Non solo maschere. Essere contro nella tarda modernità

Pubblicato il 21 settembre 2023 in memoria di Gianni Vattimo

Gianni Vattimo è morto ieri a 87 anni, dopo una lunga malattia che lo ha esposto fra l’altro a una squallida vicenda di intrusione del potere medico e giudiziario nella sua vita personale. Lo ricordo qui riproponendo il testo di una lunga intervista pubblicata sul manifesto del 28 aprile 1991, che fu l’occasione per un confronto schietto sul paradigma del “pensiero debole” e sul suo impatto – controverso – sulla cultura della sinistra radicale, e più in generale sull’analisi della post-modernità. Molti dei nodi di cui discutemmo allora sono tuttora irrisolti davanti a noi.

Dev’essere un segno dei tempi se uno slogan pubblicitario riesce più di molti editoriali politici a evocare il gusto di qualche domanda di fondo sul presente, le sue evidenti nefandezze e le sue eventuali possibilità. Prendiamolo così, come un segno dei nostri tempi in cui sono i segni a dominare: come una possibilità di comunicazione. Così dev’essere suonato a Gianni Vattimo quel «Vent’anni dalla parte del torto» con cui il manifesto si riprende, festeggiando il ventesimo compleanno, la sua parte di ragione. Sì che ne ha scritto su Tuttolibri della Stampa due settimane fa, concedendosi «un impudico esame di coscienza» su come mai questo slogan, così sfacciatamente rivendicativo di una posizione da «critici radicali, profetici, apocalittici», eserciti su di lui un fascino profondo «in un momento in cui le ideologie globali sono morte e sepolte». Tentazione sentimentale per una posizione di radicale opposizione, pure razionalmente giudicata sterile e abbandonata in favore di una partecipazione meno roboante e più amichevole dell’intellettuale critico al destino comune? Rivincita dell’estremismo apocalittico sul senso delle sfumature? Oppure: segno che sta cambiante il vento, e la barbarie che avanza chiama «la malattia correlativa e simmetrica della pura e semplice cultura del rifiuto»?

Più un elenco di domande che un impietoso esame di coscienza, come si vede. Ma tali da lasciare intravedere un’inquietudine, garbatamente posta «a partire da sé» ma indicata come sintomatica di uno stato d’animo non isolato fra gli intellettuali. E siccome di questi tempi l’inquietudine fa comunicare più delle certezze, e nel manifesto non ne siamo davvero esenti, abbiamo chiesto a Vattimo di continuare in un dialogo l’esame di coscienza: forse l’attrazione per lo slogan tradisce qualche crepa nel suo paradigma, noto come «pensiero debole». Quanto a noi del manifesto, non è che ci piaccia essere tanto poco «amichevoli», ma come si fa a esserlo se c’è da dire di no alle nuove condizioni della barbarie? Nemmeno però ci piace essere visti solo come l’altra faccia – tollerata – della barbarie stessa, e tantomeno pagare il gusto e il lusso di «essere contro» con la rinuncia alle sfumature: sono domande che circolano anche fra di noi.

Nel suo studio all’università di Torino, Vattimo accetta il dialogo con una amichevole battuta: «Sarà una specie di psicodramma, nei vostri confronti mi sono sempre sentito un amico rifiutato». Esame di coscienza per esame di coscienza, diciamoci la verità: il pensiero debole al manifesto non gode di troppa simpatia, ma siccome le sfumature, appunto, non ci mancano, cerchiamo di essere più precisi. I marxisti più convinti fra noi l’hanno sempre visto come una destituzione di fondamento delle ragioni dell’emancipazione sociale. I più sessantottini, come una critica in senso radicale del marxismo nelle intenzioni, ma come un pensiero moderato negli esiti: una analisi convincente dei fenomeni della tarda modernità, di cui è finita però col prevalere una versione apologetica in mancanza di una versione antagonista. Quando nell’83 Feltrinelli pubblicò la famosa antologia intitolata appunto  II pensiero debole curata da Vattimo e Pier Aldo Rovatti, titolammo «Debole, anzi fortissimo», a sottolineare le trappole contenute in quella proposta culturale; ma ancora pochi mesi fa una nostra pagina si interrogava sulla possibilità di un «buon uso» – un uso antagonista – del postmoderno, che del pensiero debole è parente stretto. Il tutto mentre il nascente Pds ne faceva invece un uso non dichiarato e tutt’altro che radicale, riducendolo a sociologia di nuovi ed equivalenti soggetti privi di qualunque punto di vista di parte. Siccome comunque il pensiero debole è un pezzo della storia culturale dell’ultimo decennio, e siccome le inquietudini di Vattimo parlano con le nostre all’inizio del decennio che si apre, tentarne un bilancio ci riguarda. 

Cominciamo pure da questo giornale dalla parte del torto, professor Vattimo, ma vediamo di arrivare anche ai torti e alle ragioni del suo fortunato paradigma teorico. E cominciamo dal suo articolo su Tuttolibri: perché proprio adesso? 

Perché effettivamente mi aveva colpito quello slogan, quasi mi dispiaceva non far parte del gruppo che lo rivendica, e ha ritirato fuori tutte le mie antiche ragioni di vicinanza e lontananza dal vostro giornale. Stare dalla parte del torto è una posizione affascinante e che mi è appartenuta, finché mi sono chiesto quanto questo atteggiamento utopistico corrisponda a un ruolo previsto, tollerato ma ininfluente, nel gioco del potere. In fondo, è stato così almeno per i tre quarti del quarantennio democristiano, con le case editrici come Einaudi e Feltrinelli in mano agli intellettuali marxisti e il potere in mano alla Dc. 

Tutta qui l’ambivalenza? Non ci sono anche ragioni e tappe più personali? 

Certo, una in particolare. Ricordo perfettamente che quando, nel ’74, pubblicai Il soggetto e la maschera, pensavo che quella sarebbe ovviamente diventata la vostra filosofia. Invece no. E subito dopo, quando morì Lukacs, lessi con stupore una sua celebrazione da parte di Rossana Rossanda che mi parve troppo ortodossa rispetto alle novità teoriche che il ’68 aveva indicato secondo me – che nel ’68 ero ancora maoista -, mettendo assieme Marx e Nietsche. Dicendo che nella critica marxiana della società e dell’individuo capitalistici c’erano potenzialità che andavano oltre Marx. Che bisognava portare la critica all’interno dell’individuo e delle sue gerarchie; sintetizzare la critica marxiana e quella delle avanguardie borghesi.

Marxismo più avanguardia: è una vecchia storia, e forse i tempi sono giusti per chiedersi se non si sia ripetuto, negli ultimi decenni, uno scacco di questo tentativo di sintesi. Com’è andata secondo lei? 

Quel tentativo fu sconfitto negli anni Settanta. La cultura delle avanguardie conteneva elementi esplosivi difficili da tradurre in “attività politica”. E la soggettività rivoluzionaria si è spaccata in due. Il terrorismo ha riproposto la vecchia figura del rivoluzionario di professione, Autonomia restava in un ghetto o ritrovava anch’essa una vocazione leninista. Non per questo ho rinunciato a cercare quella sintesi: l’ultima formulazione è stata un certo approccio al postmoderno, il tentativo di sgretolare la cultura del potere a partire dalla sua stessa configurazione multipla che Foucault ci ha mostrato. Continuo a essere di quest’idea, ma di recente – da qui l’articolo sul vostro slogan – ho cominciato a pensare che in altri tempi funzionasse meglio. Oggi una certa ricomposizione nevrotica del sistema – il suo riassestarsi attorno a certe parentele, confermando le solite esclusioni _ ci rimette di fronte agli aspetti più tradizionali del potere. 

Prendiamo il Pds, sul quale io ho scommesso con convinzione: per quanto si sforzi di addomesticarsi, al potere non ce lo vogliono, chiamano solo i parenti stretti e ritirano fuori il fattore K. E il Pds rischia di non produrre una cultura di opposizione, nel vano tentativo di farsene una di governo. Mentre bisognerebbe costruire una forza di opposizione, che sia tale malgrado la fine delle ideologie e dopo la caduta
del Muro. E bisognerebbe reinventare forme di contestazione sociale, anche se nessuno sa da dove cominciare. Non ho le idee chiarissime, ma come in tutti i momenti di crisi sento che qualcosa si muove, che è importante non isolarsi, che forse riusciremo a inventare qualcosa di nuovo.

Però Gianni Vattimo non è solo un ex sessantottino, né solo un lettore di Nietzsche approdato al postmoderno. È l’autore di un paradigma di interpretazione della tarda modernità̀ e della funzione intellettuale che ha influenzato molto il clima culturale dell’ultimo decennio. È stato un protagonista del nichilismo italiano, e poi un intellettuale non marginale sulla scena degli anni ’80, uno dei primi a praticare la grande svolta della società̀ dei media. Questi cenni di crisi di oggi interrogano o no questo percorso, e in quali punti? Proviamo a metterla così. L’intenzione originaria del pensiero debole era chiara: spingere in avanti la critica al sistema, attaccando i residui metafisici del marxismo. Quell’ipotesi ha ispirato e raccolto molti umori dei movimenti della seconda metà degli anni 70. Negli ’80, si può dire che sia diventata egemone o almeno non secondaria nel panorama intellettuale a noi prossimo: gli esiti si ritrovano anche nella svolta del Pci. Ma non le viene il dubbio che sia andata oltre e contro le intenzioni originarie? Che sia diventata senso comune nella versione di una serena e opportunistica accettazione delle chances dell’esistente; e che abbia paradossalmente agevolato, o almeno accompagnato, quella ricomposizione nevrotica del potere che diceva lei stesso? Che cosa salva di quell’ipotesi, e c’è qualcosa da ripensare? 

Beh, il mio problema di oggi sta precisamente qui. Ma, ecco il punto: quell’ipotesi culturale non può, per sua natura costitutiva, darsi una fisionomia politica netta, una strategia d’efficacia. Corrisponde piuttosto a una situazione sociale: ci sono, nel panorama della tarda modernità, una quantità di motivi di liberazione che non trovano e forse non hanno bisogno di trovare un’espressione politico-istituzionale. Posso chiedere anche a lei un esame di coscienza? Prendiamo il manifesto. La sua parte migliore, a mio avviso, è quella che punta molto sull’immaginario radical americano. È «al potere» quella parte lì, nel suo giornale»? 

Non proprio, professore: touchée. 

Bene. Ma l’immagine del manifesto sta più negli editoriali politici o in quelle pagine? Molti studenti delle università di New York lo leggono per quelle pagine. Vale come esempio: in generale, in Italia, c’è una zona vastissima di vita culturale critica tuttora nelle mani degli ex sessantottini, che sono stati cooptati all’unico livello possibile dall’establishment…Questa zona vive e veicola stili di vita antagonisti, anche se il potere istituzionale resta nelle mani di sempre. 

Nel mio ottimismo, io arrivo a pensare che perfino la tanto deprecata separatezza e tecnicizzazione della politica abbia un aspetto positivo di autolimitazione. Come se aprisse spazi alla riscoperta dell’anima, a una vita sociale meno politocentrica, a pratiche di libertà: per libertà intendendo soprattutto la consapevolezza di non essere più̀ riassumibili in una società integrata, anche se «buona» e anche se postrivoluzionaria…è il vecchio monito di Adorno: l’idea della rivoluzione come reintegrazione non ha senso, e del resto l’abbiamo imparato dalle sue caricature, che però non si possono attribuire solo al destino cinico e baro. Come non ha senso, nella società dei massmedia che configura la possibilità di un totalitarismo del consenso, l’idea di un consenso totale.

Ma rivoluzione e reintegrazione sono proprio inscindibili? È proprio l’unica idea possibile di rivoluzione questa? E comunque, giacché in Italia di rivoluzioni non ce n’è: qual è allora il senso di questa apertura di spazi di libertà, al di là dell’ottimismo? 

È l’indebolimento. La filosofia dell’indebolimento che c’era e c’è dietro il pensiero debole, il suo nucleo più duro da far digerire e da accettare ciascuno per sé. L’idea che il cristianesimo si realizzi attraverso una continua crocifissione, non attraverso una resurrezione sempre più trionfale. L’idea che l’emancipazione sia una sorta di spoliazione ascetica. Che magari si realizza attraverso l’inflazione: ci si libera del potere della tv avendo cinque televisori in casa e vedendo cinque programmi contemporaneamente…una sorta dì riscoperta del nocciolo dell’anima attraverso la sdrammatizzazione dell’esteriore. E questo, ha ragione lei, effettivamente diventa sempre più senso comune. 

Per esempio? 

Per esempio: io vedo attorno a me sempre meno grandi ambizioni
economiche. È vero, c’è il mito yuppie dell’intraprendenza e del merito, ma di contro e forse più diffuso – eterogenesi dell’econonomia assistita democristiana? – c’è il dipendente statale che è tutto il contrario dell’homo oeconomicus, è slegato dalla sequenza produttivistica guadagno-investimento profitto, e forse non è una figura sociale tutta da buttare, anche se gli ospedali in Italia fanno paura e le università anche… E poi: questa idea di emancipazione attraverso la sdrammatizzazione e l’indebolimento non corri- sponde all’ideale del marxismo di smitizzazione del dominio dell’economico? E non si può fare questa ipotesi: che la divergenza fra l’attualità sociale di questo ordine del discorso – pensiero debole, liberazione per inflazione e spoliazione – e la loro inattualità politica significhi essa stessa qualche cosa: la possibilità di praticare un’interpretazione distorcente dell’esistente; un significato spiritualizzante della tarda modernità, una riduzione di realismo… 

A proposito di spiritualismo e realismo, e di materiale e immateriale: come la mettiamo con la guerra del Golfo? Questa guerra – il fatto stesso che sia accaduta, contro tutte le ipotesi, per dirla con Baudrillard, di dominio del virtuale sul reale – non la mette in crisi? Non la si può leggere anche co- me una smentita sul campo, o almeno una inquietante lesione, del suo paradigma e più in generale del paradigma postmoderno?

