Obama, il colpo d’ala dell’anatra zoppa

Pubblicato su Huffington Post il 22/01/2015

«The shadow of the crisis has passed», l’ombra della crisi è passata: bastano sette parole, la frase-chiave del discorso di Barack Obama sullo stato dell’Unione, per spalancare lo scarto che, «nei quindici anni che ci hanno portati nel nuovo secolo», ha allungato le distanze fra il vecchio e il nuovo continente. Non solo negli Usa la recessione è finita, l’economia è ripartita, la disoccupazione – snocciola il Presidente – è più bassa di prima del 2008, i licenziati dalla crisi ritrovano lavoro, i laureandi e laureati sono più numerosi che mai, la stragrande maggioranza degli americani ha per la prima volta nella storia una copertura sanitaria, la dipendenza dal petrolio mediorientale è finita. No, non c’è solo questo. C’è che alla fine di un quindicennio cominciato con l’attacco terrorista alle Torri gemelle e proseguito con l’attacco dell’alta finanza alla vita quotidiana della middle class, due bombe che hanno fatto vacillare il «we the people» americano, l’America si riscopre «una famiglia forte e unita», grazie al lavoro, ai sacrifici, alla resilienza e alla capacità di rinnovamento su cui ha saputo far leva nell’attraversamento di un tempo duro, «molto duro». L’ombra della crisi è passata, la depressione – psicologica, non solo economica – è alle spalle.

Barack Obama, l’anatra che tutto il mondo aveva decretato azzoppata per sempre solo due mesi fa, quando le elezioni di medio termine avevano consegnato tutto il Congresso ai Repubblicani, ribalta dunque con un colpo d’ala magistrale la recente sconfitta politica nel rilancio della dimensione storica del suo doppio mandato presidenziale. Non si tratta solo degli sgravi fiscali a favore della classe media che vanificano il vessillo no-tax degli avversari, o dei nuovi passi annunciati nel campo dell’assistenza sociale, della formazione, del diritto alla casa: un programma da stato sociale minimo che pare massimo di fronte all’estremismo neoliberista europeo, che sfida i Repubblicani in una sorta di corpo a corpo e che prefigura l’agenda per il prossimo presidente in linea con l’attuale. Al di lá di questo, Obama ritrova il filo strategico del progetto che lo portò alla Casa Bianca sei anni fa, quando la crisi abbassava le saracinesche di Manhattan e portava a Los Angeles centomila senzatetto mentre la ferita di Ground Zero continuava a sanguinare e le guerre conseguenti a infuriare in Afghanistan e in Iraq. Con i risultati di oggi in mano, il presidente visionario di allora può a buon diritto rivendicare la trasformazione qualitativa della leadership Americana, riproponendo due non e due sí: no a un’economia spettacolare in mano ai super-ricchi, sí a una riconversione produttiva che genera lavoro, reddito e chances per tutti; no alla paura e alla reattivitá che hanno armato l’America contro il pericolo terrorista, sí a una concezione “più intelligente” della leadership e a un uso “saggio” del potere della diplomazia più che dell’esercito. Sí che perfino gli errori e le contraddizioni che gravano sulla politica estera obamiana si sfocano a fronte di tre cambiamenti strategici comunque effettuati o avviati: la chiusura del ciclo di guerre post-11 settembre e lo svuotamento progressive di Guantanamo, il disinnesco del pericolo nucleare iraniano, la fine dell’ostilitá verso Cuba “scaduta da decenni”. Perché “il punto non è se l’America resta alla guida del mondo, ma come”: tanto più mentre il terrorismo continua a colpire “dal Pakistan a Parigi” e l’America deve restare al fianco di chiunque ne sia colpito, ma facendo tesoro delle lezioni del passato.

Naturalmente no, dall’altra parte dell’Atlantico non siamo nel migliore dei mondi possibili. E ovviamente sí, quando si snocciolano le cifre della ripresa americana bisognerebbe dedicare qualche parola ai costi antropologici che essa ha comunque comportato, quando si parla di una leadership mondiale più intelligente e saggia bisogna sapere che questa derubricazione della potenza militare resti comunque minoritaria nella patria di American sniper, quando si fa appello alla risorsa delle diversità in una socieá capace dimetabolizzarle tutte non bisogna dimenticare – e del resto Obama lo ricorda – quello che è accaduto a Ferguson e che può in ogni momento accadere ovunque. Qui il punto non è l’ennesima santificazione del sogno americano, il punto è l’abisso che oggi separa le due sponde dell’Oceano, la faglia sempre più profonda interna a ciò che chiamiamo Occidente. Mentre Obama parlava ai suoi “American fellows”, o a poche ore di distanza, in una televisione italiana Marina Le Pen parlava ai suoi compagni di strada europei tentando di portare all’incasso di un nazionalismo ottocentesco la crisi senza fondo della costruzione dell’Unione e Matteo Renzi usciva dall’ennesimo incontro decisivo con il Caimano degli anni Novanta, il tutto sullo sfondo di un dibattito sulla strage di Parigi e sulla liberazione di Greta e Vanessa che ripete senza memoria alcuna i peggiori argomenti del dopo 11 settembre. Forse é il caso che anche l’Europa realizzi che siamo entrati da 15 anni nel XXI secolo. E che insieme alle migliaia di giovani senza lavoro, anche la politica, gloriosa creatura di un’Europa che fu, sembra essere ormai emigrata dall’altra parte dell’Atlantico.

Informazioni su Ida Dominijanni

Giornalista e ricercatrice indipendente
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