Premessa. Voto no con convinzione a una riforma della Costituzione che considero sbagliata, il cui cuore sta a mio avviso in un rafforzamento dell’esecutivo e del premier a spese del parlamento e della rappresentanza, in un accentramento neo-statalista a spese delle istituzioni territoriali, in una lesione del diritto di voto dei cittadini, e il cui senso sta nel ribadimento del mantra neoliberale della governabilità, della stabilità e della riduzione della democrazia che ci bombarda – altro che innovazione! – da più di trent’anni. Ma non è sulle ragioni del mio no, già esposte abbondantemente altrove, che voglio tornare qui, bensì sulle due diverse campagne referendarie che ho visto in queste settimane. Più che diverse, anzi, irriducibili, se non incompatibili.
Prima scena, gli incontri organizzati da varie associazioni, centri sociali, sedi di politica dal basso – Il Centro studi per la riforma dello Stato, la rete “Decide Roma”, il Teatro Rossi occupato di Pisa – nonché da alcune università e da alcuni circoli di Sinistra italiana, all’estremo nord e all’estremo sud della Penisola. Incontri contenuti, nei numeri – una media di ottanta persone – e nei tempi – mai più di un’ora e mezza, introduzioni di quindici-venti minuti, il minimo necessario per analizzare la riforma, darne il senso, inquadrarla nel suo tempo politico e storico, e soprattutto calarla nei contesti di vita; o per discuterne attraverso gli svariati libri, saggi, pamphlet che le sono stati dedicati. Molto desiderio di informarsi e capire, ascolto sempre attentissimo; soprattutto, un’immediata capacità di valutare l’impatto della riforma sulle vite, sui diritti di ciascuno/a, sulla tutela dell’ambiente e della salute, sulle pratiche di partecipazione e di autogoverno.
Ancora, la sensazione che la Costituzione ha sempre giocato dalla parte dei più deboli, per quanto i più forti abbiano sempre fatto di tutto per svuotarla e non attuarla; e dunque una diffidenza guardinga per l’euforia del cambiamento che accompagna i vari endorsement dei potenti per il sì. Infine, ma non ultima, la consapevolezza precisa, fra i più giovani, che la marcatura della riforma costituzionale è una marcatura neoliberale, perché la de-costituzionalizzazione delle nostre democrazie è il progetto politico del neoliberalismo, e perché c’è un filo che tiene insieme questa riforma, il jobs act e il pareggio di bilancio – tutte riforme, per così dire, al contrario di quelle che andrebbero fatte.
Insomma, la famosa discussione “di merito” che sui media è stata tanto invocata quanto mancata, è stata fatta invece con passione nella società civile. Questo è stato il primo imprevisto della campagna referendaria: pensato e programmato come un plebiscito che doveva filare liscio come l’olio “perché tanto alla gente della Costituzione non importa nulla”, in realtà il referendum ha risvegliato la passione politica e quel tanto di patriottismo costituzionale che si pensava, erroneamente, spento. Non solo. Ha ridato voce e profilo a una sinistra che pareva ormai risucchiata nel nulla, fra il centrismo del Pd renziano e il trasversalismo postideologico del Movimento 5 Stelle. E questo è stato il secondo imprevisto: larga parte del No alla riforma, nella campagna che si è svolta nel paese reale, è un no di sinistra.
Seconda scena, la televisione. Che pare conti ovunque sempre meno a fronte della Rete e dei social network, ma in Italia continua ad essere onnipresente, ridondante e sguaiata come e più che nel ventennio del Cavaliere. Infatti il bombardamento televisivo, da metà settembre in poi, è stato debordante, bulimico, inaggirabile. E come sempre, subalterno ai peggiori tic della politica e incapace di offrire un’elaborazione pertinente e originale del tema in questione. Tralascio lo scandalo dell’onnipresenza del Presidente del Consiglio su tutte le reti pubbliche e private, in tutti i format e a tutte le ore, un fatto senza precedenti (nemmeno berlusconiani) e di per sé sintomatico della stato in cui versano in Italia regole e democrazia. Ma anche al netto di questo fatto, il trattamento mediatico del quesito referendario merita qualche considerazione.