Certo, c’è un problema. Non parlerei però di smentita. Questa guerra mi sembra più un soprassalto che una rivincita del realismo. Le stesse ragioni per cui si poteva pensare, e io ho pensato fino all’ultimo, che la guerra non sarebbe scoppiata, l’hanno almeno resa breve. E i risultati sono così sfi- lacciati e complicati che gli Stati uniti non possono nascondersi dietro un effetto di risoluzione. 

Torniamo all’impasse sulla politica, o meglio sul progetto. Sbaglio o c’era fin dall’inizio nella sua ipotesi teorica? Nell’82 lei stesso scriveva: «Parlare di debo- lezza del pensiero significa anche teorizzarne una diminuita forza progettuale? Non nascondiamoci che il problema esiste». E oggi? 

Oggi il problema resta, per le stesse ragioni di partenza: non conosco forza progettuale che non abbia riprodotto degli schemi di dominio. Io registro l’impasse, ma in giro non vedo molte soluzioni: salvo aderire all’ottimismo razionale alla Veca e mettere la filosofia al servizio dei comitati etici. Preferisco accettare una condizione di marginalità rispetto alla politica, e lavorare a livello di preparazione remota, il compito vero della filosofia. 

Però anche qui qualcosa torna, qualcosa no. Va bene la critica del politico-istituzionale, va bene la sua sdrammatizzazione. Ma possiamo ridurre a questo tutta la dimensione della politica? In una intervista recente, su Democrazia e diritto, lei vede tutt’e due in crisi, il politico in senso stretto e la dimensione politica in senso più lato. Ma io non ne sarei così certa. Il femminismo, ad esempio, suggerisce che alla riduzione del politi- co-istituzionale fa riscontro un allargamento dell’agire politico.

 Sì, può esser vero visto dal movimento delle donne. Però il femminismo porta anche acqua al mio mulino: anche lì c’è una difficoltà intrinseca a dare traduzione efficace ai problemi che si mettono in evidenza, a darsi obiettivi identificabili, e anche lì il nemico si mostra più sotto forma di nevrosi sociali che di figure tradizionali. O no?

Sì, ma nel caso del femminismo c’è anche la pratica di una permanente dimensione del conflitto. Le donne non smettono di contestare, e mi sembrano meno tentate degli uomini da un’etica opportunistica della debolezza e della complessità.

Forse perché per la condizione sessuale passa oggi quella condizione di secondarietà che prima era del proletariato. E che comunque non può avere l’ideale emancipativo della ricomposizione. “Non siamo più materiale per una società”, diceva Nietzsche e aveva ragione. Le soggettività premono ed esplodono, e questo il femminismo lo dimostra. 

Ruotiamo ancora attorno allo stesso punto. L’ideale di emancipazione deve cambiare anzi è cambiato nei fatti, la rivoluzione non c’è stata ma so- prattutto non deve mai compiersi del tutto, il presente della tarda modernità è pieno di possibilità liberatorie, eppure lei legge «vent’anni dalla parte del torto» e le viene nostalgia. Non sarà che l’esser contro ha ancora qualche chance e magari ridiventa più attuale e più affascinante dell’essere amichevoli nei confronti di questa realtà? 

Guardi che nello stare contro, nel permanere contro, si rischia di non riuscire a tallonare abbastanza l’esistente, a forzarlo nella nostra direzione e ai nostri fini: come se stare fuori fosse perfino più rassicurante, così che il potere resta indisturbato e chi sta contro pure. Questo resta il mio punto di critica al manifesto, per tornare al nostro punto di partenza. Poi c’è il mio punto di crisi: l’imbarbarimento della situazione politica e dei rapporti, che mi fa provare simpatia per il gruppo che si può permettere quello slogan. Ho sbagliato io a pensare fino a ieri che fosse diventato improponibile? O la colpa è della realtà e di questa sorta di nuova barbarie? Come vede non ho in risposta altro che domande, i problemi su cui sto riflettendo. Lo dicevo prima, mi domando se oggi non sia da co- struire più duramente un pensiero di opposizione, pur senza rinunciare a tutta la fase di critica del dogmatismo e a una certa dose di amichevolezza verso la tarda modernità. A meno che non sia tutto un problema italiano: se la crisi di governo fuoriesce da ogni logica grazie all’irrazionalità, chiamiamola così, di Cossiga, beh, mica per questo devo rivedere il paradigma del pensiero debole…

Per questo no, certo. Ma forse per un problema di ricollocazione sì. Facciamo ancora un’ipotesi: che quel paradigma avesse un senso vero, e radicale, finché c’era ancora un progetto di emancipazione con qualche vizio metafisico. Ma se quel progetto non c’è più, non cambiano anche le altre parti in commedia? Non ricade sui critici delle «grandi narrazioni» una responsabilità costruttiva, proprio ora che esse sembrano sconfitte dalla storia? 

Sì, questo sì. Infatti l’esigenza a cui vorrei lavorare adesso è la costruzione di una razionalità positiva dell’ermeneutica, prendendo distanza dalla pro- spettiva di pura decostruzione alla Derrida. Insomma il pensiero debole non tanto come decostruzione ma come costruzione di una diversa razionalità. Questo sul piano teorico. Sul piano politico, mi sono chiesto di recente se il riferimento di una razionalità debolista costruttiva non potrebbe essere l’ecologia, e tutto un modo di reimpadronirsi di quei problemi di controllo del territorio che oggi sono in mano alle Leghe. 

E perché non le scrive qualche volta sul manifesto queste domande? 

Perché? Perché è un po’ come non avere sposato la ragazza di cui si era innamorati da piccoli. 

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Fuori norma. Lo “stile” operaista

Pubblicato l’8 agosto 2023 in memoria di Mario Tronti

Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista – una delle molte – che facemmo per “il manifesto” (20/06/2006) in occasione della ripubblicazione di “Operai e capitale” quarant’anni dopo la sua prima uscita, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo.

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Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?

Veramente, il risultato fu molto al di sopra del tentativo. Si trattava di una posizione isolatissima, che sfondò il muro dell’attenzione. Il merito va tutto ai magici anni Sessanta. Il messaggio era quello cantato da Bob Dylan: i tempi stanno cambiando. Tradotto: bisogna rivoluzionare il passo della ricerca sociale e della pratica politica. Poi, il linguaggio, come ha detto qualcuno, è l’essere. Questo soprattutto rompeva con la tradizione. “Operai e capitale” è l’età del mio romanticismo politico. E i poeti romantici piacciono, sempre.

Il libro uscì, nel ’66, quando le due testate dell’operaismo, i “Quaderni Rossi” di Panzieri e “Classe Operaia”, avevano già chiuso. In che rapporto sta quel tuo testo con la vicenda collettiva dell’operaismo?

Non ci sarebbe stato il libro senza l’esperienza operaista, depositata nella rivista e nel giornale. Nel libro precipitano saggi e articoli che venivano da lì e che salgono poi a riflessione teorica. È la solita nottola di Minerva, che spicca il volo al crepuscolo del giorno.

Nei confronti dell’operaismo italiano, nelle sue varie espressioni, c’è oggi in Italia e all’estero, e in condizioni sociali e politiche del tutto diverse, una forte ripresa d’interesse. Guardando indietro, cos’è stato per te l’operaismo?

Tre cose: un romanzo di formazione intellettuale, un episodio della storia del movimento operaio, una rivoluzione culturale contro la tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo. Ma prima di tutto, l’esperienza di pensiero e di pratica di un gruppo di persone di straordinaria qualità umana e politica, che si muovevano in divergente accordo, cementate da un legame di amicizia indissolubile – quali che siano le strade che ciascuno di noi ha intrapreso in seguito. In una parola, direi che quell’esperienza ci ha lasciato uno «stile» inconfondibile: dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di «stato d’eccezione intellettuale permanente». A contatto con la fabbrica e con il modello delle lotte operaie nacque un nuovo tipo di intellettuale, organico non al partito ma alla classe, e un nuovo modo di fare teoria, non di libro in libro ma nel corpo a corpo con la storia, per sovvertire l’ordine delle cose. Una pratica di pensiero politico perturbante, irriducibile a scuole e tradizioni, che tuttavia in seguito ha fecondato anche l’innovazione disciplinare, in filosofia, in sociologia, nella storiografia.

Quali erano i punti di polemica più duri con la tradizione comunista italiana?

Lo storicismo della linea De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, cemento del gruppo dirigente togliattiano del Pci nel dopoguerra e negli anni Cinquanta. Il nazional-popolare, che Alberto Asor Rosa smontò nel ’64 – aveva trent’anni – in “Scrittori e popolo”. L’analisi del neocapitalismo e del nesso fabbrica-società-politica: mentre l’operaio massa, il taylorismo, il fordismo irrompevano sulla scena, il Pci restava fermo alla diagnosi dell’arretratezza del capitalismo italiano. E ancora, la retorica lavorista, che mandammo all’aria con lo slogan del «rifiuto del lavoro», e la visione salvifica della classe operaia, che nel lessico del Pci doveva sempre farsi “classe generale”, agire nell’interesse di tutti, emancipare sé stessa per emancipare l’umanità, salvare il paese, la pace, il Terzo Mondo…

Invece “la rude razza pagana”, secondo la tua celebre definizione, doveva salvare solo sé stessa… Cos’era, la rude razza pagana? E non avete rischiato anche voi di farne un mito salvifico, di riproporre una filosofia della storia con il Soggetto operaio al posto dello Spirito hegeliano?

La rude razza pagana era quella che davanti ai cancelli delle fabbriche ci prendeva di mano i volantini e ridendo diceva: Che sono, soldi? Salario contro profitto, ecco cos’era la classe. Non l’interesse generale, ma un interesse di parte, che smascherava l’universalismo borghese e metteva in crisi il rapporto generale di capitale. “Il salario come variabile indipendente” non era uno slogan economico, era uno slogan politico, come avrebbe dimostrato il ’69. Ma ben prima dell’autunno caldo, fin dalle lotte del ’62 a Torino si era dispiegata l’inventiva operaia di pratiche antagoniste nella guerra di posizione quotidiana contro il padrone: le lotte a gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla linea di montaggio, l’uso insubordinato dei tempi di produzione taylorismi. Imparavamo da lì: al capitale che voleva estendere il modello della fabbrica alla società, noi rispondevamo estendendo il modello dell’insubordinazione operaia alla politica.

Stai parlando dei primi anni Sessanta, che da tutta la memorialistica comunista, anche di posizioni diverse dalla tua – penso ai recenti libri di Ingrao e di Rossanda – risultano quelli cruciali della storia repubblicana. Quegli anni però sono racchiusi fra due date: alle spalle c’è il ’56, davanti il ’68. Come collochi l’esperienza operaista fra quelle due date?

Il ’56 fu una data strategica: la statua di Stalin rotolò sulle nostre teste, e nelle nostre teste nulla fu più come prima. Le magnifiche sorti e progressive erano finite, il comunismo non ci attendeva più dal futuro, domandava autocritica del presente. Ma mentre i più, di fronte ai fatti di Budapest, riscoprivano il valore delle libertà borghesi, per noi si schiudeva casomai l’orizzonte della libertà comunista. Trovo intellettualmente e politicamente inutili molte autocritiche a posteriori di oggi: il nodo, duro, da sciogliere era come ricostruire le condizioni della rivoluzione nell’occidente neocapitalistico, spostando in avanti il terreno sia del conflitto operaio, sia dell’organizzazione politica, senza separarli l’uno dall’altra. Personalmente – ma qui parlo per me, perché questo era il punto del contenzioso interno all’operaismo – non ho mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c’era un passaggio politico che non si poteva saltare – anche se essere operaisti ha sempre significato, allora e dopo, saltarlo.

Qual era questo passaggio?

La formazione, dentro l’esperienza di classe, di un gruppo dirigente alternativo a quello togliattiano, che sapesse giocare dentro il “disordine” che stava per venire, e che sarebbe esploso nel ’68-’69. La crisi del Pci post-togliattiano, che sarebbe esplosa nell’XI congresso del ’66, avrebbe forse potuto incoraggiare “la lunga marcia dentro l’organizzazione” che mi pareva necessaria: il Principe restava la classe, il primato restava alle lotte, ma per tentare di dare loro un esito vincente era necessario lo strumento del partito. Ma questa ipotesi del “dentro e contro” non passò, prevalse quella del “o dentro o fuori”, cioè fuori: una logica per il movimento, un’altra per il partito. Con gli esiti perdenti degli anni Settanta, e oltre.

Ma in mezzo c’è stato il Sessantotto, che cambia non poche cose, rispetto al rapporto con il partito e con l’organizzazione… In che rapporto sta l’operaismo con il Sessantotto?

Ti rispondo per me, in un modo che molti dei compagni di allora contesterebbero vibratamente, e tu con loro. L’operaismo è stato una premessa del ’68, e al tempo stesso una sua critica anticipata. In Italia il ’68 ha ricevuto dal ’69 operaio una caratterizzazione diversa e più duratura che altrove, anticapitalistica e non solo antiautoritaria. Operai e capitale si trovarono materialmente uno di fronte all’altro: a quel punto bisognava spostare potere, non solo contestare autorità. È una regolarità storica: se nel terremoto provocato dalle lotte non si apre un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che sposta il rapporto di forze, lo sviluppo capitalistico finisce con l’utilizzare le lotte operaie ai propri fini, e l’intero apparato di dominio si ristabilizza democratizzandosi. Esattamente quello che è avvenuto dopo il ’68. Alle lotte per la liberazione del secondo Novecento è mancata la forza del movimento operaio organizzato che agì in quelle per l’emancipazione del primo. Grandissima parte della soggettività antagonista degli anni Sessanta si era formata fuori ed era cresciuta contro i partiti e i sindacati, e operava per accelerarne la crisi. Finché nel ’77 se ne separa definitivamente.

