presto sull’argomento. ma intanto: siamo davvero sicure della linea di continuità che tu tracci fra il commento importuno al tacco 12 e l’assassinio di una donna? io non ne sono affatto sicura. e non sono sicura che ci aiuti vedere violenza in ogni cosa. ma ne riparliamo, un abbraccio, i.

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      • Cara Ida,
        Grazie della risposta, o del feedback, come direbbero gli informati(ci)…
        Guarda, quello che tu segnali è un argomento delicatissimo, lo so.
        Io non sono un’analista, una giornalista o una sociologa, sono una donna e basta, in questo dibattito. Svolgo un mestiere para-artistico, e perciò forse ho sviluppato delle antenne di sensibilità, se vuoi, più esposte, ma tutto qui.
        Lo so che il mio è un concetto estremo, volutamente provocatorio. So bene che, come si dice, ce ne corre. Ma, appunto, in questo modo di dire c’è già una possibile risposta: “ce ne corre”, vale a dire sottintendiamo lo scorrere di un rigagnolo, che può perfino intenerire quand’è tale (io da donna non spiacevole a vedersi, e per di più con il vizio del tacco lungo e della gonna corta, ammetto di sentirmi anche, come dire, infastidita/lusingata quando qualche maschietto sente il bisogno di esprimere certi suoi turbamenti nel vedermi), ma che scorre, appunto, e diviene fiume, gonfiarsi minaccioso, e può tracimare, e recare morte e distruzione, a valle…

        Grazie ancora dell’ospitalità, un abbraccio, con grande stima e amicizia

        Marianna

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      • idomini ha detto:

        grazie a te, a presto, i.

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  3. Hans Suter ha detto:

    Forse da qui si dovrebbe partire:
    “The traditional family structure, Firestone argued, was at the core of women’s oppression. “Unless revolution uproots the basic social organization, the bi
    ological family—the vinculum through which the psychology of power can always be smuggled—the tapeworm of exploitation will never be annihilated,” Firestone wrote. She elaborated, with characteristic bluntness: “Pregnancy is barbaric”; childbirth is “like shitting a pumpkin”; and childhood is “a supervised nightmare.” She understood that such statements were unlikely to be welcomed—especially, perhaps, by other women. “This is painful,” she warned on the book’s first page, because “no matter how many levels of consciousness one reaches, the problem always goes deeper.” She went on:
    Feminists have to question, not just all of Western culture, but the organization of culture itself, and further, even the very organization of nature. Many women give up in despair: if that’s how deep it goes they don’t want to know. 

    But going to the roots of inequality, Firestone believed, was what set radical feminism apart from the mainstream movement: “The end goal of feminist revolution must be, unlike that of the first feminist movement, not just the elimination of male privilege but of the sex distinction itself: genital difference between human beings would no longer matter culturally.””

    http://www.newyorker.com/reporting/2013/04/15/130415fa_fact_faludi

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