Fatte salve poche eccezioni, circoscritte alle interviste approfondite ad alcuni dei protagonisti dello scontro, di fronte alla difficoltà di confrontarsi con una materia politico-giuridica invece che con la solita chiacchiera da Transatlantico telegiornali e talkshow hanno trovato una soluzione facile facile, delegando – e relegando – il merito tecnico della riforma agli astrusi “duelli” fra il sì e il no sottoposti a tempi rigidissimi, e sdoganando contemporaneamente, senza il cronometro in mano, il peggio dello scontro (cosiddetto) politico. Si è cercato così di illustrare e divulgare un testo di per sé confuso e farraginoso chiedendo a giuristi e politici di illustrarne i singoli punti – senato, titolo V, legge elettorale e poteri del governo – in un paio di minuti ciascuno, senza mai la possibilità di un confronto disteso sull’architettura e il senso complessivi della riforma e del no alla riforma. Mentre in contemporanea continuava ad andare in onda una rappresentazione del conflitto politico con il referendum in un ruolo meramente strumentale alla tenuta o alla caduta di Renzi, alle alleanze possibili per il dopo, ai rancori e alle vendette interne al Pd, alla lotta per la leadership nel centrodestra eccetera: alla faccia della posta in gioco costituzionale, che dovrebbe stare sopra, non sotto, quella dell’agenda politica contingente.
Non basta. Complice l’esito sorprendente delle elezioni americane, a sua volta accostato con un automatismo a mio avviso eccessivo a quello del referendum sulla Brexit, il frame narrativo che ha finito col condizionare tutto il dibattito mediatico è stato quello dello scontro a fuoco fra establishment e rivolta populista: riadattato però, per non nuocere a Renzi e all’intero fronte del sì che di establishment è fatto, a quello fra stabilità e rivolta populista, con relativo – e decisivo – corredo di immagini perbene associate al sì (i sorrisi stampati e rassicuranti delle testimonial renziane) e di immagini permale associate al no (le urla e gli sberleffi di Grillo). Peccato che De Luca abbia rotto lo schema con le sue imprecazioni e fritture di pesce: che però gli sono state generosamente condonate, “perché si sa che lui è fatto così” e un po’ di political uncorrectness anche in Italia non guasta.
Il primo effetto di questo frame narrativo, accompagnato dal conformismo filogovernativo in base al quale la riforma è sempre stata presentata come il polo positivo e propositivo e il no come quello meramente negativo e distruttivo, è stato l’occultamento sistematico della componente e delle ragioni di sinistra del no, che col cosiddetto populismo non hanno niente a che vedere. Non mi riferisco qui solo alla sinistra organizzata in sigle, componenti e comitati, ma anche alla sinistra sociale, che nessuno o quasi si è dato la pena di interrogare: sì che sappiamo tutti come votano attori, cantanti e scrittori, e nessuno come votano i centri sociali, le associazioni del terzo settore, i forgotten delle rust belt di casa nostra. Poi non lamentiamoci delle sorprese.
Il secondo effetto è più imprevedibile, perché fare del composito arco del no un’accozzaglia populista, e fare del populismo lo spettro buono per mobilitare tutte le paure di una società precarizzata, va certo a vantaggio di chi ha in mano lo scettro del governo e lo stendardo (strappato) della stabilità; ma si sa che di questi tempi fra il bisogno rassicurante di stabilità e l’odio per l’establishment il confine è molto poroso. Per il governo potrebbe essere un grande boomerang. Per chi insabbia sotto l’etichetta populista le trasformazioni complicate della società e del sistema politico anche.
Personalmente non credo ai “comunque vada” del giorno prima del voto. Politicamente non c’è un comunque vada: andrà in un modo o in un altro. Comunque vada, però, un establishment da demolire c’è ed è quello televisivo.