Perché quella forma di organizzazione non si adattava più a quella spinta di libertà… Ma torniamo a guardare le cose con gli occhi di allora. Insomma, il punto di contenzioso nell’operaismo era l’organizzazione, il partito, il ruolo del politico. Prendiamo due formule emblematiche, l’editoriale “Classe operaia senza alleati” di Toni Negri su “Classe Operaia” del ’64 e il tuo saggio “Sull’autonomia del politico” (Feltrinelli) del ’77.

Toni Negri ha contato molto nell’esperienza di “Classe operaia”. L’analisi e poi la critica dell’operaio fordista-taylorista, maturata nel laboratorio strategico di Porto Marghera, è alla base di tutto il suo percorso di ricerca successivo. E nella teoria del passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, a metà anni Settanta, c’è tutta la sua intelligenza. Ma “operai senza alleati” era un errore. Il sistema di alleanze predicato dal Pci – lavoratori dipendenti-ceti medi-Emilia rossa – andava smontato e contestato, ma bisognava costruirne un altro, con le figure professionali nuove che emergevano nel capitalismo sviluppato, con la produzione e il consumo di massa, le trasformazioni civili e il salto culturale in atto nel paese; e ridislocare più avanti tutto il terreno della politica, dal conflitto alla rappresentanza. L’operaismo dei primi anni Sessanta intuì un pezzo essenziale di questa realtà. A rivederla oggi, “Classe Operaia” risulta più vicina a “Quaderni Rossi” e più lontana da Potere operaio e da tutto quello che ne derivò fino a Autonomia operaia: le prime due esperienze si sentivano criticamente dentro il movimento operaio, le seconde gli si mettevano contro. Se quel «salto» nel politico non ci fu, tuttavia, non fu tanto o solo per i limiti di quel nostro esperimento, ma per i limiti dell’epoca: con gli anni Sessanta il tempo della grande politica non si apre, si chiude.

È una tua tesi nota, daLa politica al tramonto” in poi. Ma se quel tempo è chiuso e l’operaismo va inscritto in quel tempo, dell’operaismo cosa resta?

Parlo, non a caso, di «stile» operaista: un modo nuovo di essere intellettuali, con un pensiero legato alla pratica. C’è un padre e una madre: il primo è la grande storia del movimento operaio, la seconda è la grande cultura della crisi novecentesca. Una splendida contraddizione, vissuta. L’ho detta così: dare voce alta a quelli che stanno in basso. Un percorso inquieto: ma sfido chiunque a trovare una sola ombra di cedimento.

Perché l’operaismo incontrò la cultura della crisi, facendone il suo orizzonte culturale?

Perché il soggetto operaio, pur così centrale, a noi appariva come un soggetto sociale che risultava dalla crisi della sua forma politica tradizionale. E questo si inscriveva dentro una più generale grande crisi delle forme, che dopo la rottura delle avanguardie d’inizio Novecento non si era mai più ricomposta. È del ’69, su “Contropiano”, il saggio di Cacciari “Sulla genesi del pensiero negativo”, un orizzonte che non avremmo più abbandonato. E che apre a un passaggio successivo, dalla critica distruttiva dell’ideologia alla ricostituzione di categorie politiche come concetti teologici secolarizzati. Bisogna metterci la testa per capire come dalla rude razza pagana si arrivi alla teologia politica, ma il nesso c’è ed è forte. E per quanto riguarda me, c’è un filo di continuità fra “Operai e capitale” e “Politica e destino”, l’ultimo mio lavoro che esce in questi stessi giorni presso Sossella.

Lenin in Inghilterra” e “Marx a Detroit”, due titoli rimasti celebri di “Operai e capitale”. Dove li mandiamo adesso Lenin e Marx? Nelle fabbriche di Shangai, fra i co-co-pro italiani, fra gli stranieri-cittadini delle banlieue francesi, nei supermarket della Walmart in Arkansas? Il poscritto del ’70 alla seconda edizione di “Operai e capitale” era tutto un invito a imparare dalle lotte operaie americane degli anni Trenta, mentre oggi è come se tu avessi girato la telecamera tutta e solo sull’Europa, come Woody Allen…

È il mondo che sta girando davanti alle telecamere. I tempi stanno cambiando, oggi, più per ragioni oggettive che per volontà soggettive. Tanto queste sono generose e deboli quanto quelle sono arroganti e potenti. Vado dicendo che sta prendendo centralità la geopolitica. Lo spazio politico non è più quello delle piccole nazioni, ma quello dei grandi continenti. La verità è che gli Stati Uniti hanno paura di questo mondo che cambia. Noi europei siamo abituati alla decadenza, gli americani no. Non riescono a rassegnarsi: questo spiega la loro nevrosi internazionale. Sì, Marx lo manderei in Cina e in India. Lenin invece lo vedrei bene alle prese con i problemi di organizzazione politica del lavoratore precario: non è che sia questa la figura dell’operaio postfordista? E come si porta in un call-center la coscienza politica dall’esterno? E in una banlieue l’idea che bisogna fare sindacato e fare partito? E in un Cpt la pratica non dell’integrazione ma dell’insubordinazione? È dura. Marx ce la può fare a farci capire ancora. Lenin, a farci ancora agire, è un po’ più in difficoltà. Ma c’è sempre la misteriosa curva della sua retta…

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As Bestas, il popolo della discordia

(Pubblicato su Machina, giugno 2023)

La mattina del 19 gennaio 2010 a Santoalla, una “parrocchia civile” del comune di Petin in Galizia, Martin Albert Verfondem prese la sua Chevrolet per andare a fare la spesa al mercato e scomparve nel nulla. Olandese e ambientalista, Verfondem voleva vivere in un luogo dove non ci fosse traccia di nucleare, e perciò nel 1997 si era trasferito a Santoalla con la moglie Margo Pool, al lato opposto dell’unica famiglia residente nel villaggio, i coniugi Manuel Rodriguez e Jovita Gonzales e i loro due figli Juan Carlos e Julio. Inizialmente amichevoli, i rapporti con i Rodiguez si erano guastati quando Verfondem aveva impedito a un’azienda energetica di installare sui suoi terreni 25 pale eoliche in cambio di 6000 euro. Erano cominciati allora, da parte dei Rodriguez, minacce e sabotaggi continui ­– danni al raccolto, capi di bestiame uccisi, inquinamento dell’acqua – che Verfondern dal 2009 aveva preso a documentare con filmati e registrazioni. Ci vollero più di quattro anni perché la Guardia Civil ritrovasse i resti decomposti di Verfondern nel bosco, a 12 km di distanza dal villaggio, e perché i due figli dei Rodriguez confessassero l’omicidio: era stato Juan Carlos, affetto da gravi disabilità mentali, a uccidere l’olandese sparandogli dal finestrino dell’auto col fucile da caccia, mentre Julio si era occupato di occultarne il cadavere. I genitori dei due assassini morirono durante il processo ai figli, e Pool rimase l’unica abitante di Santoalla, dove seppellì le ossa del marito. 

Ricalca questo fatto di cronaca vera As bestas – La terra della discordia, l’ultimo film del regista spagnolo Rodriguez Sorogoyen, presentato a Cannes nel 2022 e distribuito in Italia a aprile di quest’anno. Ma lo ricalca dandogli un colore (la luce bassa e cupa di una Galizia tutta interna che non vede mai il mare), un ritmo (la musica graffiante e incalzante di Olivier Arson), una voce (i dialoghi in spagnolo, galiziano e francese, dove la comunicazione avviene per fraintendimento), e infine una suspence ansiogena che fanno di quel fatto, già di suo macabro e inquietantissimo, una metafora iperrealistica delle contraddizioni senza soluzione in cui versano l’esistenza sociale e l’afasia politica nell’Europa di oggi. 

Nel film Olga (Marina Fois) e Antoine (Denis Ménochet), i due protagonisti, non sono olandesi bensì francesi, un motivo di più per suscitare la diffidenza dei loro vicini oriundi del luogo, i fratelli Xan e Lorenzo Anta: “I francesi vennero a conquistarci ai tempi di Napoleone pensando che fossimo idioti, e tu lo pensi ancora”, è l’incipit della sequela di provocazioni con cui Xan aggredisce Antoine nel bar del paese. Antoine non raccoglie. Ex insegnante, si è trasferito con la moglie in Galizia per realizzare il sogno della terza età, ristrutturare un casale e vivere di agricoltura biologica. Ma l’avvelenamento del primo raccolto di pomodori è il segnale che la guerra è cominciata: gli Anta hanno avvelenato col piombo di due batterie l’acqua del pozzo. Seguono agguati con la macchina messa di traverso sulla strada per il villaggio, sputi in faccia, spionaggi notturni, intimidazioni violente. Come nella realtà, anche nel film l’oggetto della contesa è il voto contrario della coppia straniera all’installazione nel villaggio di nuove pale eoliche, che andrebbero ad aumentare il parco già consistente di quelle disseminate nei dintorni. Per quelle pale un’azienda scandinava pagherebbe quanto basta per alimentare nei “nativi” i sogni di un salto di status, e per distruggere il sogno neo-bucolico dei nuovi arrivati.       

Le aggressioni aumentano, Olga comincia a preoccuparsi e contro il suo parere Antoine prende a documentarle con una telecamera nascosta in tasca. Porta i filmati alla polizia, ma ne riceve solo un rimbrotto per aver invaso la privacy dei vicini e un invito “a non approfittare della sua superiorità intellettuale” sui due poveracci. Olga capisce che suo marito è in serio pericolo di vita; ma Antoine è francese e progressista, e crede nella dea ragione e nel dialogo. Offre da bere a Xan e Lorenzo e prova a parlare con loro a viso aperto, incurante di una verità con cui tutti i progressisti del mondo stentano a fare i conti: che ci sono situazioni in cui il linguaggio non può nulla, la ragione collassa, la dialettica non risolve la contraddizione e il vento del progresso spira al contrario. 

Il confronto serrato fra Antoine e i due fratelli è, da questo punto di vista, un piccolo capolavoro di filosofia politica. Lui spiega pacatamente il progetto disarmato e gratuito che lo ha portato lì, Xan gli risponde implacabile “tu non sei di qui, sei forestiero, sono due anni che giochi a fare l’agricoltore. Noi siamo qui da sempre, io da 50 anni, Lorenzo da 47, nostra madre da 70, questa è casa nostra. Eravamo disgraziati e rassegnati finché non sono venuti quelli delle pale a offrirci dei soldi. Quei soldi mi servono per andarmene da qui e comprarmi un taxi, sono un mio diritto e tu ti sei messo di traverso fra me e questo mio diritto. Te ne devi andare da qui”. Del resto non è solo, e forse nemmeno prioritariamente, una questione di soldi: “Lorenzo da ragazzo era bello, un giorno l’ho portato a puttane ma noi puzziamo di merda e le donne non ci vogliono. Io voglio avere una donna, come ce l’hai tu, e un figlio, ma qui di donne non ce n’è”. Inutile replicare, come tenta di fare Antoine, che quei soldi non gli basterebbero per rifarsi una vita e che peraltro sono soldi sporchi perché “i norvegesi” vogliono piazzare le pale in Galizia per non averle fra i piedi a casa loro, inutile promettere che lui e Olga sono disposti ad andarsene ma solo dopo aver recuperato le perdite dovute al sabotaggio del raccolto: la contraddizione è di quelle che non consentono mediazione, ma solo l’eliminazione di una delle due parti in conflitto. E infatti Antoine verrà eliminato, soffocato in un agguato nel bosco dai due fratelli come i cavalli della scena iniziale del film – as bestas, appunto.

C’è nelle sinistre sconfitte di tutte le democrazie occidentali un inconcludente dibattito sul popolo perduto, che presuppone che il popolo abbia sempre ragione, o abbia sempre le sue incontestabili ragioni, cui le destre sanno dare delle risposte per quanto sbagliate, mentre le sinistre non sanno più riconoscerle, rappresentarle e soddisfarle. C’è del vero, ovviamente, non tanto perché la sinistra non riesce più a rappresentare il suo popolo, quanto perché, come direbbe Ernesto Laclau, non riesce a costruirlo con un discorso dotato di presa egemonica. E tuttavia si tratta di un dibattito consolatorio, perché imputa esclusivamente al politico una crisi che invece è intrinsecamente del sociale, di un sociale “disfatto” – nel duplice senso del disfacimento e della disfatta – dalla globalizzazione e dal neoliberalismo lungo linee di frattura ormai incomponibili anche dal più acuto ed egemonico discorso politico. 

Il popolo periferico degli Xan,  il popolo degli emarginati dallo sviluppo, il popolo dei forgotten dalla globalizzazione, il popolo che vota per Trump, per la Brexit e per Giorgia Meloni o Matteo Salvini, il popolo abbarbicato a una nostalgia identitaria difensiva e aggressiva o interrato in una radice indigena e proprietaria che gli fa vedere un nemico da eliminare in qualunque “straniero” e uno snob “da ztl” in qualunque progressista, è un popolo che certamente ha “le sue” ragioni, che nascono, come nei fratelli Anta del film, da una condizione di marginalità e deprivazione. Ma è un popolo perduto da ritrovare, o un popolo irredimibile da lasciar perdere? Per dirla in termini più semplici: se va a destra è perché la sinistra non capisce le sue ragioni, o perché le sue ragioni non sono declinabili altro che nei termini identitari, xenofobi e proprietari della destra, e non sono compatibili con una prospettiva di trasformazione che comporti la rinuncia alle fissazioni identitarie, la relazione con il diverso, la sintonia con la vita del pianeta?   

