Il divieto di accedere alla fecondazione eterologa per le coppie eterosessuali sterili è incostituzionale, e la sentenza della Consulta che lo stabilisce in modo inoppugnabile è la pietra tombale sulla legge sulla procreazione assistita promulgata dal parlamento dieci anni fa e lungo questi dieci anni demolita pezzo per pezzo, articolo per articolo, divieto per divieto da più di venti pronunciamenti di diversi gradi della giurisdizione. Il penultimo dei quali, emesso dalla Corte di Strasburgo due anni fa, avrebbe già dovuto portare il parlamento attuale a buttare nel cestino quella legge ignobile, se non altro in ossequio al comandamento «ce lo chiede l’Europa», tanto zelantemente ottemperato in materia di rigore economico quanto allegramente eluso in materia di diritti civili. Ma il parlamento ha altro da fare e il governo Renzi pure, a giudicare dall’eloquente silenzio del presidente e delle sue ministre a commento della notizia: Beatrice Lorenzin è lì da sola a invocare un «coinvolgimento parlamentare» per l’attuazione della sentenza, che comunque, si rassegni la ministra, sarà inaggirabile. E che Beatrice Lorenzin, erede di quel Pdl che impose la legge 40 senza trovare nell’opposizione grandi barricate, sia oggi ministra della sanità nel «rivoluzionario» governo di Matteo Renzi la dice lunga, lunghissima sulle discontinuità presunte e le continuità reali del presente rispetto al passato. Non solo. La progressiva e inesorabile demolizione giudiziaria di quella legge, uno dei testi peggiori licenziati dal parlamento in sessant’anni di vita repubblicana, dovrebbe portare consiglio agli attuali fan di un decisionismo monocamerale pronto a eliminare qualunque istanza garantista del processo legislativo liquidandola come zavorra dei parrucconi.
Godiamoci però intanto la festa. La sentenza della Corte dà ragione a chi aveva voluto e sostenuto il referendum abrogativo del 2005, allora boicottato non solo dal fronte clerical-berlusconiano ma anche dall’astensionismo agnostico dell’opposizione. E allinea le motivazioni del diritto con quelle del buon senso, visto che vietare l’eterologa equivaleva a vietare alle donne di fare artificialmente ma a viso aperto quello che l’ipocrisia sociale consente di fare naturalmente ma a viso coperto, cioè procreare con un seme diverso da quello «legale» di un marito sterile. Checché si rialzino gli alti lai delle gerarchie cattoliche sul diritto del nascituro alla conoscenza dell’identità del genitore biologico e sul presunto «disordine» familiare innescabile dalla doppia paternità, biologica e legale, la strada è spianata: si tratta di un ordine di questioni che le pratiche sociali, con e a lato del diritto, si sono già incaricate di risolvere ovunque efficacemente. Resta il dolore inflitto nel frattempo a migliaia di coppie scoraggiate dalla legge 40, o indotte dalla medesima alla via crucis del turismo procreativo, o delegittimate dalla prepotenza legge nella praticabilità del loro desiderio di generare. A tutte loro il parlamento italiano dovrebbe, semplicemente, delle scuse.
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