Ben più in profondità del noto e stagionato conflitto fra centro e periferia, aree urbane e aree interne, ecologia e economia, il film di Soroyen mette drammaticamente in scena questo dilemma politico, riflesso di una contraddizione sociale che ha tutta l’aria di essere incomponibile. E che nel film non è l’unica: con non minore drammaticità le si sovrappongono la contraddizione di genere e quella generazionale. L’intera sequenza in cui la tragedia prende forma e precipita è contrassegnata da un’impronta maschile: maschi sono gli attori, maschi gli incontri alcolici al bar, maschio il linguaggio violento dei due fratelli, maschia, ancorché pacata, la reazione razionalista di Antoine con relativa sordità all’intuizione del pericolo da parte di Olga, maschio il corpo a corpo nel bosco in cui Antoine viene assassinato. La sfida fallica, lo sappiamo dalle guerre, si presenta sempre come un’escalation necessitata e senza alternative: eppure “c’è sempre un’altra soluzione”, prova a dire inascoltata Olga ad Antoine.

Ma un’altra soluzione comporta un salto di registro. Dopo che Antoine scompare nel nulla, Olga “sente” che è morto, e cambia priorità, linguaggio e prospettiva. Non è la sete di vendetta e nemmeno il desiderio di giustizia a guidarla, bensì il lutto, l’urgenza di ritrovare il corpo del marito e di dargli sepoltura in quel posto che insieme avevano scelto per vivere e per morire: il resto verrà da sé. Per mesi, instancabilmente e ossessivamente, Olga batte la campagna metro per metro alla ricerca di una traccia dell’omicidio, nell’indifferenza passiva della polizia che le presterà ascolto solo quando lei ritroverà la telecamera piazzata su un albero da Antoine un attimo prima di finire soffocato: c’è sempre bisogno di una prova tangibile e certificata perché la parola di una donna, di qualunque donna,  superi l’esame di attendibilità cui gli uomini in divisa la sottopongono sotto tutti i regimi politici e sotto tutte le fedi religiose. Quando finalmente il bosco restituirà il cadavere di Antoine e i due assassini verranno arrestati, fra le due superstiti della tragedia, Olga e la madre degli Anta, sarà possibile siglare la pace: “I tuoi figli hanno ucciso mio marito e andranno in prigione. Tu resterai sola, come me. Che facciamo? Se hai bisogno, io ci sono”. Il salto di registro dalla sfida fallica fra i tre uomini al patto di convivenza fra le due donne si compie grazie alla capacità di Olga di fare la differenza rispetto a un ordine socio-simbolico che traveste di necessità la perpetuazione all’infinito della catena della violenza.

È lo stesso segno della differenza sessuale che consente a Olga di recuperare, insieme con il cadavere del marito, il rispetto e l’amore della figlia Marie, che contesta a sua volta violentemente l’attaccamento di sua madre al luogo che le ha inghiottito il padre. Come prima quello fra Antoine e gli Anta, anche il confronto fra madre e figlia non può evitare un passaggio duro e perfino spietato, che di nuovo demolisce le pretese della dialettica e sembra senza soluzione, incastrato com’è fra la triangolazione edipica, che inchioda Marie all’amore per il padre e alla rivalità con la madre, e il conflitto generazionale fra una madre boomer, che percepisce il fallimento dell’educazione “liberal” impartita alla figlia, e una figlia millennial, rassegnata a un’esistenza precaria e senza grandi prospettive lavorative e affettive. Ma anche in questo caso la soluzione si fa strada attraverso qualcosa che viene prima e conta più delle parole, e che stavolta non è la violenza dell’eliminazione dell’altro bensì il suo contrario, la scoperta di Marie dell’amore che legava i genitori e che scioglie come neve al sole i grumi rivendicativi della sua rabbia contro Olga e contro il mondo. 

La genealogia femminile alla fine prevale sulla soggettivazione edipica che vincola l’accesso all’ordine del padre alla rottura del legame con la madre. E prevale senza fanfare, senza vittoria, senza rivendicazioni paritarie, senza promesse palingenetiche, fedele alla tessitura sotterranea di una differenza femminile che quotidianamente disfa e ricostruisce un legame sociale altrimenti condannato a esplodere nella guerra civile endemica nella quale oggi tutte e tutti ci sentiamo gettati. 

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Dopo Berlusconi. Il lutto che resta da fare

(Pubblicato su Internazionale.it il 14/6/2023)

La prospettiva della malattia e della morte ha accompagnato la vita di Silvio Berlusconi come uno spettro, o meglio come un doppio innominabile che egli allontanava da sé ed esorcizzava con ogni mezzo, dall’ottimismo illusorio dell’eterna giovinezza alla chirurgia plastica alla costruzione della propria tomba monumentale nel giardino di Arcore. Era probabilmente, come si direbbe in termini psicoanalitici, il suo fantasma fondamentale, l’ossessione rimossa che muoveva tutto il resto, come un generatore di energia piantato su un terreno franoso. Ma si sa, tutti gli umani sappiamo e anche Berlusconi non poteva non saperlo, che quello spettro, quale che sia la sua presa sul nostro inconscio, è destinato prima o poi a materializzarsi. L’ora della fine arriva, per tutti. Una biografia politica che ha fatto epoca si chiude, senza che sia risolta una sola delle immani questioni che essa ha aperto in un paese plasmato a propria immagine e somiglianza. 

La matrioska vincente

Per soli sei mesi Berlusconi ha mancato il trentesimo anniversario della sua famosa “discesa in campo” del 26 gennaio 1994, diventata nella memoria collettiva l’evento periodizzante che segna il confine fra la (cosiddetta) prima e la (cosiddetta) seconda repubblica italiana. Nessuno dei commentatori più autorevoli credette, all’epoca, che quella dichiarazione emessa via etere dal fondatore di Fininvest – “l’Italia è il paese che amo” – avrebbe davvero conquistato il cuore di un elettorato traumatizzato da Tangentopoli e dalle stragi di mafia, che cercava nella magistratura la via d’uscita dalle macerie del sistema politico. Invece – amor ch’a nullo amato amar perdona – lo conquistò, con la promessa di un futuro radioso che come per magia avrebbe riscattato “un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. 

Il voto del 27 marzo 1994 consegnò dunque l’Italia a Silvio Berlusconi mutandone radicalmente l’assetto politico con tre novità, incastrate l’una dentro l’altro come una matrioska vincente. Per la prima volta un partito-azienda, interamente incentrato sulla figura del leader e conformato al linguaggio della televisione commerciale e della pubblicità, irrompeva nell’arena politica. Per la prima volta questo partito – centrista, ma con riconoscibili ascendenze culturali craxiane – si alleava stabilmente con due formazioni di destra, sdoganando il partito neofascista di Gianfranco Fini, fino ad allora confinato fuori dall’arco costituzionale, e regalando uno statuto nazionale alla Lega Nord di Bossi, fino ad allora confinata in una dimensione regionale. Per la prima volta, questa coalizione di centrodestra realizzava – intestandosi un processo più largo e già in corso – la bipolarizzazione di un sistema politico che per mezzo secolo aveva funzionato su base proporzionale. 

L’insieme di queste tre mosse conferì a un’avventura spiccatamente personale come quella di Berlusconi un rango sistemico, facendogli guadagnare sul campo quel ruolo di fondatore della seconda repubblica che egli non riuscirà a inscrivere nella tanto agognata quanto mancata riscrittura della Costituzione, ma che gli assicurerà una centralità più solida dei suoi quattro governi (1994-95; 2001-2005; 2005-2006; 2008-2011) e un’influenza più duratura della sua stagione trionfante. Il che spiega perché il (quasi) ventennio successivo alla sua discesa in campo sia passato alla storia come “ventennio berlusconiano” pur essendo stato interrotto da cinque governi dell’Ulivo (dal 1996 al 2001 e dal 2006 al 2008), e perché il suo ruolo sia rimasto importante anche dopo la sua definitiva defenestrazione da Palazzo Chigi nel 2011, sotto il tiro incrociato degli effetti del sexgate, della crisi finanziaria e della condanna per frode fiscale, quando inizia irrimediabilmente la sua parabola discendente. 

Impronte di granito 

Se è vero infatti che l’ultimo decennio fa storia a sé (con l’ingresso in scena di un soggetto politico “né di destra né di sinistra” come il Movimento 5 Stelle, la conseguente ancorché temporanea rottura della logica bipolare, l’alternanza di governi “tecnici” di larghe intese e di governi “populisti” trasversali), è altrettanto vero che Berlusconi ha continuato a condizionarne l’andamento, oltretutto trasformando con notevole sapienza la propria immagine di politico dell’eccezione permanente in quella più rassicurante di garante moderato (e moderatore) del sistema, fino a proporsi come candidato alla presidenza della Repubblica nel 2022. Ed è vero, soprattutto, che l’assetto politico con cui ci troviamo ad avere a che fare oggi è interamente debitore di quella decisiva svolta impressa da Berlusconi alla storia politica nazionale del lontano ’94. 

Per quanto trasformata da centro-destra in destra-centro, con Forza Italia in posizione minoritaria rispetto ai più estremisti alleati, la bizzarra e contraddittoria coalizione che allora venne messa al mondo è di nuovo saldamente al governo, con scarsissime speranze per il centrosinistra di scalzarla. E per quanto il sovranismo postfascista di Giorgia Meloni urti per più di un verso con la visione del mondo berlusconiana, indubitabilmente assai più gaudente e meno illiberale, nessuna delle guerre culturali di oggi – dal revisionismo storico galoppante alle professioni di anti-antifascismo, dal razzismo anti-migranti alla crociata anti-gender – sarebbe stata possibile senza lo sdoganamento delle destre radicali antiche e nuove che ha contrassegnato il ventennio berlusconiano. Ben prima dell’ascesa di Meloni, del resto, bastano i fatti di Genova 2001, dove Fini fu il braccio armato di un Berlusconi che preferiva badare alle fioriere, per testimoniare il sodalizio tutt’altro che contingente fra due destre pure così diverse; anche se da questo punto di vista Berlusconi se ne va nel momento meno opportuno, quando avrebbe forse potuto calmierare gli spiriti bellicisti e i disegni europei della presidente del consiglio. 

         Per restare al piano politico, l’impronta di Berlusconi permane peraltro, granitica, sull’intero catalogo delle forme dell’agire pubblico che con lui e dopo di lui si sono imposte sulla crisi senza ritorno della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il partito personale e la personalizzazione della leadership, la mediatizzazione del discorso politico e la trasformazione dell’agorà democratica in arena televisiva, l’appello al popolo senza intermediazioni come cifra del populismo, l’identificazione fra il popolo e il capo e la democrazia dell’applauso, l’intreccio fra biografia personale, interessi patrimoniali privati e esercizio della funzione pubblica disegnano la fenomenologia di una decomposizione della politica e di una deformazione della democrazia che dilagano ormai su scala planetaria, e che nel berlusconismo hanno trovato un laboratorio anticipatore e a suo modo, occorre riconoscerlo, geniale, a fronte di una sinistra distratta, nel peggiore dei casi complice e nel migliore attardata su schemi culturali usurati. 

Il nocciolo insondato 

E tuttavia, quando parliamo di berlusconismo, ognuno/a di noi sa che parliamo anche di qualcos’altro, di un nocciolo che rimane per molti versi insondato, che ha sedotto e plasmato la società italiana e attorno al quale si annoda tuttora il rapporto fra l’immaginario collettivo e lo spettro di un leader da tempo finito eppure tuttora incombente. Per mettere a fuoco questo nocciolo è mancata a lungo, e tuttora manca, la giusta distanza, in una società divisa verticalmente fra l’ammirazione prona e il disprezzo altero nei confronti di Berlusconi (“Ci alziamo troppo di fronte alla sua presupposta bassezza. Ci abbassiamo troppo di fronte alla sua presupposta altezza”, scrisse profeticamente Alberto Abruzzese nel ’94). Tanto meno ha aiutato questa messa a fuoco il moralismo giustizialista di cui si è nutrito un vasto fronte antiberlusconiano, pago di liquidare come escrescenza immorale e illegale un fenomeno che rinvia a trasformazioni antropologico-politiche irriducibili al trentennale duello fra l’ex premier e le procure (36 processi, 100 avvocati al lavoro e una sola condanna definitiva fra assoluzioni, archiviazioni, prescrizioni e amnistie). 

Se dall’imponente bibliografia sull’avventura biografica e politica del Cavaliere si sottraggono i troppi titoli che la riducono a colore e folklore, tre sono gli approcci critici più ricorrenti. Il primo approccio imputa a Berlusconi la sua radicale anomalia (conflitto d’interessi, leggi ad personam, attacchi reiterati alla costituzione) rispetto alla norma e alla normalità liberaldemocratica, alla faccia della “rivoluzione liberale” da lui sbandierata agli esordi. È un approccio depistante, che riporta al modello liberaldemocratico classico la controrivoluzione prettamente neoliberale che Berlusconi ha guidato in Italia e che da mezzo secolo in qua  demolisce la liberaldemocrazia in tutto l’occidente, sottomettendo la vita individuale, le relazioni sociali e l’architettura istituzionale al codice della merce e del mercato, all’etica dell’autoimprenditorialità e della concorrenza, a una concezione della libertà svincolata dalla responsabilità e dalla legge.  

Il secondo approccio insiste giustamente sulla potenza dell’impero televisivo di Berlusconi nella costruzione del consenso politico, ma rischia di sottovalutare la valenza seduttiva di una operazione programmatica di trasposizione della realtà in reality e fictionche prima del voto ha cambiato la testa e la pelle di un popolo ridotto a audience, dalla capacità di discernere fra vero e falso alla sensibilità estetica. Il terzo punta il dito sullo sfondamento della proposta berlusconiana nel blocco sociale nato sulle ceneri del fordismo (piccola impresa, partite Iva, lavoro cognitivo e creativo) e privo di ascolto e rappresentanza a sinistra, ma non spiega come questo radicamento originario si sia immediatamente trasformato in un consenso trasversale, nazionale e interclassista, base rocciosa di un populismo che Berlusconi ha inaugurato e che dopo di lui ha solo cambiato forma e interpreti. Nessuno di questi tre approcci, infine, spiega fino in fondo l’installazione così duratura dell’icona di Berlusconi nell’immaginario italiano, una installazione che al di là della fascinazione per il self made man di successo e per il tycoon miliardario e chiama in causa il rapporto fra le identificazioni collettive, consce e inconsce, e il profilo della leadership politica.  

Un capo post-edipico

L’esperimento berlusconiano andrebbe più precisamente collocato all’incrocio fra tre tendenze: la già menzionata controrivoluzione neoliberale; il cambiamento del regime del vero e del falso, del visibile e dell’invisibile, del dicibile e dell’indicibile innescato dalla mediatizzazione della sfera pubblica; e la trasformazione dell’ordine simbolico che nella letteratura psicoanalitica va sotto il nome di eclissi della legge del padre, con le relative conseguenze sul declino dell’autorità e della legalità, e nella letteratura femminista va sotto il nome di fine del patriarcato, con le relative conseguenze sul ruolo della virilità, sulle relazioni fra i sessi e sullo stato complessivo del legame sociale. Collocata all’interno di questa trasformazione dell’ordine simbolico, l’icona di Berlusconi acquista il profilo più preciso e più inquietante di un leader post-edipico e post-patriarcale, che non incarna la legge ma il godimento e la trasgressione, e che tenta di ripristinare il ruolo perduto di una virilità vacillante seducendo le donne con l’arma ricattatoria del potere e della ricchezza. Uno specchio riflettente ideale per un paese che con la legalità ha sempre avuto un problema e che con la libertà femminile non ha mai fatto i conti. 

È il profilo di Berlusconi che emerge dal cosiddetto sexgate, 

quando, grazie alla presa di parola pubblica di alcune donne, prima fra tutte l’allora moglie del premier Veronica Lario, venne alla luce il sistema di scambio fra sesso, potere e denaro che legava senza soluzione di continuità la vita privata di Berlusconi e la sua vita pubblica, accomunate dallo stesso regime del godimento, dalla stessa amoralità, dalla stessa concezione della libertà come libertà di mercato, dalla stessa convinzione che tutto si può ridurre a merce e tutto si può vendere e comprare, dalla stessa ingiunzione alla trasgressione, dallo stesso esercizio di un potere sorretto da una corte di imitatori e di ruffiani. Lungi dall’essere l’incidente di percorso secondario cui fu ridotto all’epoca e cui tuttora il coro celebrativo post-mortem di Berlusconi tenta di ridurlo, il sexgate fu l’imprevisto che squarciò il velo del sistema, e per giunta all’indomani del tentativo più riuscito di Berlusconi di legittimarsi, col celebre discorso di Onna, come padre della patria. 

Ma sotto quel velo squarciato non c’era un padre della patria, c’era il Papi delle “cene eleganti”. Non c’era l’identificazione conscia con un leader ricco e potente, ma l’identificazione inconscia con un trucco: il trucco di una potenza millantata, sessuale e politica, a copertura del fantasma persecutorio dell’impotenza, politica e sessuale. Il re era nudo, a denudarlo erano state le sue stesse donne, la moglie e la favorita in sequenza, e a dichiarare la sua parabola conclusa furono le centinaia di migliaia di donne scese in piazza per dire basta, ben prima che i leader europei, approfittando della sua ormai acclarata vulnerabilità, inchiodassero l’ex premier alle sue responsabilità sul debito pubblico italiano e sullo spread. 

Un lutto inaggirabile 

L’ultima polemica, in morte di un leader divisivo, spacca ora il paese fra chi accetta e chi rifiuta il lutto nazionale che dovrebbe unificarlo. Sono sacrosante le ragioni di chi lo rifiuta, ma più importante a me sembra che un lutto, finalmente, si faccia. L’uomo Berlusconi muore adesso, ma il politico era finito nel 2011 ed era finito senza alcun lutto, e anche per questo politicamente non era stato sepolto ed era sopravvissuto a sé stesso per più di dieci anni: il passaggio dello scettro da Berlusconi a Monti, disposto nel 2011 dal Quirinale evitando il rito elettorale, garantì allora una transizione passiva dal carnevale del godimento alla quaresima dell’austerity, senza elaborazione di ciò che finiva e ciò che cominciava o di ciò che del passato rimaneva nel presente e nel futuro.

Come tutti i leader narcisisti che infestano la scena mondiale, Berlusconi non ha allevato successori in casa, anche se può rivendicare molti imitatori all’estero a partire da Donald Trump. Lascia un paese che sotto la sua egemonia luccicante ha imboccato trent’anni fa una via del declino senza ritorno, una politica stravolta nella grammatica e nella sintassi, un’informazione definitivamente trasformata nei contenuti e nel linguaggio, una giustizia perennemente sotto attacco, una società modificata nel corpo e nell’anima, una erede riluttante che ambisce a siglare con un sigillo femminile il ripristino dell’ordine tradizionale dopo il disordine post-patriarcale in cui lui navigava col vento in poppa. Ma soprattutto lascia sottotraccia quell’identificazione inconscia nella maschera di una potenza che copre l’impotenza, un’identificazione depressiva che continua ad ammutolire la protesta sociale e a fare la fortuna di leader inventati, votati non per quello che sanno fare ma per come riescono a nascondere quello che non sanno o non possono fare. Elaborare il lutto della fine di Berlusconi significa farla finita con questa identificazione depressiva, e voltare finalmente pagina. 

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Lo scongiuro anti-antifascista

Pubblicato su centroriformastato.it il 24 aprile 2023

La strategia in tre mosse della destra meloniana sul fascismo e l’antifascismo, una guerra culturale cruciale per ribaltare l’egemonia della sinistra sulla visione della storia nazionale. Con il contributo decisivo della stampa liberale mainstream, e la copertura del sostegno alla resistenza ucraina.

Non c’era bisogno delle esternazioni del ministro Lollobrigida sulla “sostituzione etnica” per rendersi conto delle matrici culturali di chi ci governa (con, è bene ricordarlo per restare ancorati al principio di realtà, non con la maggioranza ma con il 13% dei voti dell’elettorato). Bastava quello che è successo poche settimane fa in quel di Cutro, con quella concezione gerarchizzata delle vite che contano e che non contano sottostante al mancato soccorso dei naufraghi, e delle morti che contano e che non contano sottostante all’ostentata indifferenza con cui la presidente del consiglio ha evitato di posare anche solo uno sguardo sulle bare delle vittime. Che cos’altro se non questa gerarchizzazione delle vite e delle morti porta alla “soluzione” dei campi, di concentramento e sterminio ieri e di detenzione e tortura oggi, nello stesso momento in cui, ieri e oggi come ieri, si piange sulla denatalità e si celebra la donna come madre della nazione e dei nativi?  

Nemmeno c’era bisogno dell’annuncio del 25 aprile praghese di Ignazio La Russa, con annessa barzelletta sull’assenza dell’antifascismo nella Costituzione, per assodare quale sia la strategia degli ex-post-neo fascisti rispetto al fascismo e all’antifascismo. Bastava il suo discorso di insediamento alla seconda carica dello Stato, giudicato all’epoca con connivente clemenza dalla stampa mainstream, e bastava pure l’autobiografia di Giorgia Meloni, per capire che la suddetta strategia non è estemporanea, non è una mera provocazione, non divide bensì unisce la presidente del consiglio e i suoi “fratelli”, e si articola in tre mosse. Prima mossa: equiparare nazifascismo e comunismo sotto il titolo comune di totalitarismo, e non concedere alcuna presa di distanza dal primo senza pretendere in cambio l’abiura del secondo, anzi rivendicare, come eredi del fascismo, un processo di democratizzazione avvenuto che gli eredi del comunismo non avrebbero invece portato a compimento. 

Seconda mossa, la più specificamente meloniana: identificare l’antifascismo della Resistenza con l’antifascismo militante degli anni 70 (e quest’ultimo con i suoi episodi più scriteriati e nefasti tipo l’incendio di Primavalle, oggetto nei giorni scorsi di una campagna cinicamente strumentale sui giornali della destra all’unisono), in modo da poter continuare a vittimizzare “i fratelli allora morti sul selciato” (ovviamente esentandoli da qualunque corresponsabilità nello stragismo neofascista del quale sempre si tace ), e in modo da poter continuare a sostenere che i conti in sospeso in Italia non sono quelli con il fascismo, bensì quelli con l’antifascismo. Terza mossa: derubricare il fascismo a un incidente di percorso nella lunga storia della “nazione”, ad esempio annacquando il senso della data del 25 aprile in una lista insensata di date che vanno dal 17 marzo, proclamazione del regno d’Italia nel 1861, al 18 aprile, vittoria della Dc sul fronte socialcomunista nel 1948, al 9 novembre, caduta del Muro di Berlino nel 1989.

         Sono i tre cardini di una “guerra culturale” condotta dal governo nella piena consapevolezza che attraverso di essa passa gran parte del tanto agognato trasferimento di egemonia dalla sinistra alla destra nella storia repubblicana. Grave errore è considerare questa guerra un diversivo per distrarre l’opinione pubblica dalle inefficienze del governo sui problemi del presente, vedi l’inflazione o il Pnrr, con il cabaret sul passato. La visione del passato e l’azione nel presente sono com’è noto sempre intrecciate. E infatti questa visione del passato è confermata e corroborata dall’azione di governo per come si è configurata fin qui: corporativizzazione della società e dell’economia, xenofobia galoppante, attacco ai diritti sociali e civili, demolizione della forma di stato repubblicana con le annunciate riforme del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, rivalutazione del passato coloniale (la visita di Meloni in Etiopia senza una parola sulle nefandezze lì compiute da Mussolini e dal generale Graziani oggi monumentalizzato è uno degli atti più indecenti e più sintomatici, nonché più sottovalutati, del melonismo). 

         Ce n’è quanto basta dunque per rilanciare l’antifascismo come postura di lotta politica sul presente e non come celebrazione vuota del passato. Ma ce n’è quanto basta anche per rimettere la questione del rapporto fra presente e passato sui binari giusti, dai quali continuamente deraglia grazie a un dibattito mal posto, che liquida qualunque allarme sui possibili ritorni di fascismo nelle democrazia italiana (e non solo italiana) sulla base di una presupposta incomparabilità fra le nuove destre e il fascismo novecentesco. 

Tralasciamo il fatto, ovvio, che le congiunture storiche diverse sono comparabili per definizione, altrimenti lo stesso lavoro degli storici non avrebbe senso, e che la comparazione con il passato fascista è non solo lecita ma dovuta in un paese come l’Italia che il fascismo l’ha inventato e ce l’ha impresso nel Dna, e veniamo al punto, un tantino più complesso di come viene liquidato. Perché se è vero che dopo mezzo secolo di neoliberalismo il fascismo non può tornare nella sua configurazione novecentesca, statalista, autoritaria e repressiva, è altrettanto vero che ingredienti basilari della cultura fascista possono transitare sotto forme istituzionali e disciplinari diverse da quelle del regime di un secolo fa. E se è vero che le destre radicali di oggi sono fatte da una miscela assai contraddittoria – libertarismo e autoritarismo, moralismo e nichilismo, individualismo e populismo, tradizionalismo e nuovismo, liberismo e protezionismo – e diversa da quella dei partiti fascisti del passato, è altrettanto vero che gli ingredienti di questa miscela si combinano a loro volta con quelli che della tradizione fascista sono i più classici, dal nazionalismo al razzismo al sessismo, il tutto sotto il velo legittimante di forme democratiche svuotate di sostanza. E infatti quello a cui stiamo assistendo non è un ritorno del fascismo storico: è un non meno allarmante riciclaggio democratico della sua cultura politica.

A distinguersi in questa operazione di riciclaggio non è solo il partito dei “fratelli d’Italia” tuttora illuminato dalla fiamma tricolore. È l’area cosiddetta liberale della stampa mainstream, militantemente impegnata con una mano a legittimare la destra radicale di governo come destra democratica destinata a evolvere verso un partito conservatore “europeo” e “normale”, dall’altra a sostenere il teorema di cui sopra della sua incomparabilità con il fascismo storico. Le due cose, a ben vedere, si tengono. Ripetuto come uno scongiuro, il suddetto teorema serve infatti a scongiurare non tanto o non solo un ritorno di fascismo quanto e soprattutto un ritorno di antifascismo: ovvero ad archiviare la forma agonistica conflittuale di una democrazia che si vorrebbe invece anestetizzare nell’alternanza meramente elettorale fra una sinistra che non dev’essere più sinistra e una destra supposta, contro ogni evidenza contraria, “normale” e innocua.

Non basta, perché i tempi sono tempi di guerra e a questi argomenti se ne aggiunge ora un altro, secondo il quale basterebbe lo schieramento senza se e senza ma dalla parte della resistenza ucraina a fornire al governo la credenziale definitiva di democraticità, se non di assunzione sia pure involontaria dei valori dell’antifascismo. Si occulta così il fatto che nella prospettiva di Meloni l’appoggio all’Ucraina coincide con l’allineamento ai valori e alla strategia di Visegrad e dei paesi baltici. Ovvero di quel pezzo di Europa centro-orientale che ha già ricostruito la propria identità nazional-sovranista precisamente sulla base di un revisionismo storico che, partendo dall’equiparazione fra i due totalitarismi novecenteschi, finisce di fatto col derubricare i crimini del nazismo per demonizzare quelli del comunismo sovietico. Non vengono solo da Putin i rischi di un ritorno agli anni più bui del Novecento europeo, e il laboratorio italiano è come sempre solertemente all’opera.

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Diario di una strage annunciata

Pubblicato su Dinamopress il 9 marzo 2023

Otto giorni dopo la strage che ha disseminato di corpi martoriati la spiaggia di Steccato di Cutro, spezzato l’esistenza di più di settanta persone di cui almeno ventotto minorenni, gettato nel lutto decine e decine di famiglie, declassato al cospetto del mondo l’immagine dell’Italia a quella di un paese senza governo e senza cervello, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi si è infine presentato in parlamento non per dimettersi, come qualunque uomo politico dotato di spina dorsale avrebbe fatto. Né per scusarsi delle parole dal suo sen fuggite il giorno stesso della strage, quando ha colpevolizzato le vittime trattandole come scavezzacollo irresponsabili che per lasciare i loro paesi mettono a rischio la vita dei figli. E nemmeno per ammettere la possibilità di avere commesso qualche errore, lasciandosi così aperta una via d’uscita qualora – vedi mai – l’inchiesta giudiziaria dovesse accertare qualche responsabilità sua o del suo amico Salvini. 

No, si è presentato per ribadire il suo brillante teorema capovolto, secondo il quale le migrazioni “irregolari” sono un flagello dovuto all’esistenza degli scafisti e non gli scafisti un flagello dovuto all’impossibilità di migrare regolarmente. E per fare un minuzioso quanto inutile resoconto dei fatti di quella dannata notte della strage che già conoscevamo, tacendo sulle sole tre cose che non sappiamo e che lui era stato chiamato a dirci, ovvero 1) perché la guardia costiera non è intervenuta, o non è stata fatta intervenire,  per portare in salvo un caicco di legno pieno zeppo di persone a bordo in mezzo a un mare in tempesta; 2) perché e in base a quali criteri di fronte all’avvistamento di quel caicco da parte di Frontex è scattata un’operazione di polizia (in gergo law enforcement) con le motovedette inadatte al mare grosso della  guardia di finanza e non un’operazione di salvataggio (in gergo search and rescue, SAR) con le navi adatte della  guardia costiera; 3) a chi e sulla base di quale catena di comando sono riconducibili le decisioni prese, o non prese il che non sarebbe meno grave, quella notte.

Piantato lì da solo dalla premier, che preferisce pavoneggiarsi all’inaugurazione di una sala della Camera intitolata alle “prime donne” e intanto si avoca le deleghe sull’immigrazione, e da Salvini che scappa come un coniglio, il ministro dimezzato prova a confondere le acque in tre mosse. Mente su Frontex, sostenendo che l’agenzia europea non ha segnalato la situazione d’emergenza del caicco, mentre i dati forniti da Frontex ben sette ore prima del naufragio erano più che sufficienti perché le autorità italiane prendessero la decisione, che spettava solo a loro, di aprire una procedura SAR. Entra in contraddizione con sé stesso, quando sostiene che guardia di finanza e guardia costiera, low enforcement e SAR, si coordinano e si completano a vicenda, ma poi non spiega per l’appunto perché non è partita la guardia costiera quando la guardia di finanza ha rinunciato a intervenire a causa delle condizioni del mare. Infine, snocciola un elenco macabro di naufragi e un elenco trionfalistico di salvataggi avvenuti negli anni passati mettendo insieme fatti e situazioni disparati, giusto per derubricare la strage in questione a cose che capitano. 

La performance è penosa, ha il solo effetto positivo di far brillare un’opposizione per una volta, come già in commissione affari costituzionali mercoledì scorso, non indegna di chiamarsi tale, e non spiana certo la strada alla furbata concepita fuori tempo massimo da Giorgia Meloni di convocare il Consiglio dei ministri giovedì a Cutro, dove a occhio e croce non sarà accolta con dei mazzi di fiori. Ma l’insieme del quadretto istituzionale, rafforzato dagli scherani del governo tipo il resuscitato Italo Bocchino spediti nei talk della sera a sostenere l’insostenibile col cinismo stampato negli occhi, risalta tanto più a confronto con quello che per una settimana s’è visto sul campo. Bisognerà ricordarsene, la prossima volta che ci si lambicca il cervello sulla crisi della politica, il tasso di astensione, la sfiducia nelle istituzioni: perché è in situazioni come questa che una democrazia si gioca la pelle, e sulla pelle le cicatrici restano anche quando i riflettori dei media si spengono. 

Perciò riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da tre: il contrasto fra la verità dell’esperienza e le fake news di stato, il rapporto fra lutto e politica, la rotta turco-jonica. Ma tenendo ben conficcate nella mente le immagini che, di persona o in tv, ci è toccato vedere in questi giorni: i cadaveri spiaggiati come balene, la disperazione sul volto dei due pescatori che all’alba erano lì da soli e se li sono visti arrivare addosso, i corpi dei bambini restituiti dal mare con i tratti irriconoscibili, la spiaggia coperta dai legni del caicco e disseminata di scarpe, tutine, flaconi di Nivea e altre tracce di vite quotidiane spezzate, le bare coperte di fiori allineate nel Palamilone con al centro quelle bianche dei bambini coperte di giocattoli e peluche, le madri superstiti di quei bambini  e le loro urla, i bambini delle scuole di Crotone fermi in silenzio davanti alle salme di altri bambini, le file dei parenti delle vittime arrivati da mezza Europa, i presidi laici e la Via crucis cattolica di una società ancora civile. Tutto tenderà a farcele rimuovere o a sostituirle con quelle del prossimo evento mediatico, e tutto bisognerà fare per non lasciarle scivolare via.

Chi sa e chi mente 

Sul campo, nessuno nutre grandi dubbi su come siano andate realmente le cose quella notte. Perché ci sono le sigle cifrate, le leggi, le ordinanze, le direttive, il labirinto delle policiessull’immigrazione in cui ci si perde, ma poi c’è l’esperienza, e se parli con chi ragiona sulla base dell’esperienza il bandolo lo trovi subito. Io sono arrivata a Steccato e poi a Crotone lunedì, il giorno dopo il naufragio, e l’ho trovato nelle parole di Vincenzo, il pescatore ormai noto alle cronache per essere stato il primo, con il suo amico Antonio, a tirare fuori quei corpi dal mare, e poi in quelle di Orlando Amodeo, anche lui ormai noto alle cronache per avere denunciato per primo, domenica sera a “Non è l’arena” su La7, le falle nei soccorsi. Da pescatore, Vincenzo conosce il mare, e sa che da queste parti quando c’è scirocco navighi col vento in poppa fino a riva, ma se incontri una secca sei finito. E da queste parti che a Cutro c’è una secca a pochi metri da riva lo sanno tutti, dai pescatori a chi ha compiti di sorveglianza e di soccorso. Com’è che a nessuno è venuto in mente che quel caicco, lasciato a sé stesso, si sarebbe schiantato sulla secca?  Da medaglia d’oro per il soccorso in mare nella polizia di stato, Amodeo sa come si fanno le operazioni di salvataggio, e smonta subito la prima bufala messa in giro dall’alto, che il mare quella notta era forza 7 e che col mare forza 7 non si può andare a salvare nessuno: falso, il mare era forza 4 e comunque la guardia costiera ha i mezzi per uscire anche col mare forza 7. Perché non è uscita? 

Inseriamo questi due tasselli nel racconto di Piantedosi e poniamo che sia andata così. Alle 22, 30 di sabato l’aereo di Frontex avvista il caicco a 40 miglia dalla costa e lo segnala alle autorità italiane. Dice che è una barca “presumibilmente coinvolta nel traffico di migranti”, con una sola persona sopra coperta e secondo i segnali termici probabilmente molte stipate sottocoperta, condizione che è di suo di pericolo imminente anche se la barca, al momento, sembra navigare senza problemi. Parte la prima navetta della guardia di finanza “per attività di polizia”, e a mezzanotte torna indietro per fare rifornimento; passano due ore e mezza – un po’ tanto per riempire un serbatoio – prima che riparta insieme con un’altra alla ricerca del caicco. Un’ora dopo, alle 3,30, entrambe rientrano in porto a causa delle condizioni del mare, nel frattempo peggiorate. Logica vorrebbe che se ne traesse la conseguenza che la barca avvistata è in pericolo e che va soccorsa; ma la guardia costiera, che potrebbe affrontare i marosi, non viene mobilitata. 

Mezz’ora dopo arriva un SOS ed “è questo il momento preciso in cui per la prima volta – dice Piantedosi – si concretizza l’esigenza di soccorso per le autorità italiane”: alla buon’ora. Soccorso che però non parte. In compenso alle 4,30, quando la barca viene segnalata a 40 metri dalla riva, vengono allertati un team sanitario, i vigili del fuoco e la polizia, evidentemente per accoglierla a terra. Anche un bambino capirebbe a questo punto che il soccorso in mare non è mai stato preso in considerazione. Per dolo? Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Per negligenza? Difficile che una negligenza possa durare la bellezza di più di sei ore. Più probabilmente per un calcolo sbagliato: che col vento in poppa il caicco sarebbe comunque riuscito ad arrivare a riva, senza che il governo dei porti chiusi e del pugno di ferro compromettesse la propria immagine dura e pura in un’operazione umanitaria di salvataggio, e col vantaggio di poter poi ululare contro l’ennesimo sbarco di “clandestini” e scafisti. Peccato che l’imprevisto, cioè la secca, ci abbia messo lo zampino. Trasformando un naufragio in una strage: di stato.

Tanatopolitica e pratiche del lutto

Le stragi si assomigliano tutte nella loro macabra grammatica dell’orrore, e giustamente in tanti hanno ricordato il tragico precedente di Lampedusa del 2013. Ma ogni strage è anche figlia del suo tempo. Oggi siamo in guerra e veniamo da una pandemia, e questa triangolazione, pandemia-guerra-profughi, pesa come una cappa sotto il cielo di Crotone. Spunta involontariamente nelle associazioni mentali, di fronte a quelle bare allineate in cerca di sepoltura – cento loculi disponibili non ci sono nei cimiteri di Crotone e Cutro – che inevitabilmente fanno tornare a galla quelle dei giorni peggiori della pandemia, anche allora i loculi non bastavano. E rimbalza dai racconti dei sopravvissuti, testimonianze di una regione – Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Siria, Palestina – che non trova pace dopo decenni di guerre intestine, tentativi di occidentalizzazione falliti, backlash fondamentalisti: anche Mattarella associa a modo suo ed efficacemente, paragonando i profughi della strage agli afghani attaccati agli aerei in decollo da Kabul durante la ritirata delle truppe americane. E tanto per continuare ad associare sintomi sparsi, il primo reportage italianosull’intensificazione della rotta migratoria fra la Turchia e la costa jonica calabrese, scritto da Annalisa Camilli nel novembre 2021,  raccontava che due anni fa l’organizzazione del traffico era in mano a un’organizzazione clandestina turco-ucraina, che arruolava come scafisti inconsapevoli, e convinti di andare a fare gli skipper da turismo,  i giovani ucraini in fuga fin dal 2014 dall’arruolamento forzato contro i russi nel loro paese. Il naufragio di Cutro è anche metafora, anzi sineddoche, del naufragio di un (dis)ordine mondiale in cui la sequenza guerra-persecuzioni-esodi forzati sono diventati la norma. Chi con una mano chiude i porti e con l’altra arma i popoli dovrebbe mettersi d’accordo con sé stesso.

Di fronte a questa politica che diventa spudoratamente tanatopolitica, le pratiche del lutto diventano pratiche di resistenza generativa: significano la sospensione dal basso di una sequenza di morte ossessiva e senza tregua imposta dall’alto, la messa in comune della morte contro la sua privatizzazione spettacolarizzata, la restituzione della dignità a vite che ne sono state espropriate con la violenza. E non per caso formano una segnaletica che rimbalza di luogo in luogo e di situazione in situazione. Il giorno dopo il naufragio, davanti alla camera ardente del Palamilone ancora chiusa al pubblico, il presidio convocato dalla solida rete cittadina delle associazioni del terzo settore si è svolto su un tappeto di lumini e davanti a una parete di fiori e dediche, una scena che sembrava la fotocopia di quella di Ground Zero dopo l’11 Settembre. 

All’epoca furono due filosofe femministe, Adriana Cavarero e Judith Butler, a rivendicare pioneristicamente la valenza politica delle pratiche collettive di elaborazione del lutto: avevano ragione. E oggi, mentre si rischia l’ennesimo sfregio alle vittime con la decisione del Viminale,  parzialmente rientrata in extremis, di deportare le salme a Bologna contro la volontà delle famiglie di riportarle in Afghanistan, tanto più acquistano valore gesti come la disponibilità di alcune famiglie calabresi ad offrire le proprie tombe,  l’educazione al lutto collettivo delle insegnanti che portano i ragazzi a compiangere i loro coetanei nella camera ardente, la Via Crucis sulla spiaggia della strage come pure la convocazione lì di una manifestazione di donne per l’8 marzo, il pianto silenzioso delle madri dei dispersi che attendono sedute sulla riva che le onde restituiscano i corpi dei loro figli. Pratiche che tagliano e sospendono il cinismo di governo e la saturazione mediatica dell’evento quanto e più efficacemente delle manifestazioni di protesta tradizionali, che pure sono in preparazione: l’appuntamento, nazionale e convocato dall’Arci e da tutte le associazioni che operano nell’accoglienza, dall’Anpi e dalla Cgil, è per sabato alle 14,30, sempre sulla spiaggia di Steccato.

La rotta orientale

Poco illuminata dai riflettori dei media in assenza delle Ong che nel quadrante jonico non operano e non fanno notizia, nell’ultimo anno la rotta turca ha portato in Calabria, sulle più varie imbarcazioni, 17.000 persone, senza tensioni perché da queste parti l’accoglienza non si nega a nessuno e le amministrazioni locali si organizzano senza urlare all’emergenza, come ricorda il sindaco di Roccella che da mesi è la sede privilegiata degli sbarchi. Ma la stessa rotta era già attiva trent’anni fa, ai tempi dei primi sbarchi di curdi perseguitati da Saddam sulle spiagge di Badolato e Soverato, quando furono per l’appunto i rispettivi e coraggiosi sindaci a inventarsi quella formula di ripopolazione con i migranti dei borghi abbandonati poi rilanciata e resa famosa da Mimmo Lucano a Riace. 

Ho ripensato a quei primi sbarchi arrivando in macchina a Steccato, che Wikipedia classifica come località balneare ma è a sua volta un minuscolo centro spettrale,  dove d’inverno non c’è un’anima e le case aspettano l’estate per essere riaperte, di una costa magnifica spopolata dall’emigrazione: come in un cerchio che si chiude e si riapre sempre su sé stesso, per uno scherzo del destino la notizia del naufragio è arrivata il 26 mattina mentre a Riace, cento chilometri più a sud, era in corso una manifestazione di sostegno a Lucano, che è in attesa della sentenza d’appello al processo con cui la giustizia italiana punta a segregare dietro le sbarre lui e il suo esperimento. In trent’anni molte cose sono cambiate, in meglio – l’organizzazione dei soccorsi a terra, l’intermediazione culturale, la distribuzione di chi resta in sedi opportune, grazie soprattutto alle associazioni del terzo settore  – e in peggio, come dimostra per l’appunto la vicenda di Lucano e di Riace. 

Nel corso del tempo, da uno sbarco all’altro, abbiamo imparato che sui migranti sbagliamo tutti. Sbagliano i Salvini e i Piantedosi e le Meloni, che ossessionati dal fantasma persecutorio e squisitamente razzista della “sostituzione etnica” non riescono nemmeno a distinguere un esule con diritto all’asilo da un migrante economico, ammesso e non concesso che anche un migrante economico non sia a sua volta un esule in fuga da condizioni di vita impossibili. Ma sbagliamo anche noi, quando affidiamo a quel nome generico e neutro, “migranti”, pur cambiandone il segno da negativo a positivo, la rappresentazione di una pluralità irriducibile di storie, biografie, relazioni, situazioni che vanno interpellate una per una, singolarmente, con un lavoro di tessitura che altro non è che il lavoro di costruzione difficile e necessario di una società globale. 

Nel corso del tempo è rimasta però sempre uguale la disponibilità all’accoglienza di una regione come la Calabria che ha l’esperienza dell’emigrazione stampata nel suo Dna, come una condanna ma anche come un’apertura ad altro  e all’altro, e che ha la porosità dei confini stampata nel suo profilo geografico di finis terrae affacciata sul mare ed esposta da sempre, in particolare sulla costa jonica, ai venti, alle culture, alle contaminazioni nonché alle invasioni – quelle vere del passato remoto non quelle attuali inventate dai sovranisti – provenienti da Est. Il senso civico delle comunità del crotonese giustamente elogiato da tanti in questi giorni ha queste radici profonde che affondano in una civiltà antica. Magari sarà il caso di ricordarsene prima di rinchiudere questa regione, alla prossima occasione, negli stereotipi che la imprigionano più della criminalità organizzata e dei coefficienti del reddito e del cosiddetto sviluppo.

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Il corpo politico che muove l’Iran

Pubblicato su Italianieuropei 2023/1

“Donne senza uomini” dell’artista e cineasta iraniana Shirin Neshat vinse il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 2009, mentre a Teheran la Rivoluzione verde riempiva le strade e veniva repressa dai paramilitari a suon di manganelli, bastoni, pistole e spray al peperoncino. Il film racconta le storie intrecciate di quattro donne di diversa estrazione sociale durante un’altra rivoluzione, quella del 1953 a sostegno del governo di Mohammad Mossadeq e contro il colpo di stato angloamericano che poi lo depose. La vita pubblica è in movimento e smuove le vite private: come dice una delle quattro protagoniste, “fra tutte quelle voci la volontà che muove tutto, che cambia tutto, si era impossessata di me”. Afferrata dal cambiamento, ciascuna di loro si separerà dalla propria vita precedente per ritrovarsi con le altre a condividere una casa e un giardino, che è anche una metafora dell’Iran: “Ora il giardino ruota su sé stesso. Si sta sgretolando. Sembra ammalato, e non c’è più la strada del ritorno”.

Separarsi dalla vita precedente e dalla pretesa maschile di colonizzarla per cominciare con altre donne un’altra vita è il gesto inaugurale della presa di coscienza femminista, quello che Carla Lonzi definiva “la seconda nascita”. Si tratta, più precisamente, di prendere atto che è la società patriarcale a separare donne e uomini secondo ruoli e gerarchie di genere prestabiliti, e di praticare questa separazione in proprio, come separazione simbolica mentale dal desiderio, dallo sguardo e dai criteri maschili, rovesciandola da matrice di oppressione in fonte di libertà. 

Shirin Neshat è ai miei occhi l’artista che meglio ha saputo esprimere il senso di questo atto simbolico raffigurando e reinterpretando nelle sue opere la più separatista delle società, quella Repubblica islamica che si è imposta in Iran con la rivoluzione khomeinista e che dal 1979 costringe le donne a una sorta di regime di apartheid giustificato arbitrariamente con la legge coranica. Nelle sue serie fotografiche degli anni Novanta (quando le fu concesso di tornare temporaneamente dagli Stati uniti, dove vive, nel suo paese) la separazione obbligata fra i due sessi, catturata plasticamente nelle scene di vita quotidiana in cui donne e uomini si muovono senza mai toccarsi lungo percorsi rigidamente distinti, si trasforma nelle donne in consapevolezza di sé. Da gabbia imposta, il velo nero che le avvolge diventa schermatura dallo sguardo maschile e dalla norma sociale. E da oggetto sequestrato, il corpo femminile diventa soggetto di parola (i versi in parsi di Forough Farrokhzad incisi sulle mani e sui piedi), arma nonviolenta di libertà (il fucile impugnato fra gli occhi, come un impegno alla lotta nello sguardo sul presente e sul futuro), corpo politico.

2. La politicizzazione del corpo femminile, coreografata dalle pratiche performative che abbiamo visto nelle cronache di questi mesi (il taglio dei capelli, i falò accesi per bruciare i veli, i baci e i balli in pubblico, gli assorbenti igienici usati per accecare le telecamere di sorveglianza, le denunce per immagini dei corpi femminili devastati dalle pallottole di gomma della polizia),  è l’elemento distintivo più dirompente del movimento di protesta contro il regime che ormai da mesi non cessa di scuotere l’Iran, scatenato dall’arresto e dalla morte di Masha Amini, giovane curda rea di avere indossato il velo lasciandone fuoriuscire una ciocca di capelli. Ed è anche l’elemento che colloca la rivolta delle iraniane nella genealogia del femminismo radicale novecentesco, e al contempo ne fa l’avanguardia delle rivolte anti-patriarcali che a tutte le latitudini scuotono oggi il mondo globale. Non si tratta solo di contestare l’uso obbligatorio del velo rivendicando il diritto di disporre liberamente del proprio corpo. Nella nascita della Repubblica islamica l’obbligo del velo, proclamato il 1° febbraio del 1979 e subito contestato in piazza dalle iraniane l’8 marzo successivo, segnava l’istituzione di un nuovo patto socio-sessuale, sostitutivo di quello instaurato da Reza Shah nel 1936 con lo svelamento forzato. Se quest’ultimo era stato segno del tentativo di secolarizzazione, modernizzazione e occidentalizzazione dell’Iran, il velo “rivoluzionario” khomeinista simbolizzava la svolta identitaria islamista, nazionalista e antioccidentale, mettendo la sessualità femminile sotto controllo ma esaltando al tempo stesso il ruolo della donna come madre della nazione, mentre il maschile veniva a sua volta ricostruito su base eroica e sacrificale. Far saltare l’obbligo del velo significa dunque far saltare il patto socio-sessuale su cui si regge l’intera impalcatura antropologico-politica del regime iraniano: restituire al corpo e alla soggettività femminile significati, desideri e poteri sequestrati dall’autorità religiosa e politica e perciò stesso restituire alla società iraniana la libertà di tutti, perché dove non c’è libertà femminile non c’è libertà di nessuno, e dove le vite femminili sono imprigionate le società muoiono. “Donna, vita, libertà” non è uno slogan “di genere”, è uno slogan universale.

Stavolta dunque non è in gioco la partecipazione femminile – che pure in passato è stata consistente e importante – alla rivendicazione dei diritti politici, come nella Rivoluzione verde del 2009 innescata dal sospetto di brogli elettorali nell’elezione di Ahmadinejad, o alla rivendicazione di diritti economici e sociali, come nel ciclo di protesta del 2017-’19 innescato dagli effetti dell’inflazione su lavoratori e precari. È in gioco un nocciolo più profondo e strutturale, la soglia fra pubblico e privato e fra personale e politico su cui si collocano il corpo, la sessualità e le relazioni fra i sessi. È sempre su quella soglia che scatta, quando scatta, la potenza sovversiva della libertà femminile, che viene prima dei diritti e non chiede a nessuno il diritto di manifestarsi. Ed è sempre su quella soglia che si decide la tenuta o il cedimento della saldatura fra ordine patriarcale e regime politico, che è precisamente quella che oggi vacilla nella Repubblica islamica. 

 La radicalità del problema spiega dunque la radicalizzazione di un movimento che punta dritto al cuore del regime, la sua differenza dalle ondate di protesta dei decenni scorsi, la sua attrattiva sulle giovani generazioni maschili, anch’esse evidentemente insofferenti a un modello di virilità che non le rappresenta più. Non basta però a spiegare il dato davvero inedito della persistente e riconosciuta egemonia femminile, rigorosamente priva di leadership personali, su una mobilitazione che si è andata allargando di settimana in settimana ad altre istanze, delle aree urbane e rurali, delle minoranze etniche, del mondo del lavoro e di quello della cultura, della scuola e dell’università. Si è fatto ricorso da più parti giustamente, nell’interpretare questo dato, all’intersezionalità che caratterizza il femminismo transnazionale di ultima generazione, e che consiste nella capacità di intrecciare e coalizzare istanze e soggettività relative al genere, alla razza e al sesso, riuscendo così nel nostro caso a catalizzare il desiderio generale di cambiamento maturato nella complessa e stratificata società iraniana. Ma non è da escludere che sulla posizione egemonica femminile incidano anche altri fattori, come la determinazione a interrompere una volta per tutte la sequenza maschile “speranza, tradimento, terrore” (sono ancora parole tratte dal film di Shirin Neshat) prendendo le redini degli eventi. E ancora, un dato che la stessa Neshat portava alla nostra attenzione in una intervista del 2000,   ammonendoci, come è tornata a fare di recente, a non giudicare con i criteri occidentali i rapporti uomo-donna nel suo paese, contestando l’immagine delle iraniane come mere vittime passive dell’oppressione islamica, e valorizzandone invece la combinazione fra autonomia simbolica e rifiuto della competizione diretta con gli uomini: una combinazione per l’appunto egemonica, dalla quale avremmo qualcosa da imparare anche qui.  

3. È impossibile, per chi come me non ha conoscenza diretta di una realtà complessa come quella iraniana che per tanti versi resta indecifrabile dall’esterno, prevedere gli esiti di quanto sta accadendo in quel paese. In compenso, quanto sta accadendo in quel paese ci dice qualcosa di noi spettatrici occidentali, e qualcos’altro dello stato di salute del patriarcato in tutto il mondo. 

Comincio da noi, anzi da me, che giusto poco fa, citando l’invito di Shirin Neshat a non applicare i criteri occidentali ai rapporti fra i sessi nel mondo islamico, mi sono spericolatamente esposta all’accusa di relativismo culturale che è piombata sul femminismo radicale italiano da certa stampa e certa televisione non appena in Iran è scoppiata la rivolta delle donne, insieme con l’accusa congiunta di non solidarizzare abbastanza con loro. Entrambe le imputazioni fanno parte di un teorema fondato sul nulla, che implica l’assimilazione del femminismo a una non meglio identificata sinistra a sua volta accusata di antioccidentalismo, e che si è consolidato da quando nel dibattito pubblico italiano è diventata prassi corrente richiedere tesserini di allineamento allo “scontro di civiltà” fra l’Occidente e il resto del mondo. Dovrei dunque averci fatto l’abitudine; eppure nel caso della rivolta delle donne iraniane l’uso contundente di questo teorema mi ha lasciata particolarmente esterrefatta. 

Intanto perché contrasta patentemente con una relazione a distanza che invece con le iraniane, o almeno con ciò che riusciamo a saperne, è stata sempre viva, precisamente perché la loro vicenda tocca nodi cruciali della nostra pratica, a cominciare da quella del separatismo da cui non a caso sono partita nello scrivere queste pagine. Vale ricordare che nel lontano 1979 fu proprio la comunità femminista, all’epoca nel pieno della separazione dalla politica maschile, a dubitare dell’entusiasmo con cui tante iraniane (nonché parecchie italiane, compresa una mia carissima amica) si unirono ai militanti khomeinisti per partecipare a quella che persino parti della sinistra italiana interpretarono illusoriamente come una “rivoluzione contro il Capitale” (così titolò all’epoca una memorabile e controversa pagina del settimanale del Pci “Rinascita”), e che invece proprio sulla questione del rapporto fra i sessi avrebbe presto rivelato la sua curvatura reazionaria. 

L’accusa di relativismo culturale prende inoltre per connivenza con il nemico quella che è invece la critica autonoma del femminismo radicale all’universalismo occidentale e alle sueconnivenze con il patriarcato. L’annosa disputa sul velo, sulla quale quell’accusa largamente si basa, ne è un esempio emblematico. Essa non divide affatto chi vede nel velo uno strumento di oppressione e chi no, bensì chi ritiene giusto sostituire l’obbligo di velarsi con l’obbligo di non velarsi (come fa ad esempio la legge francese del 2004 sull’uso dei simboli religiosi nello spazio pubblico ) e chi invece lo ritiene sbagliato, in primo luogo perché l’obbligo di non velarsi risponde all’ingiunzione occidentale all’esposizione del corpo femminile che non è meno patriarcale dell’ingiunzione islamica al suo nascondimento, in secondo luogo perché antepone arbitrariamente il valore occidentale della laicità al valore – questo sì universale – della libertà delle donne di decidere del proprio corpo,  ivi compresa la decisione di rifiutare o di risignificare l’uso del velo. 

4. Al fondo di queste dispute c’è un non detto, che riguarda la possibilità o meno di immaginare forme e percorsi di libertà femminile non ricalcate necessariamente sullo schema occidentale, carico peraltro di promesse mancate, dell’emancipazione e della parità di genere: una “libertà senza emancipazione”, come titolava anni fa la rivista della Libreria delle donne di Milano “Via Dogana”. Il caso dell’Iran suggerisce che è possibile, e non gli rende merito ricondurlo, come ha fatto di default tutta l’informazione italiana mainstream, all’ennesima tappa di una marcia trionfale già scritta e prescritta delle donne iraniane verso la conquista dei diritti occidentali, che peraltro oggi in tutto l’Occidente traballano sotto i colpi di destre reazionarie e misogine. 

Si può risalire da qui a un tema più generale, l’ultimo. Tutto il mondo oggi è percorso, a Ovest e a Est, da una profonda crisi del patriarcato, e più precisamente della già menzionata saldatura fra patriarcato e regimi politici, ovvero fra contratto sociale e contratto sessuale. Gli storici del futuro vedranno meglio di noi contemporanei quanto questa crisi abbia a che fare con una crisi della politica da cui tutto il mondo non riesce a tirarsi fuori, come dimostra il continuo, violento e vano ricorso alla guerra da parte dei potenti della Terra. Quello che vediamo noi è un flusso inarrestabile di lotte antipatriarcali, che spuntano come una bolla irriducibile per ogni dove, e con maggiore forza laddove più aspri sono i tentativi di ripristinare la legge del padre con la repressione e la violenza. Ho parlato fin qui del caso iraniano, ma non brilla di meno la lotta delle donne afghane contro la prevedibile reintroduzione della segregazione sessuale nel loro paese da parte dei talebani. 

Diversissimi nelle loro rispettive storie, l’Iran e l’Afghanistan hanno però in comune non soltanto la morsa di due regimi fondamentalisti, ma anche l’esperienza, sia pure distante nel tempo, di due tentativi di occidentalizzazione falliti, che non sono riusciti a sradicare le strutture profonde del dominio maschile e che hanno lasciato nella memoria femminile una traccia indelebile di scetticismo nei confronti delle promesse mancate occidentali. Si può perciò continuare a usare strumentalmente le lotte femminili per alimentare la narrativa mainstream sul destino presunto di occidentalizzazione e democratizzazione del mondo che ha accompagnato l’epoca della globalizzazione trionfante, collezionando peraltro un numero ormai più che sufficiente di smentite. Oppure si può, a mio avviso si deve, vedere nelle lotte femminili il germe maturo non di uno scontro ma di un passaggio di civiltà, e di un’apertura creativa del mondo e della politica a nuove figurazioni che oggi riusciamo solo a intravedere.

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Un anno, ed è subito sera

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 24/2/2023

Solo Vladimir Putin poteva pensare, se davvero come sembra l’ha pensato, che l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata una passeggiata di qualche settimana. Noi comuni mortali, privi della sua hybris, nonché dei suoi servizi di spionaggio farlocchi, quella mattina di un anno fa abbiamo avuto subito chiara una e una sola cosa: che quella lunga fila di carri armati in marcia verso Kiev era un evento di portata enorme; che era arrivato il momento della resa dei conti della storia ricominciata (e non finita, come allora si sostenne), con il 1989; che la guerra stava tornando “nel cuore dell’Europa” per restarci molto a lungo; e che la situazione in cui stavamo precipitando era senza via d’uscita da qualunque punto di vista la si guardasse.

Un anno dopo la situazione rimane bloccata, ma sul terreno giacciono – si stima, per difetto – 300.000 morti, che gridano e grideranno vendetta nei decenni a venire, aggiungendosi alla folla di spettri che ci guardano dal passato della interminabile guerra civile europea dalla quale ci eravamo illusi di essere usciti una volta per tutte nel 1945. E sì, ha ragione Jürgen Habermas quando, scandagliando il “paradigma morale” con cui viene giustificato l’invio delle armi all’Ucraina, ci invita a considerare il fatto che noi europei saremmo tenuti a considerare un imperativo morale non solo punire l’aggressore e solidarizzare con l’aggredito, ma anche rispondere di quei morti dell’una e dell’altra parte.

Un anno, e anche molto meno di un anno, è servito a capire che in Ucraina non si sta combattendo una guerra bensì almeno tre, una dentro l’altra come in una matrioska. C’è la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e di indipendenza dell’Ucraina dalla Russia, c’è la guerra preventiva di Putin contro la NATO e la guerra per procura della NATO contro Putin, c’è la guerra – dichiarata da Putin, sottaciuta dagli USA e dalla Cina – sugli assetti futuri dell’ordine mondiale. Nessuna di queste tre guerre ha una posta in gioco esplicita e definita – il che rende l’impostazione di un negoziato molto ardua, al di là dell’insipienza dei potenti della Terra – perché tutte e tre sono sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky: l’uno vuole che la Russia torni a essere riconosciuta come grande potenza, l’altro vuole che l’Ucraina sia riconosciuta come nazione occidentale a pieno titolo. E non c’è bisogno di scomodare Hegel per sapere che le lotte per il riconoscimento possono essere infinite e diventare spietate. Guerra “esistenziale” si dice infatti ora, per l’uno e l’altro contendente: e sull’esistenza non si negozia. 

La prima guerra dunque è impantanata in un crescendo di devastazione sul lato russo, di armamenti sul lato ucraino. La terza, quella che ha per posta in gioco la ridefinizione dell’ordine mondiale, è appena agli inizi, si combatte per ora soprattutto sul piano economico ma può prevedere altre guerre locali, o trasformarsi in un lungo “regime di guerra” che deciderà a chi spetta lo scettro dell’egemonia nel XXI secolo: ci saranno sorprese, visto che due terzi di  mondo si rifiutano di allinearsi alla versione dei fatti atlantista e stanno cogliendo l’occasione della guerra in Ucraina per presentare all’Occidente il conto di due secoli di colonialismo. 

La seconda guerra, in compenso, sta già dando i suoi frutti: se l’Europa è il suo teatro, l’Unione europea è la sua posta in gioco.  E sul fronte ucraino l’Unione non si è compattata, come predicano ogni giorno i media  mainstream:  si è deformata, con un evidente spostamento di peso politico dall’asse Germania-Francia-Italia a quello Polonia-Paesi baltici, sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti,  che incassano l’indebolimento della Germania,  e del Regno unito, che riconquista manu militari il peso perduto con la Brexit. Il nuovo asse è composto da governi che brillano più per ardore nazionalista che per qualità democratica, è ferocemente antirusso ed è accomunato da politiche di regime della storia e della memoria che per seppellire il totalitarismo comunista chiudono più di un occhio sul totalitarismo nazista. Per l’Unione e per i suoi valori fondativi è una disfatta, che spalanca le porte a quella “Europa delle nazioni” che in casa nostra viene predicata da Giorgia Meloni e che a Strasburgo e Bruxelles si concretizzerà quanto prima in una maggioranza conservatrice. Ma di tutto questo in Italia si parla poco o niente, perché il verbo transatlantico comanda di identificare la causa ucraina con la causa democratica, e tanto basta a sospendere le chiacchiere sui colori, nero compreso, che le democrazie possono prendere.

Sempre in Italia, ma non solo in Italia, un anno e molto meno è bastato per sperimentare un tasso di militarizzazione del dibattito pubblico mai sperimentato prima, nemmeno ai tempi delle guerre contro il terrorismo internazionale. Chi non è allineato alla narrativa mainstream è un traditore dell’Occidente, chi si oppone all’escalation delle armi è un disertore, chi solleva mezzo interrogativo è un ventriloquo di Putin. Del resto, in Germania uno come Habermas, che storicamente è tutt’altro che un pacifista ma oggi osa stilare un appello per un negoziato, viene liquidato come un vecchio signore ingenuo che ha fatto il suo tempo. Questo è lo stato delle democrazie che stiamo armando fino ai denti per sconfiggere gli autocrati.  Un anno è bastato perché, per dirla in poesia, si facesse subito sera.   

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Ruby Ter, il caso è chiuso?

Pubblicato su centrostudiriformastato.it il 16 febbraio 2023

BERLUSCONI, IL CASO E’ CHIUSO?

Nello stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

Ida Dominijanni

Lo stato di diritto è stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?

Nello stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti – l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.

Così almeno dovrebbe essere in uno stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby-ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali. 

Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali – Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga – aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili,  entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra. 

La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra – lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An – l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne – per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier – che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo. 

Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne,  segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale. 

Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato finora grandi frutti, mentre a destra Giorgia Meloni – che all’epoca votò in parlamento che Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” – ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me-too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima. 

Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi esso si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo. 

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L’Iran è vicino

pubblicato su Facebook il 10/12/2022

Un regime che mira agli occhi, al viso, al seno e ai genitali delle donne che gli manifestano contro pacificamente rivendicando vita e libertà, e mira proprio lì per “colpire la bellezza”, è un regime condannato a finire molto presto negli scantinati della storia per non aver capito che quando la libertà femminile si mette in moto non c’è modo di disciplinarla e irreggimentarla. Un regime che impicca un ragazzo di ventitrè anni reo di aver partecipato a una manifestazione, ostruito una strada di Teheran e ferito un paramilitare, e lo accusa di “inimicizia contro Dio” dopo averlo costretto a confessare sotto tortura, è un regime arrivato al capolinea, che ha un bisogno disperato di mostrare i muscoli all’interno e al mondo intero mentre tuttavia tratta in segreto una via di fuga all’estero per i suoi aguzzini.

Mohsen Shekari, cui non è stato concesso nemmeno un ultimo saluto dei familiari, non è la prima e purtroppo non sarà l’ultima vittima della feroce reazione del governo della Repubblica islamica al movimento di rivolta innescato dalla morte di Masha Amini: altri 11 giovani sono già stati dichiarati in lista d’attesa per l’esecuzione, anche loro condannati senza processo e seviziati, mentre la conta dei morti a causa della repressione arriva a 475 di cui 6 minorenni, e quella delle/degli arrestete/i a 18mila. Ma la feroce reazione del regime non basterà a domare una rivolta che non si ferma, malgrado le reazioni tardive e di superficie dei governi occidentali e delle organizzazioni internazionali, che purtroppo non si sa più a che cosa servano.

Per questo mi auguro che la marcia convocata a Roma dal partito radicale in solidarietà con le donne e gli uomini iraniani in rivolta, alla quale purtroppo non potrò partecipare non essendo in città, sia grande ed efficace, pur non condividendo alcune delle motivazioni portate a suo sostegno: ci sono circostanze in cui le ragioni di una mobilitazione superano i distinguo culturali e politici sulla posta in gioco, e questa è una. Con l’auspicio però che di quello che sta accadendo in Iran si possa parlare d’ora in poi con maggior cognizione di causa. Perché purtroppo ne sappiamo ancora troppo poco, malgrado il lavoro prezioso fatto da alcune testate (radioradicale in primis) e malgrado gli altrettanto preziosi seminari convocati nelle ultime settimane da università e fondazioni culturali.

L’Iran è un paese complicato, che periodicamente si rivela decisivo per le sorti del mondo, ma che è difficile decifrare dall’esterno e che è sbagliato giudicare sulla base di codici e parametri occidentali, già clamorosamente smentiti in passato. E’ difficile raccontare oggi alle generazioni più giovani l’impatto spiazzante che sulla generazione degli anni Settanta ebbe la rivoluzione khomeinista, quando frotte di studenti iraniani che popolavano le nostre università, le nostre assemblee e le nostre lotte, si affrettarono a rientrare nel loro paese per sostenere quella che immaginavano come una rivoluzione marxista (una “rivoluzione contro il Capitale”, come all’epoca titolò persino l’autorevole settimanale del Pci “Rinascita”) e che presto si risolse nell’instaurazione del regime fondamentalista e liberticida della Repubblica islamica. Analogamente mi pare assai incauto, oggi, leggere l’attuale movimento di rivolta contro il regime come una promessa di democratizzazione, laicizzazione e occidentalizzazione dell’Iran (ovvero come l’ennesima tappa della magnifica e progressiva laicizzazione, democratizzazione e occidentalizzazione del mondo): una lettura certo conveniente, sul piano geopolitico, al fronte occidentale in guerra contro i regimi “autocratici”, ma non sappiamo con quanti effettivi riscontri nella società iraniana.

Del resto, è proprio l’egemonia femminile nel movimento di rivolta a suggerire chiavi di lettura diverse e più complesse. Perché se da un lato dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, quanto la rivolta antipatriarcale sia centrale e cruciale ad ogni latitudine del pianeta e nella crisi di civiltà che tutto il pianeta sta vivendo, dall’altro lato è l’esito di una libertà femminile che in Iran è cresciuta senza tradursi nel lessico occidentale dei diritti, come sa bene chiunque abbia visto una mostra o un film di una interprete finissima della società iraniana e al contempo di quella americana come Shirin Neshat. E’ il miracolo della “libertà senza emancipazione” delle donne iraniane – come titolava un numero profetico della rivista femminista “Via Dogana” del giugno 2002 – che oggi ci regala i suoi frutti.

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